Alle origini del drinking tour
A chi ha dimestichezza con la cultura pop nipponica, non di rado sarà capitato di vedere i protagonisti del suo videogioco – gli yakuza dell’omonimo franchise dalla mente di Nagoshi Toshihiro, o ancora il sicario un po’ pervertito di Killer Is Dead (2013) di Suda 51 – o serie animata – l’atipico slice of life Love is Like a Cocktail (2017) – preferiti avventurarsi in un drinking tour per locali alla ricerca di una solenne sbronza.
Infatti, nonostante la serietà e lo zelo di cui molti giapponesi fanno mostra, la loro propensione all’ubriacatura è tutt’altro che un’invenzione degli anime, storicamente – oltre che scientificamente – attestata: le prime testimonianze contenute nelle cronache cinesi della dinastia Sui (VI-VII sec.) sul popolo di Yamato – l’antico nome dell’odierna prefettura di Nara, usato metonimicamente per l’intera isola dello Honshu – parlano dei dignitari giunti dall’arcipelago in missione diplomatica come di uomini rispettosi dell’etichetta e delle gerarchie, ma che diventano rumorosi e incontrollabili dopo pochi sorsi di liquore.
Non fatevene un’idea sbagliata però: come in tutti i paesi, anche in Giappone esistono un momento e un luogo opportuni, al di fuori dei quali un simile comportamento sarebbe bollato come meiwaku (disturbo, scocciatura). E proprio per consentire il mantenimento dell’ordine pubblico in metropoli sovraffollate, l’industria dell’intrattenimento ha dato vita a soluzioni alternative onde non rinunciare al tradizionale piacere del bere, una di quelle differenze squisitamente “aliene” che anche il semplice turista non può fare a meno di notare.
Per un vostro ipotetico drinking tour, ecco quello che dovreste assolutamente sapere.
Quando e perché si beve?
«Per dimenticare», verrebbe da dire, e non sarebbe poi tanto lontano dalla realtà. I massacranti orari di lavoro dell’impiegato medio – a poco sono valse le recenti leggi per la diminuzione degli straordinari, dal momento che la maggior parte di essi vengono richiesti in via ufficiosa dal caposezione, o vengono addirittura effettuati su base volontaria – sono tristemente noti come prima causa di suicidio, e a Tokyo non è raro vedere rispettabili salaryman in giacca e cravatta barcollare fino alla stazione più vicina, o direttamente seduti sulla banchina ricoperti dal proprio vomito – ci scusiamo per questa immagine alla Lucifer Valentine ma è davvero all’ordine del giorno, tant’è che gli altri pendolari quasi non ci fanno caso.
Il drinking tour è uno dei pochi atti “eversivi” socialmente tollerati e serve a scrollarsi di dosso lo stress, a spezzare la monotonia e, per chi vive in zone periferiche, anche a risparmiare tempo in vista del rientro mattutino in ufficio – il che spiega la pletora di negozi di camicie e cravatte a buon mercato intorno ai quartieri del divertimento.
Non che i giapponesi amino bere da soli: la principale funzione del consumo di alcol è ovviamente la socialità e vi si ricorre per instaurare e rafforzare i legami tra gli appartenenti a uno stesso gruppo, dal club universitario all’azienda, dall’associazione di vicinato al partito – i cosiddetti kōenkai, circoli privati con cui i singoli politici fidelizzano il proprio corpo elettorale.
I nomikai (alla buona “bevute in compagnia”) non sono un evento straordinario ma un appuntamento fisso, e per chi vi partecipa costituiscono l’unica occasione per conoscere i colleghi – essenziale soprattutto per chi lavora in azienda, dove i nuovi dipendenti non ricevono una formazione specifica ma vengono trasferiti di sezione ogni due anni. Il rovescio della medaglia è che, quanto è vero il motto «in vino veritas», è possibile che vengano a galla malumori o si commettano oscenità – ricordate il traumatico drinking party di Kazue in Grotesque (2008) di Kirino Natsuo? Sta qui all’abilità del “capo” mantenere i festeggiamenti sui giusti binari senza con ciò guastare l’atmosfera di licenziosità, che consente al gruppo di ritrovare l’equilibrio perpetuando così i rapporti di forza vigenti. A fine serata quel che è successo rimarrà comunque inter nos, nel bene e nel male.
Cosa e dove si beve?
Il modo più veloce ed economico per sbronzarsi in solitaria è entrare in un combini – i minimarket aperti 24 ore su 24 – e prendersi una Strong Zero, il popolarissimo drink frizzante della Suntory al gusto di frutta – o di benzina, a seconda delle interpretazioni – con gradazione compresa tra i 4 e gli 11 gradi, quanto basta per mettere K.O. un giapponese adulto con una lattina da 40 cl. In generale gli highball, ovvero i cocktail a base superalcolica allungati con succhi o bibite, sono molto apprezzati per la facilità con cui si scolano – la prima impressione è appunto quella di stare bevendo un analcolico – e vengono spesso pubblicizzati come bevanda femminile, in contrapposizione alla birra tipicamente associata al maschio e a una sana amicizia virile – vedere gli spot per credere.
Come già detto però la filosofia di vita dei giapponesi non è il solipsismo alcolista, e al momento di scegliere dove recarsi con la propria compagnia per iniziare un drinking tour due sono le alternative fondamentali: izakaya o pub.
I primi sono le tradizionali “taverne”: ci si accomoda sui tatami senza scarpe, con un tavolino all’altezza del busto sul quale sono poggiati un campanellino per chiamare la cameriera – preferibilmente vestita con uno yukata da lavoro senza decorazioni –, una pezzetta umida (oshibori) con cui detergersi il viso e le mani, e un posacenere – in Giappone è ancora consentito fumare nei locali. Prima delle ordinazioni viene servito d’ufficio un antipasto a base di edamame (fagioli di soia) o insalata di patate, seguito da una vasta gamma sia di stuzzichini – i più gettonati sono gli yakitori (spiedini di pollo alla griglia) e il tofu fritto – che di liquori di riso tra cui scegliere: solitamente si inizia da quelli a più bassa gradazione come il soju coreano, per poi concludere con qualcosa di forte come l’immancabile sake o lo shōchū.
Anche nei momenti di massimo affollamento, una volta che si è trovato un posto libero si può rimanere seduti per ore a chiacchierare, senza l’obbligo di continuare a consumare nel frattempo.
Diversa l’esperienza che si può avere in un british pub, a Tokyo chiamati “habu” dalla storpiatura di HUB, la catena più diffusa nell’area del Kantō – astenetevi dall’usare il termine se capitate a Okinawa, dove lo habu è una razza di serpente velenoso. Contrariamente alla tradizione albionica, anche qui il menù comprende diverse pietanze – soprattutto occidentali – con cui riempirsi la pancia prima di iniziare a bere, ma la varietà è limitata: punto di forza degli habu è semmai l’ampia scelta di birre di importazione e di cocktail dal nome anglosassone – se la vostra pronuncia inglese è buona avrete difficoltà a farvi capire, meglio usare il nihongo eigo (inglese “nipponizzato”).
Come strategia per massimizzare i profitti, gli hub propongono combinazioni a prezzo scontato di birre e cocktail a contenuto alcolico medio-basso, di modo che il cliente sia costretto a fare due/tre ordinazioni prima di iniziare a sentirsi ciucco: sappiate infatti che pochi minuti dopo aver vuotato il boccale, lo staff verrà a chiedervi se volete dell’altro invitandovi, in caso contrario, ad andarvene. Può sembrare strano vista la proverbiale attenzione per il cliente degli esercizi commerciali – in effetti entrare in un negozio sarà l’unica occasione in cui vi capiterà di sentire un giapponese usare l’onorifico nei vostri confronti –, ma il ricambio deve essere continuo, soprattutto nel fine settimana quando gli ingressi vengono persino contingentati e cronometrati.
Per questa ragione i giapponesi in libera uscita si sono abituati a passare da un locale all’altro, talvolta programmando in anticipo il proprio itinerario così da ottimizzare i tempi in funzione dell’ultimo treno notturno – l’ultima corsa è intorno alluna, ma le linee principali cessano il servizio a mezzanotte.
Se siete a Tokyo, una zona nata per i drinking tour è il Golden Gai, sub-quartiere di Shinjuku composto esclusivamente da localini: anche se negli ultimi tempi gli avventori sono quasi solamente gaijin, è uno scorcio unico e andrebbe visitato finché si può – come capitato al mercato del pesce di Tsukiji, in vista delle Olimpiadi il governo programma di “riqualificarlo”, ovvero di spostarlo o raderlo al suolo direttamente.
Tappa comune dei drinking tour è il bar, un ambiente a prima vista meno informale rispetto ai due di cui sopra ma dove la socializzazione tra estranei, a differenza di altri contesti, è contemplata e incoraggiata dagli stessi baristi, che attaccano volentieri bottone coi bevitori. È anche uno dei pochi posti dove i cocktail non vengono annacquati e i barman danno l’idea di sapere quello che stanno facendo, e da cui si può uscire in compagnia anche se si era entrati da soli.
A questo punto un buon proseguimento di serata potrebbe essere il karaoke, la cui declinazione nostrana poco ha a che fare con l’originale giapponese.
I karaoke-kan sono palazzi adibiti esclusivamente a luogo di svago, con centinaia di stanze insonorizzate – quelle ai piani alti delle vere e proprie suite per le grandi occasioni – in cui si può cantare a squarciagola senza tema di far sentire ai vicini quanto siamo stonati, scegliendo da un catalogo comprendente brani autoctoni, cinesi, coreani e occidentali – perlopiù hit americane, ma se cercate bene troverete qualche vecchia gloria del Bel Paese. La consumazione è obbligatoria e le tariffe notturne, specie nei quartieri più alla moda come Shibuya, sono un po’ salate – fino a 1500 yen/ora a persona –, ma è sicuramente la sistemazione più economica per chi ha deciso di aspettare l’alba ed è stanco di pub affollati.
Analogamente ad alcune catene di ristorazione, anche i karaoke offrono serate nomihōdai e tabehōdai (lett. “mangia/bevi a volontà”) a un prezzo fisso: tenendo d’occhio il calendario e scaricando l’app dedicata si può quindi concludere un drinking tour collettivo a un prezzo accessibile, senza bisogno di allontanarsi dal proprio cubicolo soundproof a caccia di provviste.
Choose your fighter!
Per brevità non abbiamo potuto elencare tutte le opzioni più stravaganti per una serata alcolica – sappiate che ci sono anche a locali a tema dove gli uomini devono truccarsi e vestirsi da donna, o pensati appositamente per le signore di una certa età in cerca di un amante gaijin –, ma il consiglio che vi diamo è proprio di scoprirle da soli. Lo sviluppo verticale delle grandi città giapponesi fa sì che anche in un sotterraneo possa nascondersi il posto adatto a voi, dove dopo un certo orario le “creature della notte” – giovanissimi/e impiegati negli host/hostess club, prostitute, gigolò, uomini d’affari delusi dalla vita – si riuniscono per rilassarsi, e magari scambiare qualche parola in inglese con lo straniero di turno. Un’esperienza che senz’altro non dimenticherete, col benestare dei postumi da remon sawā.