Dunkirk: come avvicinarsi alla perfezione
In un mio speciale su Nolan, tempo fa, prendevamo spunto dal libro di Massimo Zanichelli per parlare dell’alterazione del tempo lineare come strumento chiave per la comprensione del cinema del regista, avvicinandola all’incombenza della morte. Avevamo fatto notare che questa avviene in una modalità che varia a seconda dei film e di ciò che Nolan vuole comunicarci, passando pertanto dall’alterazione reversibile di opere come Memento (e Following) a quella disallineata di The Prestige, finendo con quella circolare di Inception. Dunkirk rappresenta quasi un atto inclusivo di questa tendenza, riuscendo in pratica ad unirle tutte, annichilendo lo spazio-tempo.
Un concetto che all’apparenza potrebbe sembrare estremamente complesso, ma che pochi minuti di visione dell’ultimo suo masterpiece, dissiperanno schiarendo le vostre menti.
Il film ci racconta l’evacuazione di Dunkerque nella seconda guerra mondiale, ed è portata sullo schermo da un cast formato da nomi noti ed attori feticci del regista, come Tom Hardy e Cillian Murphy, ma comprendente anche tanti interpreti eccezionali, emergenti e non, tra cui Fionn Whitehead, Tom Glynn-Carney, Jack Lowden, Harry Styles, Aneurin Barnard, James D’Arcy, Barry Keoghan, Kenneth Branagh, Mark Rylance.
Tempo al tempo
Come dicevamo: il tempo. Nolan risolleva la clessidra e la mette di traverso, strutturando Dunkirk attraverso tre linee narrative che si intrecciano tra di loro, dando vita ad una narrazione – ovviamente – non lineare, che si attorciglia allo schema di base nolaniano, tessendo una tela fatta di tutte le modalità di racconto delle sue precedenti opere.
La prima linea temporale comincia sulla terraferma e copre un’arco di una settimana; poi c’è la seconda, in mare, e dura un giorno; infine la terza, che si svolge nei cieli e ha la durata di un’ora.
Ma cos’è, sostanzialmente, Dunkirk? Un film di guerra, potrebbe suggerire qualcuno. In realtà Nolan ha da sempre dimostrato di essere avverso ad un genere definito, riuscendo nel tempo ad accarezzarli tutti ma in un modo incredibilmente autoriale, riempiendo di nolanismo ogni sua opera.
Dunkirk non fa eccezione, anzi. Potremmo definirlo un film di guerra, sì, del resto l’argomento alla base della storia è il già citato esodo dalla spiaggia francese durante il secondo conflitto mondiale, ma il modo di narrarci i fatti è ancora una volta unico ed inimitabile.
Nolan ha studiato ed osservato tutti i capolavori di genere, ma quello che porta sullo schermo è un prodotto totalmente diverso da ognuno di quelli visti fino ad ora.
In primo luogo viene naturale notare che il solito patriottismo di questo tipo di opere venga sostituito da una sorta di dichiarazione d’amore del regista al suo popolo, l’Inghilterra, in una cronaca di una vicenda che ha sempre sentito “sua” e che ha avuto il desiderio di raccontarci, sentimenti che emergono in maniera prepotente durante la visione. Nolan infatti aveva in mente questo film già da molti anni, ma ha voluto girarlo solo nel momento in cui si è sentito pronto a farlo, ed anche per i motivi di cui vi abbiamo parlato, legati alle connessioni (temporali e non) delle sue opere.
Così, similmente ad Inception, di cui iniziò a scrivere la sceneggiatura 10 anni prima del ciak numero 1, l’idea di Dunkirk gli balenò in testa in questo caso addirittura agli albori della carriera (non è chiaro il momento esatto, ma probabilmente ancor prima di Following). Rispetto però alla complessa opera con DiCaprio protagonista, dove troviamo testimonianze di schizzi, bozze e soggetti vari, depennati ed aggiornati continuamente nel marasma di frecce che caratterizzano la sua preproduzione, Dunkirk si pone dall’altra parte della barricata, evidenziando un modo di fare che obiettivamente ci spiazza.
La sceneggiatura del film infatti prevedeva solamente 76 pagine, ed anzi è recente l’indiscrezione che il regista abbia addirittura pensato di girare senza script. Assurdo per un maniaco dei dettagli come lui, ma in fondo in linea con le fondamenta dell’opera in questione, che corrisponde ad una viscerale dichiarazione d’amore, in un certo senso (ma a lui perdoniamo tutti, anzi, ce ne beiamo) anche verso se stesso, in un tripudio assoluto di narcisismo che fa impazzire i suoi fan più accaniti.
Da questo trionfo di passione, nasce un film che è invece tutt’altro che istintivo, e che tecnicamente (e non solo) esalta la sempre certosina cura del cineasta.
Torna quindi “il tempo”, perché col passare dello stesso la storia si sviluppa attraverso atti di eroismo o vigliaccheria, tipici della natura umana, arrivando comunque ad una dimensione eroica, avvalorata in primo luogo dalla caratterizzazione dei personaggi e soprattutto dal loro essere tutti soli a modo loro, e tutti protagonisti.
Non c’è quindi un vero personaggio principale, ma è il contesto a portare la bandiera. La paura, quell’elemento spesso al centro delle sue opere, qui si fa pressante e diventa protagonista in 106 minuti di lotta per la sopravvivenza. Una lotta contro se stessi e – soltanto poi – con il nemico.
Nolan tutto questo ce lo fa vivere in maniera diretta e con un devastante impatto visivo (un altro dei cardini del suo cinema), giocando a mostrarci il punto di vista dei soldati inglesi e della loro paura e le reazioni alla stessa, nascondendoci invece il nemico, che diventa una sorta di demone immaginario.
Scelta svelata già dal trailer, con quel gruppo di soldati ammucchiati e stretti come sardine in una scatola, che cercano disperatamente di proteggersi dalla pioggia di fuoco. Un’immagine che racchiude simbolicamente il significato del concetto appena enunciato.
Le loro storie sono ancora una volta pretesto per gli intrecci narrativi e temporali di quel signore dietro la macchina da presa. Figure dal background ignoto, al servizio di qualcosa di più grande, ovvero il film, in una sorta di macabra metafora col soldato e la guerra. Eppure i loro sentimenti li percepiamo e ci danno una botta allo stomaco, con il loro modo di essere autentici, eroici e protagonisti ognuno a modo loro, ognuno distante dall’altro, sia temporalmente che narrativamente.
Tra questi val la pena citare Tom Hardy, che con quattro battute e una maschera che gli nasconde il volto (strano, vero?) ruba la scena dei cieli, divenendone il signore incontrastato, riuscendo a farci empatizzare con lui in maniera sorprendente, regalandoci la pelle d’oca sulle braccia.
Ma Hardy non è il solo, ovviamente. Anche gli altri prestano i propri corpi a performance memorabili, a partire dai debuttanti Fionn Whitehead ed Harry Styles (sì, proprio il cantante degli One Direction) fino a istituzioni come Kenneth Branagh e Cillian Murphy.
Dunkirk è quindi un anomalo film di guerra, ma non per questo è meno bello o meno autentico di altri. Anzi, probabilmente lo è molto più della maggior parte di essi.
La struttura su vari livelli è come al solito un punto nodale, ma stavolta il suo compito è ancor più difficile rispetto alle precedenti opere, facendoci perdere in quella incantevole visione onirica in balia degli sfasamenti temporali e narrativi, in cui il “quando” sostituisce sempre il “dove”, sia nelle teste dei protagonisti che nelle nostre.
Noi saremo proprio lì, in quel bellissimo labirinto di situazioni ed idee che parte dalla geniale mente di Nolan e si estende fino alla nostra, trainata da un’esaltazione di una realtà visionaria e al contempo metodicamente logica, di suspense e di intrecci, il tutto scandito dalle note del maestro Hans Zimmer, che compone una soundtrack invasiva e fantastica, che ha il compito di accompagnare tutti e 106 i minuti di questo, ennesimo, capolavoro.
In conclusione
Nolan torna a giocare col tempo, riunendo e mescolando le precedenti alterazioni dello stesso dando vita ad una nuova, sorprendente, struttura narrativa.
Dunkirk è tante cose. Potremmo definirlo un atipico film di guerra, ma è soprattutto un’opera autoriale che il regista aveva in mente da tantissimi anni e che finalmente è riuscito a regalarci, con una passione viscerale, evidenziata da uno script ridotto all’osso, circostanza assolutamente inusuale per i suoi standard. La struttura divisa in livelli, coadiuvata da un montaggio fantastico; l’impatto visivo strabiliante; la certosina cura dei dettagli, della trama e dei protagonisti, tutti così soli ma uniti dalla paura e dalla voglia di sopravvivere: una moltitudine di elementi che ci restituisce un capolavoro incredibile, di un regista che non finisce mai di stupirci.