Con Dune, Denis Villeneuve porta il cinema al suo massimo livello
uando uscì la notizia che Denis Villeneuve avrebbe girato Dune, nelle redazioni, tra i cinefili, nelle varie bolle social, non si parlò di altro per giorni.
Sarebbe stato all’altezza???
Ma all’altezza di cosa, precisamente? Di certo non dell’audace ma imperfetto adattamento di David Lynch.
Come in ogni campo, anche qui è fondamentale chiarire quali sono le aspettative e a cosa sono dovute. Un adattamento cinematografico, soprattutto se di un romanzo quasi biblico come quello di Frank Herbert, è appunto un adattamento, poiché fa in modo che un’opera si trasformi e trovi una nuova collocazione, giocoforza diversa dall’originale, in nuovo medium. Questo non vuol dire che l’originale venga cancellato. Si tratta di due opere a se stanti, diverse, ed anzi l’adattamento – che riesca o meno – il più delle volte implica la volontà di omaggiare un prodotto che si ritiene valido, finanche eccezionale, come in questo caso.
Al contempo, esistono opere che hanno un fandom estremamente conservatore, che non guarda di buon occhio la possibilità di un qualsiasi adattamento, a prescindere dalle motivazioni, a prescindere da chi sia a metterci le mani.
Parlando di Dune, del resto, ai tempi Lynch era una sorta di garanzia, per quanto sia sempre stato naturalmente stravagante e anticonformista, tuttavia sappiamo bene come andò.
Un altro che tentò senza riuscire fu niente di meno che Jodorowsky. L’idea dell’autore era quello di un adattamento di circa 14 ore, con un ruolo da protagonista per Salvador Dalì, oltre alla presenza di Orson Welles e Mick Jagger. Troppo folle persino per lui, e difatti cassato. Questo esperimento tuttavia venne ricordato in un documentario del regista croato-americano Frank Pavich, dal titolo Jodorowsky’Dune, che parla di questo progetto, suggerendo che sebbene il film dell’artista cileno non abbia mai visto la luce, sia comunque riuscito a gettare una lunga ombra creativa, con il lavoro di pre-produzione del graphic novelist francese Moebius e dell’artista svizzero HR Giger in grado di influenzare Star Wars, Alien e gran parte della fantascienza cinematografica successiva.
In ogni caso, anche questo dovrebbe farci capire che sia sbagliato reputare un’opera intoccabile, per quanto perfetta.
A maggior ragione poi se il progetto finisce nelle mani di uno come Denis Villeneuve, che chiunque capisca un minimo di cinema non può non apprezzare, anche al di là dei gusti personali.
La sua visione, le sue capacità registiche, il suo abile volteggiare con la telecamera e l’intelligenza nel circondarsi sempre dei migliori protagonisti (tecnici e artistici) su piazza, hanno infatti permesso al regista di regalarci finora una serie di film assolutamente riusciti, che anche solo restando in campo sci-fi avrebbero dovuto da subito rassicurare i fan: Arrival e Blade Runner 2049.
Se poi una delle priorità per la riuscita di Dune è il comparto estetico, il secondo rappresenta proprio una garanzia. Non ho timori nel dire che Blade Runner 2049 abbia una delle migliori scenografie degli ultimi 20 anni (SCANDALOSO che Dennis Gassner non abbia ricevuto il premio Oscar) e una fotografia altrettanto mirabile (Roger Deakins). Con interpreti diversi, sottolineiamo come anche Arrival avesse un comparto tecnico da 10.
Proprio su questo voglio puntare, parlando del Dune di Villeneuve. Le scenografie, la fotografia, i costumi, le musiche rappresentano probabilmente il meglio che il cinema attuale abbia mai proposto fino ad oggi. Si tratta di un’opera visivamente ipnotica, onirica, estremamente coinvolgente, cinematograficamente sublime. Dal punto di vista estetico, definirlo film mi sembra riduttivo: dovremmo chiamarla Opera d’arte.
Già prima della cerimonia degli Oscar ero certo che avrebbe fatto incetta dei premi tecnici, vincendo musiche, sonoro, fotografia, scenografia, effetti speciali, montaggio, e così è stato, perché era inevitabile.
Del film in sé, del cosiddetto “adattamento” poi se ne può parlare.
Villeneuve ha dichiarato da subito che si tratta di una “Part One”, quindi “solo l’inizio” del ciclo di Herbert, e di fatti affronta in modo consono una piccola parte della storia, evitando tutti quegli eccessi in cui ha fallito Lynch e le avversità che hanno fermato Jodorowsky.
Pur nella complessità generale, Villeneuve e i co-sceneggiatori Jon Spaihts ed Eric Roth sono stati maestri nel fornire una trama di base chiara, che sa quasi attualizzarsi per come ci viene presentata, ovvero una storia in cui ricchi signori si contendono le risorse in una vasta regione sabbiosa, molto redditizia ma anche piuttosto ostile. Ci sarà pure altro che vi parrà familiare, e tanto di già visto nei precedenti lavori del regista, soprattutto quando si ha a che fare con ciò che vola: passare dagli spinner e le auto volanti agli ornitotteri e le astronavi, per lui è un gioco da ragazzi.
“I sogni sono delle belle storie”, dice il Duncan Idaho di Jason Momoa, “ma tutto ciò che è importante accade quando siamo svegli”. Per ora Villeneuve è stato eccezionale nel mostrarci i sogni, non ci resta di vedere cosa accadrà quando saremo per forza costretti a svegliarsi, ad iniziare dalla seconda parte.