Il manga di Taku Kuwabara, Driting Dragons, prova ad offrire una visione diversa dalla concezione dei draghi, pur riuscendoci soltanto a metà
Inizialmente previsto per il mese di gennaio e poi lentamente sparito dai radar, è arrivato a sorpresa, nei primi di maggio Drifting Dragons, adattamento anime del manga di Taku Kuwabara.
L’opera, arrivata in patria all’ottavo volumetto, ha iniziato a riscontrare lentamente sempre maggior interesse da parte del pubblico, tanto da meritarsi le attenzioni dell’importante emittente Fuji TV (+Ultra) e del colosso dello streaming Netflix, desiderosi di metter mano all’interessante materiale di partenza per portare sugli schermi un prodotto interessante, fresco e per certi versi innovativo.
Dopo aver letteralmente guardato tutto d’un fiato i dodici episodi che compongono la serie, affidata alle mani del Polygon Pictures (già al lavoro su prodotti come Ajin: Demi-Human e Knights of Cidonia, giusto per fare qualche esempio a tema), siamo pronti a tirare le somme su un prodotto che ha saputo alternare con una costanza quasi ossessiva momenti di grande ispirazione ad altrettanti passi nel vuoto abbastanza incomprensibili, rimanendo comunque, nel complesso, discretamente interessante da seguire, seppur con qualche riserva. Preparate bene l’attrezzatura, dunque, si va a caccia di draghi!
Da grande vogli fare il… draghiere!
La storia, che affonda le proprie radici in un mondo fantasy dalla collocazione cronologica tutt’altro che semplice da inquadrare, trascina lo spettatore all’interno di un immaginario stravagante e variopinto in cui il piatto forte (nel senso stretto della parola, credeteci) sono i sempre affascinanti draghi.
Seppur in Drifting Dragons essi siano rappresentati con un taglio decisamente diverso rispetto agli standard del settore, basteranno pochi momenti per comprendere quanto le titaniche creature siano centrali nell’economia della produzione che, lentamente, tenta di approfondirne le usanze e di comprenderne sempre di più le peculiarità con costanza e perizia.
Se i draghi sono il piatto forte dell’anime, i “veri” protagonisti, ossia gli umani, appartengono all’equipaggio della gigantesca nave volante Queen Zaza, una struttura adibita alla caccia dei draghi. Il mestiere del “draghiere”, così come viene detto più volte dagli stessi protagonisti, è una scelta di vita tutt’altro che semplice da abbracciare, ma allo stesso tempo affascinante come poche. Solcare i cieli alla ricerca delle arcaiche creature è di fatto una missione che nasconde insidie continue ma, nel mondo di Drifting Dragons, viene considerata alla stregua di un lavoro come gli altri, chiaramente con le dovute differenziazioni.
In questo contesto, dunque, si muovono le avventure di quella che potremmo definire la protagonista della storia, la giovane Takihita, nuova arrivata e più giovane membro della ciurma, e degli altri draghieri più in vista dell’equipaggio, alla ricerca costante di nuove prede per poter portare avanti senza intoppi quella che è a tutti gli effetti una vera e propria attività commerciale. Andare a caccia di draghi non è uno sport né tanto meno una pratica senza alcun fine, anzi. Lentamente, con l’incedere degli episodi, Takihita, e di conseguenza anche lo spettatore, verrà letteralmente travolta da un quantitativo di nozioni di cui era completamente ignara, che con costanza accompagnano la traversata della ciurma da un polo all’altro durante tutto l’arco della stagione.
Nel mentre, chiaramente, la serie non manca di approfondire temi diversi, come l’amicizia e l’amore, i problemi legati a un passato difficile da ricordare o alle ostilità di un carattere arduo con cui rapportarsi col prossimo, in un mix narrativo che complessivamente risulta piacevole da seguire ma che, arrivati alla fine della corsa, sembra sin troppo insipido e inconcludente sul piano dell’evoluzione di una storia stessa che non riesce ad arrivare realmente da un punto A ad un punto B.
Drifting Dragons: Monster Hunter incontra Food Wars!
Se la trama di fondo dunque non risulta esattamente ispirata e particolarmente interessante, ciò che rende decisamente più accattivante l’opera è la cultura stessa che si nasconde e man mano si schiude davanti allo spettatore, dietro alla caccia ai draghi e soprattutto alla conoscenza di essi, decisiva e fondamentale per portare a casa la pelle ma soprattutto il bottino.
Prendendo “ispirazione” da un colosso come Monster Hunter, in primis, l’anime di Drifting Dragons palesa una concezione estetica innovativa e, se vogliamo, “rivoluzionaria” della stessa figura dei draghi, qui ben lontana da quei tratti caratteristici iconici e che tutti noi siamo stati abituati a conoscere. Dimenticatevi, quindi, tutto ciò che pensate di sapere sui draghi, perché Drifting Dragons azzererà rapidamente tutte le vostre convinzioni in materia, portando su schermo creature ben diverse da quelle note, sia sul piano estetico sia sotto il profilo comportamentale.
Abbiamo citato Monster Hunter non a caso, poiché spesso viene associata la parola “drago” anche a creature che, almeno da un punto di vista estetico, col termine in questione sembrano avere ben poco da dividere. E qui, in tutta onestà, viene fuori con forza quello che è uno dei tratti peculiari più interessanti di tutto il lavoro del mangaka, il quale riesce, partendo proprio da una modellazione estetica delle creature, a donare all’opera un’identità tutta sua, che affonda le proprie radici nel desiderio di distanziarsi dalla massa in qualche modo.
Andando avanti con la visione degli episodi, poi, si entra in contatto con un’altra importante verità, perfettamente contestualizzata con la natura del manga e dell’anime ma non per forza di cose condivisibile sul piano morale. Un po’ come accade con molti animali reali, nell’immaginario imbastito dal sensei nipponico i draghi rappresentano appieno quel terribile concetto del “non si butta niente”, che non a tutti potrebbe far piacere. All’interno di Drifting Dragons, infatti, la caccia al drago è una questione complessa e delicata, anche e sopratutto sul fronte economico e commerciale, poiché, appunto, delle gigantesche creature ha un grande valore praticamente ogni cosa.
Se in qualche modo ci siamo abituati a “vedere” in commercio la pelle del drago, gli artigli o ancora le zanne, qui ci si siamo imbattuti in varianti ben diverse e finora pressoché sconosciute. Basti pensare, ad esempio, all’Olio di drago, il quale si preleva (e lo si vede chiaramente in uno degli episodi) direttamente dal cervello delle creature, e non tutte sono in possesso della quantità necessaria per l’estrazione, una scena che ci ha rapidamente fatto tornare in mente quanto tutto questo sia attuale nel mondo reale.
Coerente con ciò. il pezzo forte è di quelli che non ti aspetti: ciò che veramente vale a peso d’oro, nonché la fonte di guadagno principale della caccia ai draghi, è la carne, che nel mondo di Drifting Dragons rappresenta una di quelle prelibatezze irresistibili e difficilmente spiegabili. Abbandonando i lidi di Monster Hunter, allora, l’anime strizza l’occhio con convinzione a produzioni quali Food Wars, in cui spesso e volentieri si assiste a scenette i cui protagonisti assoluti sono la carne e soprattutto il modo in cui essa viene lavorata, speziata e cucinata per donarle il sapore che merita. Sotto questo aspetto spicca con forza la natura di uno dei protagonisti principali dell’anime, il buon Mika, uno strampalato ma devastante cacciatore di draghi con la passione per la cucina o, per meglio dire, per il cibo, che in più di un’occasione sembrerebbe essere una delle poche cose che popolano la sua tutt’altro che semplice mente.
Un cast ricco, ma nel complesso dimenticabile
Drifting Dragons si pone la non semplice missione di abbracciare, in qualche modo, anche le complesse meccaniche da slice of life, cercando di far comprendere allo spettatore quanto difficile sia la vita di tutti i giorni anche per chi, sulla carta, fa una vita affascinante e avventurosa.
Tra lavori umili e utili, come la pulizia dei bagni o il lavaggio dei vestiti, dal fare il bucato alla catalogazione degli oggetti utili, l’anime ci offre un’inquadratura a trecentosessanta gradi della vita del draghiere e, nella fattispecie, di come essa viene interpretata dai vari membri dell’equipaggio. Ciò è chiaramente un ottimo espediente per approfondire la conoscenza dei vari membri del cast, la cui mole numerica, però, spesso non va di pari passo con quella narrativa e iconografica.
Tralasciando qualche piccola eccezione, tra cui spicca come dicevamo anche in precedenza il buon vecchio Mika (seppur parecchio stereotipato e “semplice” nel suo essere estroverso), il giovane Giraud (al cui arco narrativo raccontato nel manga si ispira buona parte della serie animata) e la bella Vannie, il resto del cast risulta praticamente anonimo, ma non tanto per i meriti dei personaggi precedentemente elencati, quanto più per i demeriti altrui. Ci riferiamo soprattutto alla necessità di “correre” dell’adattamento anime in sé, che non riesce ad ampliare né a strutturare il background narrativo nemmeno della stessa protagonista di Drifting Dragons, il cui sguardo (ma anche molte linee di dialogo) sembra nascondere un passato difficile che, probabilmente, ha avuto un ruolo decisivo anche nella scelta dell’insidioso lavoro, ma che non viene mai veramente esplorato.
Il risultato di tali scelte offre un quadro complessivo decisamente spoglio, che rende difficile da parte dello spettatore l’empatizzare con i vari protagonisti della storia o, più semplicemente, riuscire a ricordare quali sono stati e perché avrebbero dovuto lasciare un segno dopo aver portato al termine la visione dell’anime.
Un’esplosione cromatica, ma con qualche difetto!
Sul piano meramente estetico, il lavoro svolto da Polygon Pictures è nel complesso molto valido, soprattutto se si vanno ad analizzare elementi quali la realizzazione dei draghi stessi e degli scenari.
Entrambi, già molto curati nel tratto e nella realizzazione grazie ad un ottimo impiego di una CGI impreziosita da una veste in Cell Shading molto godibile, vengono ulteriormente impreziositi da una paletta cromatica imponente, a tratti “violenta”, il che rende la caccia alle gigantesche creature a volte veramente inebriante da vedere. La vasta e curata pigmentazione dei coriacei nemici è sicuramente uno dei punti più alti toccati dalla produzione, che riesce ad estendere la stessa cura anche a elementi quali il cielo, l’acqua e soprattutto il cibo, con particolare attenzione chiaramente alle pietanze preparate con la carne di drago.
La resa cromatica dell’anime, molto valida e viva, si scontra però duramente con quello che è il vero difetto principale sul piano tecnico, ossia le animazioni. Complice anche lo stile scelto per l’adattamento animato in sé, alcuni passaggi appaiono innaturalmente lenti e poco coerenti, in particolare quando si vanno ad esaminare le animazioni facciali, troppo spesso innaturali e, come dicevamo poc’anzi, caratterizzate da un sensazione di “lag” difficile da digerire. Anche i dettagli degli interni risultano a volte troppo spogli e ripetitivi, cosa che va a cozzare non poco con la vastità e l’accuratezza di una concezione degli ambienti esterni ben più viva e soprattutto ampia.
Il discorso tecnico e artistico sull’opera continua con un comparto audio di tutto rispetto, soprattutto se si analizza la colonna sonora, curata da Masaru Yokohama. Le musiche che accompagnano le gesta dei draghieri della Queen Zaza sono a tratti splendide, quasi solenni, e vengono impreziosite da una opening di grande impatto, curata dal giovane cantautore Yoh Kamiyama (Gunjo) e da una ending meno preziosa ma comunque di ottimo livello (Zettai Reido), a cura della band rock tutta al femminile Akai Ko-en.
Drifting Dragons: un anime da (non) perdere?
Drifting Dragons è un anime onesto, senza infamia e senza lode, che prova a innovare e rinnovare il settore utilizzando gli “immortali” draghi come protagonisti, ma con molte rivisitazioni sul tema. L’adattamento animato dell’opera riesce a portare su schermo un prodotto interessante ma che risulta sin troppo acerbo e spoglio sotto molti punti di vista, soprattutto quello di un cast poco interessante e di una trama di fondo difficile da inquadrare (anche “cronologicamente” nell’economia della storia), che rende impossibile (o quasi) empatizzare nei confronti di un’opera che, per ora, sembra non avere le carte in regola per raccontare una storia veramente capace di espandersi col passare del tempo. Il tutto viene accompagnato da una resa visiva piacevole, ma non esente da problemi di sorta (alcuni anche pesanti), che non riesce a salvare un progetto che ci sentiamo di rimandare, metaforicamente, a settembre.