Tra eredità problematiche e venti di novità
l lancio di una nuova espansione di World of Warcraft è sempre un momento magico, e quello di Dragonflight non è stato da meno. Negli ultimi anni la storica realtà virtuale di Blizzard Entertainment era andata infoschendosi sotto i nembi tempestosi di scelte narrative e sistemi di gioco estremamente impopolari. Si è arrivati a un segno tale che la scorsa espansione, Shadowlands, rischia di passare alla storia come la più odiata di sempre. A Dragonflight è toccato dunque in sorte l’arduo compito di lacerare quella lunga ombra, per ritrovare al di là di essa quel fascino tipicamente warcraftiano da cui le storie e gli scenari alieni di Shadowlands si erano allontanati.
Non solo: occorreva ripristinare la fiducia dei giocatori, scottati da anni di design discutibili, scandali e disastri comunicativi, dando inizio a quel processo di rinnovamento di cui avevo scritto alcuni mesi fa, e di cui il re degli MMORPG aveva disperato bisogno. C’è da dire che anche nei suoi momenti peggiori, World of Warcraft è sempre stato un ottimo videogioco, mentre noi appassionati siamo sempre stati incontentabili. La nostra è una cultura tanto vivace e partecipe, quanto critica ed esigente. Nonostante tutto, anche grazie alle dimostrazioni, da parte degli sviluppatori, di maggiore ricettività verso le istanze della comunità, Dragonflight è giunto sui nostri schermi in un clima di nervoso, cauto ottimismo.
La scoperta di un nuovo, antichissimo continente
L’emozione del lancio, frammista alla paura della delusione, si era addensata in un senso di anticipazione tangibile. Il 28 novembre, allo scoccare della mezzanotte, dal molo di Roccavento una selva di occhi setacciava l’orizzonte, alla ricerca della nave che avrebbe traghettato il popolo di Azeroth verso le tanto desiderate Isole dei Draghi. Non è andato tutto liscio, ma a modo loro anche i prevedibili inconvenienti tecnici (e i momenti di gioco emergente che ne nascono) fanno parte del fascino del primo giorno. Almeno finché non diventano eccessivi, ed eccessivi non sono stati. Alla nave, che tardava ad arrivare, si è sostituito un portale, e dopo qualche caricamento interrotto eccoci lì, sulle Sponde del Risveglio, pronti a perderci in un altro mondo, in una fantasia ridesta.
Una volta messo piede sulle Isole dei Draghi, l’ansia e l’attesa ci hanno messo poco a sciogliersi in meraviglia, stupore, sete di avventura e di scoperta. Il cambio di passo rispetto alle Terretetre è stato subito evidente. Raggiungiamo le nuove isole come parte di una spedizione non strettamente militare, ma esplorativa, scientifica, civile, che dà il via ad un’avventura dai toni decisamente ottimisti e distesi, guidandoci attraverso i paesaggi maestosi e suggestivi delle isole.
Se le Sponde del Risveglio sono rigogliose e caotiche, solcate da canyon profondissimi, alte cascate e colate laviche, le Pianure di Ohn’ahra si distendono sotto i nostri occhi come uno sconfinato oceano erboso, le cui verdi vastità sono percorse al galoppo da bande di centauri cacciatori. A sud, nella Vastità Azzurra, tra fitte conifere e gelidi ghiacciai, gli amatissimi Tuskarr conducono le loro relativamente pacifiche vite di pescatori, mentre i cieli tra le guglie vertiginose di Thaldraszus sono solcati dai draghi dei vari Stormi, finalmente di ritorno nella loro antica dimora di Valdrakken.
La storia principale ci porta ad attraversare ognuna di queste aree, non solo alla ricerca dell’eredità perduta degli Stormi dei Draghi, ma anche, se non soprattutto, alla scoperta dei popoli e delle culture che animano quelle terre. La nostra missione per il risveglio del potere degli Aspetti, sotto la minaccia incombente di Raszageth e dei Primalisti, che mirano a purificare Azeroth dalla presenza dei Titani e delle loro creazioni, fornisce quel tanto di gravitas che basta a non avere l’impressione di essere in gita scolastica. Tuttavia è proprio nelle attività secondarie che la narrativa di Dragonflight brilla davvero: nelle storie delle popolazioni locali, in quelle che la terra stessa racconta, ma anche, se non prima di tutto, nelle stesse meccaniche di gioco.
Oltre alla solida avventura principale, Dragonflight propone infatti un effluvio di attività secondarie, che a momenti narrativi più leggeri e triviali, affiancano storie dalle mire drammatiche più spiccate: la devozione e il sacrificio di un giovane soldato, il rimpianto millenario di un vecchio drago tormentato dai propri fantasmi, l’amara vergogna di un vecchio orco del clan Fauci di Drago che cerca di fare i conti con i propri orrendi crimini, ma anche unioni gioiose, storie romantiche, ricerche scientifiche dal sapore ambientalista. Per tacere dell’inclusione non timida né insensibile di personaggi non cisgender e relazioni omosessuali, anche in ruoli di primo piano. Soprattutto a fronte delle grette resistenze di parte della community, è rinfrancante vedere Blizzard accentuare e maturare ulteriormente la propria attenzione verso queste realtà minoritarie.
Il ritorno di vecchie suggestioni, il rilancio di una nuova sensibilità
World of Warcraft non ha mai sofferto la mancanza di storie tematicamente ricercate e acute, ma mai prima d’ora aveva posta tanta enfasi su pretesti narrativi che non siano “sconfiggi i cattivi”, mai prima d’ora le missioni avevano provato ad esplorare con tanta insistenza questioni umane che non necessariamente pertengono alla sfera della violenza e della guerra. Non che manchino occasioni di conflitto: il sempre ottimo gameplay si basa sull’utilizzo di abilità per colpire i bersagli con più forza possibile. Tuttavia trovo che il vecchio motto di Blizzard, “gameplay first”, qui venga a realizzarsi secondo modalità molto più complesse e mature.
Vediamo quindi il primato dei bellatores, delle gesta eroiche di un’aristocrazia condottiera, stemperarsi più che mai, e in tempi da record, nell’innovazione medioevale del tema amoroso. Accanto alle lotte tra clan di centauri, reminiscenti delle reputazioni Gelkis e Magram, prendono uno spazio notevole anche matrimoni e corteggiamenti. Questa novità non può che imprimere all’esperienza di gioco momenti meno guerreschi, in cui vediamo i vecchi sistemi di Warcraft flettersi e dare prova di grande versatilità per intercettare questa esigenza interattiva. Non a caso alcuni viri sui forum ufficiali hanno avanzato lamentele e capricci, vedendo restringersi, per così dire, i propri spazi rappresentativi.
Lo sforzo di Dragonflight è dunque duplice, e contradditorio solo in apparenza. Da un lato recupera gli immaginari fantastici tradizionali e gli elementi folkloristici del vecchio Warcraft, cercando di coccolare e rassicurare gli appassionati, di farli sentire a casa. Questa funzione è svolta dal ritorno alla terra di Azeroth, ad un mondo più tangibile e razionalizzabile, ma anche dagli elementali in tumulto, dal tema centrale degli Aspetti dei Draghi, dal sentore di Nagrand e di Colli Bradi, dalla presenza importante di Tuskarr, Gnoll e Centauri, che indubbiamente hanno risvegliato un senso di confortevole familiarità nei giocatori più anziani.
Dall’altro lato però Dragonflight rilancia la vena warcraftiana più recente e scandalosa, quella delle allegorie politiche, dell’inclusività, della ricchezza tematica, della proposizione di modelli estetici e culturali (e quindi ruolistici) che non si esauriscono nella figura dell’eroe bellicoso, ma si dimostrano invece aperti ad uno spettro ben più ampio di suggestioni fantastiche, in grado di raccontare un mondo e un’umanità ancora più policromi che in passato. Questo lavoro di conciliazione è forse l’impresa più intelligente e originale compiuta da Dragonflight, un lavoro di cui World of Warcraft aveva bisogno, ma che nessuno, che io sappia, aveva esplicitamente suggerito.
Un mondo più aperto e interattivo che mai
L’innovazione passa anche attraverso una concezione del gioco (qualcuno l’ha chiamata “filosofia”) più vicina alle esigenze dei giocatori, meno costrittiva, più rispettosa del loro tempo. Per esempio, per la prima volta da molte espansioni a questa parte, in Dragonflight è possibile volare fin dall’inizio. Tutto quello che bisogna fare è sbloccare la meccanica del Volo Draconico, che apporta una significativa innovazione rispetto al volo tradizionale di World of Warcraft. Quella che prima era una meccanica di trivializzazione del movimento e degli spazi di gioco, qui diventa un lavoro attivo che richiede la costante attenzione del giocatore. Volare in Dragonflight significa infatti consumare una risorsa per sfrecciare in avanti, librarsi in volo, prendere velocità, sfruttare il momento e l’inclinazione per riuscire a coprire più distanza possibile. Sfruttando bene questa meccanica si riescono a coprire distanze notevoli ad una velocità prima impensabile, probabilmente resa possibile anche dai miglioramenti nella distanza di realizzazione dei modelli. Se invece non si fa attenzione, è facile ritrovarsi a terra a rigirarsi i pollici, in attesa che la stamina si rimpingui a sufficienza per poter ripartire.
Non solo quindi in Dragonflight si può volare fin da subito, non solo è un volo notevolmente più veloce di quello tradizionale, ma è anche una divertentissima meccanica di gioco che richiede l’attiva partecipazione dei giocatori per essere sfruttata al meglio. Ecco che allora le grandi distanze e la spiccatissima verticalità di Dragonflight assumono un nuovo significato, e la lontananza smette di essere una scomodità, diventando invece in sé stessa un’occasione di divertimento. Non guasta neanche la possibilità di intraprendere gare di velocità, sbloccare potenziamenti per il drago trovando dei glifi sparsi in giro per la mappa, personalizzare i propri draghi cambiando loro corna, scaglie, denti, armatura e così via. Alcuni giorni fa mi è persino capitato che un giocatore rifiutasse l’evocazione per un dungeon, sostenendo di starsi divertendo di più a raggiungerci in volo.
Nonostante il Volo Draconico sia la nuova caratteristica più in vista, e forse quella destinata ad avere più fortuna negli anni a venire, la corrispondenza tra gioco, temi e atmosfere in Dragonflight si esprime anche in moltissime meccaniche minori. Blizzard ha costellato il mondo di interazioni che vanno dal mero flavour a sistemi ricorrenti. Ci si può arrampicare lungo pareti rocciose, si possono percorrere i corsi d’acqua a bordo di zattere, scattando fotografie alla fauna locale, i centauri nomadi spostano i propri campi in giro per le praterie, i Tuskarr possono insegnarci a pescare sotto il ghiaccio, la rivalità tra Irathion e Sabellian per il comando dello Stormo Nero si trasforma in un sistema di missioni volte ad avvantaggiare una delle due fazioni. Ma può anche capitare di aprire per curiosità una pergamena incantata e ritrovarsi trasformati in una sedia per un minuto. Anche la reputazione ha visto un’evoluzione significativa, fondendosi con il sistema di Fama di Shadowlands: man mano che si svolgono attività per conto delle varie fazioni, si avanza nei livelli di Fama, sbloccando ricompense cosmetiche, nuove meccaniche, ricette per l’artigianato, nuove missioni e così via.
Nuove ali con cui volare, nuovi incantesimi da lanciare
Insomma, Dragonflight è un’espansione in cui la narrativa passa prepotentemente dal gameplay, in cui le meccaniche e i sistemi di gioco sono forse gli strumenti principali attraverso i quali il mondo si racconta e, soprattutto, attraverso cui si realizza la fantasia ruolistica dei giocatori, mai prima d’ora così libera e vitale. A questo si accompagna una maggiore attenzione ai dialoghi, più fitti e con più scelte dialogiche, ma anche una maggiore cura riposta nei filmati, più frequenti e meglio girati che in passato, che raccolgono i frutti delle innovazioni proposte nel corso di Shadowlands.
Non posso purtroppo parlare in modo approfondito dei Dracthyr, la nuova razza giocabile, che introduce la classe degli evocatori. Sono sempre stato prima di tutto un cacciatore, e anche in Dragonflight ho scelto di mantenere viva questa tradizione. Posso tuttavia dire che si tratta di un popolo affascinante: nati in antico come esercito artificiale di Neltharion, queste creature draconiche si risvegliano dall’ibernazione solo per ritrovarsi in un mondo stravolto rispetto a quello che conoscevano, in cui devono conquistare il loro spazio a colpi di incantesimi, che fondono le diverse nature magiche delle diverse flotte, vigorosi colpi d’ali in grado di sbalzare via gli avversari, ma anche rapportandosi con gli altri popoli di Azeroth.
Il giocatore può dunque avvalersi di un sistema ricchissimo di opzioni per la creazione del proprio Dracthyr e della sua forma mortale, la veste estetica d’elezione che questi evocatori possono usare per interfacciarsi con le altre genti dell’Orda e dell’Alleanza. Le implicazioni di questa scelta sono a dir poco positive, visto che i Dracthyr, nella loro forma originaria, sono privi di qualsiasi carattere sessuale morfologicamente distinto. Il sistema è simile a quello dei Worgen, con la differenza che la forma draconica permette non di muoversi come una cavalcatura terrestre, bensì di librarsi in volo con un sistema simile a quello descritto pocanzi.
Talenti e professioni
Forse l’innovazione più fondamentale apportata da Dragonflight è però l’introduzione degli alberi dei talenti, che vanno a sostituire il sistema introdotto con Mists of Pandaria. Sotto l’influenza benefica di Classic e del suo successo, Blizzard ha infatti deciso di rielaborare l’intero sistema di progressione. Con ogni livello ora si ottiene un punto da spendere in due alberi, uno generale per la classe e uno dedicato alla specializzazione. Al di là delle questioni di bilanciamento e di progettazione delle classi, che per Warcraft rappresentano uno sforzo costante ed inesauribile, i nuovi alberi dei talenti non solo consentono di cambiare i propri talenti ovunque, ma anche di salvarli in preset che possono essere importati o esportati e che, sopra ogni altra cosa, restituiscono al giocatore la sensazione che il proprio personaggio sia davvero proprio, che sia possibile evolverlo secondo il proprio gusto, anche privandosi, in base alle sfide che si desidera svolgere e alla mera preferenza personale, di abilità che altri considererebbero fondamentali. Questo significa anche che esiste il rischio molto concreto di costruire personaggi tutt’altro che funzionali, o addirittura di andare a rompere, per così dire, il comportamento di alcune classi, visto che molte delle abilità che prima erano fisse, sono ora opzionali. Tuttavia credo fermamente che dare più autorità ai giocatori in quello che, ricordo, è prima di tutto un gioco di ruolo, sia qualcosa da lodare e da accogliere a braccia aperte.
Le novità non si limitano al combattimento: come dicevo, in Dragonflight questioni più civili e pacifiche assurgono ad una maggiore importanza sul piano narrativo. Ne segue che anche le professioni hanno goduto di un’operazione di rifacimento, la più imponente e radicale dal 2004 ad oggi. Ora le professioni offrono non solo delle specializzazioni in cui spendere punti, onde migliorare le capacità del proprio personaggio in una direzione o in un’altra, ma si avvalgono anche di un equipaggiamento dedicato, atto a potenziare le capacità di artigianato o di raccolta dei nostri personaggi. Così vedremo gli alchimisti gironzolare con i loro cappelli a punta, gli scuoiatori impugneranno un coltello e porteranno sulla schiena le pelli raccolte, i fabbri si copriranno il petto con i loro grembiuli di cuoio.
Si tratta di un cambiamento epocale, non solo perché ora le professioni sono semplicemente più divertenti, dotandosi anche di interazioni con il mondo di gioco più variegate e interessanti, ma anche perché valorizzano le scelte dei giocatori, mettono in risalto il loro intento ruolistico tanto sotto un profilo estetico quanto ludico. Come se non bastasse, a questi cambiamenti si accompagna l’introduzione del sistema degli Ordini d’Artigianato, per cui i giocatori, accanto alle tradizionali case d’asta, possono farsi committenti di ordini specifici, indirizzati al pubblico, alla gilda o anche ad un artigiano specifico. Il committente mette a disposizione i materiali, stabilisce una commissione, e l’artigiano interessato può soddisfarla.
Tramite questo sistema è anche possibile, di fatto, vendere oggetti che altrimenti sarebbero BoP, vale a dire vincolati al costruttore e non trasferibili ad altri giocatori. Essendo ancora nelle prime settimane, è difficile dire se questo nuovo sistema resisterà alla prova del tempo, ma dal poco che ho potuto saggiarlo l’ho trovato brillante, non solo per la comodità, ma anche perché consente effettivamente la creazione di rapporti di clientela abituali tra committenti ed artigiani. Ci si fa un nome, si torna a rivolgersi a chi ha realizzato un buon lavoro, si formano comunità. Ed essendo le professioni anche dipendenti dal rapporto con le fazioni, Dragonflight riesce a costruire una sorta di ecosistema in cui le diverse meccaniche si rispondono tra loro, e tutte contribuiscono a rafforzare la capacità ruolistica dell’espansione.
Una progressione all’insegna della libertà
La parte migliore però è che quanto ho descritto finora è del tutto opzionale. Il contrasto con Shadowlands non potrebbe essere più marcato. Se durante la scorsa espansione la Fama era un grind necessario (ancorché poi alleviato in aggiornamenti successivi) da affrontare su ogni personaggio per ottenere incrementi di potere, qui non lo è. Laddove Shadowlands obbligava al lento e ripetitivo ottenimento di pezzi leggendari e condotti, Dragonflight non ha alcun sistema del genere. Tutto è sostanzialmente facoltativo, e chi volesse avanzare nel gioco senza mai svolgere una singola missione mondiale, senza coltivare le reputazioni, senza interagire con le professioni o con il sistema degli Ordini d’Artigianato, sarebbe libero di farlo. Tutto ciò che conta, nel determinare la potenza del proprio personaggio, sono i talenti e l’equipaggiamento.
La fonte primaria di equipaggiamento, nonostante l’importanza rivestita dall’artigianato e dalle missioni mondiali, restano incursioni e spedizioni. Non è un aspetto del gioco che credo di poter approfondire (e taccio sul PvP, non essendomici mai cimentato con serietà), in parte perché trovo che i tempi siano prematuri, essendo noi ancora all’inizio della prima stagione, ma anche perché il contenuto PvE istanziato ha sempre trovato in World of Warcraft un’eccellenza indiscussa, e sembra intenzionato a replicare in Dragonflight il successo che lo caratterizza da sempre. Di importante c’è la reintroduzione delle spedizioni, opportunamente aggiornate, di precedenti espansioni nella rotazione Mythic+, che dovrebbe smorzare il problema della ripetitività nel lungo termine osservato durante gli scorsi anni.
L’espansione è perfetta, il videogioco un po’ meno
A giudicare dalle caratteristiche elencate finora, Dragonflight potrebbe forse sembrare priva di mancanze: sistemi più aperti, maggiore enfasi sul gioco di ruolo, una nuova classe e razza giocabile, il Volo Draconico, l’aggiornamento delle professioni e dei talenti, un mondo vivace e interattivo, attraversato da una narrativa densa, informativa, dalle forti mire tematiche e capace di spaziare oltre il classico motore drammatico della violenza, per esplorare più ampie ispirazioni. Si perdonerà l’entusiasmo di un vecchio appassionato, ma in effetti Dragonflight ha tutte le carte in regola per essere considerata un’espansione pressoché perfetta.
Eppure qualcosa ancora manca, non tanto per una negligenza o trascuratezza di Dragonflight, ma perché il processo di rinnovamento che gli sviluppatori hanno intrapreso eccede di molto la portata e le possibilità di una singola espansione, ed è destinato, se vuole essere davvero completo, a protrarsi almeno per qualche altro anno. Dragonflight è un’espansione eccellente, miracolosa persino, che ha soffiato nuova vita in questo gigante degli MMORPG, ha ripristinato la fiducia dei fan, ha invertito coraggiosamente la rotta e fa bene, meravigliosamente bene, tutto quanto c’era invece di problematico nelle precedenti espansioni.
Tuttavia World of Warcraft nel suo complesso è molto più di Dragonflight. Ci portiamo ancora sulle spalle il peso di contraddizioni vecchie di anni, di un mondo che a colpi di toppe è diventato un arlecchino disordinato e confusionario, un garbuglio inestricabile di linee temporali che si sovrappongono in un caos asincronico poco digeribile per dei nuovi giocatori, e non certo piacevole per quelli più navigati; ma anche vecchi sistemi inerti, tutt’altro che intuitivi, lasciati a morire in espansioni passate, e un percorso introduttivo che costringe i nuovi avventurieri a percorrere, dopo un tutorial funzionale ma dalla narrativa discutibile, l’avventura di Battle for Azeroth, senza avere la possibilità di istituire un rapporto ruolistico con il mondo, senza viverlo attraverso gli occhi del proprio popolo, senza entrare davvero a contatto con la cultura della propria razza o classe.
Dragonflight le azzecca davvero tutte, è la materializzazione delle speranze più deluse e sospirate, ha recuperato il fascino dell’ambientazione di Warcraft, acuendone ulteriormente il potenziale espressivo. L’espansione si è reinventata più libera, più aperta, più rispettosa, più ruolistica, più divertente di quanto le sue progenitrici potessero sognare di essere. In vita mia non ho mai visto World of Warcraft più in salute di quanto lo sia ora. Ma se Dragonflight si è rivelata un gioiello, rappresenta solo l’inizio di quella metamorfosi di cui Warcraft aveva bisogno, e prima che WoW , nella sua generalità, possa essere considerato davvero come un videogioco rinnovato, in grado di offrire un’esperienza coesa e strutturata in ogni sua parte, la strada è ancora lunga. Ma è anche, senza ombra di dubbio, la strada giusta.