Dylan Dog 401/402: Anno 666
Gli albi 401/402 di Dylan Dog sono finalmente arrivati, in un dittico storie (a loro volta parte di una saga più lunga) che ci ha presentato a tutti gli effetti il “nuovo” Indagatore dell’Incubo, un Dylan appena uscito dalla fabbrica, un modello di quest’anno completo di barba folta, sguardo magnetico, capotto e malinconia. Un eroe che ci appare completamente rinnovato eppure in qualche modo simile, con tanti punti in comune col suo vecchio predecessore, anzi con i “vecchi”.
“Vecchi” al plurale perché, se siete stati attenti lettori dylaniati negli ultimi due o tre decenni, vi sarete presto resi conto che di oldboy ne esistono più di uno. Forse non così tanti da arrivare ad un infinito numero in infiniti universi, ma sicuramente abbastanza da essere innumerevoli.
Quanti Dylan Dog esistono? Può sembrare una domanda banale, un preambolo inutile, tant’è che ciascun lettore potrebbe rispondere in maniera univoca e specifica: quello che amo. E, allora, ci troveremmo di fronte ad un numero ancora più vasto di possibili Dylan Dog, ma sarebbe solo l’ennesima conferma che la vita di questo fumetto trascende il raccontare buone storie.
Restringendo il campo al livello puramente seriale, esisterebbe semplicemente un Dylan diverso per ogni storia uscita, vista la trama sempre verticale degli albi, salvo rare eccezioni ed elementi di blanda continuità. Ultimamente, è vero, questa rosa di possibilità si è parecchio ristretta: abbiamo visto il Dylan Dog del Rilancio voluto da Roberto Recchioni, quello cristallizzato della testata Oldboy, quello (o quelli) super sperimentale del Color Fest e il Dylan bilottiano post-apocalittico del Pianeta dei Morti.
E adesso ce ne troviamo di fronte uno nuovo, che potremmo definire Dylan post-meteora, Dylan Ultimate, Dylan Terra Uno, o addirittura, seguendo l’assist lanciatoci dalla testata stessa, Dylan Dog dell’Universo 666.
Siete pronti a fare la sua conoscenza?
Uno, nessuno e centomila Dylan Dog
Questi due capitoli, Dylan Dog 401/402, dicevamo, riportano in auge una domanda che è saltata fuori spesso ma a cui in pochi (soprattutto tra i lettori) hanno saputo trovare una risposta: quanti Dylan esistono, agendo fuor di metafora e concentrandosi prevalentemente sul “canone”?
Partendo in maniera razionale e andando a ritroso nel tempo, c’è (e ci sarà sempre) il Dylan di Tiziano Sclavi, che in realtà sono tre o quattro diversi: il Dylan dei primissimi albi, dove il Tiz navigava a vista tra tentativi andati a vuoto e spunti abbandonati (L’alba dei morti viventi, Jack lo Squartatore); quello iconico dei grandi capolavori (Morgana, Storia di Nessuno, Il lungo addio); il Dylan-maschera a cui l’autore si divertiva a far interpretare i grandi classici della letteratura e dell’assurdo (L’isola misteriosa, Grand Guignol, Ucronia, L’ultimo uomo sulla Terra); e, a mio modo di vedere, anche un quarto, quello umanissimo, nostalgico e realistico subito prima e dopo il “lungo silenzio” (Marty, Dopo un lungo silenzio).
Ma sicuramente quelli marca-Sclavi sono molti di più, dirette conseguenze delle svariate passioni del suo creatore, dunque una cifra indefinibile, tant’è in quei racconti “sgangherati e sgangherabili” Dylan da addirittura l’impressione di essere multiforme, di cambiare non da pagina a pagina ma da vignetta a vignetta.
Stessa cosa, ovviamente, anche per le altre grandi firme della mitologia dylandoghiana. C’è il Dylan di Claudio Chiaverotti, detective degli orrori e cacciatore di serial killer dalla battuta pronta; quello solidissimo di Pasquale Ruju; quello fallibile e irriverente di Paola Barbato; quello sfacciato e vagamente bondiano di Roberto Recchioni e così via.
Anche ogni disegnatore ha il suo Dylan e tra questi, di sicuro, i fan hanno gioco più facile nel decidere quale sia il preferito. C’è l’originale di Angelo Stano e quello ancor più originale di Claudio Villa, quello di Giampiero Casertano, quello di Corrado Roi, di Bruno Brindisi, di Nicola Mari, di Giovanni Freghieri, di Montanari & Grassani, di Luigi Piccatto, di Carlo Ambrosini e a seguire, lungo un elenco di maestri del fumetto italiano che hanno attraversato le epoche e almeno 4 o 5 rivoluzioni.
Centinaia di Dylan diversi, forse migliaia, tra quelli che sono stati scritti, disegnati e letti e quelli che ancora sono sospesi tra le nuvole della fantasia, che ancora devono essere letti, disegnati e scritti. Questo è, in fondo, il vero fascino di questa icona. Se Tex è uno e indivisibile (c’è chi direbbe perfino “uno e trino”), Dylan è una legione, una moltitudine.
Una legione a cui, da oggi, possiamo aggiungere quello che è il Dylan Dog 666 degli albi 401/402.
Un Dylan che, a guardarlo così a pelle, sembrerebbe differente dagli altri che abbiamo conosciuto in tre decenni di storia editoriale. Potrebbe essere uno dei tanti, l’ennesimo di una realtà alternativa tra le ennesime possibili o potrebbe essere anche il Dylan Alfa, l’originale, il numero uno. E, in effetti, una volta osservato attentamente al microscopio dà l’impressione di coincidere con questo ritratto, perché incanala tante caratteristiche cardine del proto-Dylan e dei vari Dylan sclaviani.
In lui, possiamo ammirare il fascino nero e sofferente del primissimo eroe del Tiz, quel Francesco Dellamorte che è emblema del gotico padano nonché protagonista di un romanzo formidabile e introvabile e di un film dimenticabile. Ma vediamo anche, appunto, diversi elementi del primissimo Dylan Dog: un atteggiamento molto più spudorato, ai limiti del simpatico filibustiere, l’ingenuità che da sempre contraddistinguono i novellini, la voglia di menare prima e di fare le domande poi e bizzarri metodi d’indagine. In tutto questo magma d’origine sclaviana, però, c’è anche qualcosa di Recchioni, qualcosa che fa eco al suo John Doe e ad altri personaggi da lui creati.
Più su quello che c’è di vecchio, a dirla tutta, è interessante concentrarsi su cosa c’è di nuovo. Prima di tutto, ci troviamo di fronte un Dylan cinico e saccente, a causa di un passato stavolta molto più strutturato rispetto a quello costruito a posteriori nei celebrativi a colori della saga, un Dylan probabilmente più in linea con i tempi moderni, che usa Internet e che agisce in una Londra fortemente radicata nel 2020.
L’ambientazione, quindi, si è aggiornata di conseguenza, pur mantenendo intatti diversi aspetti di quella del Dylan pre-meteora. E anche i nemici, gli amici e gli orrori si sono aggiornati.
La nuovissima alba dei morti viventi
Si è parlato molto dei tipo di operazione messa in cantiere con la saga 666, che ci presenterà storie in stretta continuità in mini cicli di 6 albi gestiti da autori diversi. C’è chi l’ha paragonato alle ripartenze dell’Universo DC successive ad eventi catastrofici, in particolare al Batman: Anno Uno di Frank Miller e David Mazzucchelli, o all’Ultimate Spider-Man di Brian Micheal Bendis e di Mark Bagley e indubbiamente qualcosa di questi capolavori del fumetto c’è.
L’accoppiata Dylan Dog 401/402 sembra agire su questa linea, sembra volerci rinarrare la prima avventura di questo personaggio che assomiglia tanto a quello che ben conosciamo. Ci troviamo così davanti situazioni che ci ricordiamo bene, ma piano piano, quando meno ce lo accorgiamo, ecco che arriva la deviazione, il cambiamento improvviso, per certi versi addirittura spiazzante con cui Recchioni ci dice che no, questo non è quello che crediamo.
La storia, sulla carta, è la stessa del leggendario numero 1, L’alba dei morti viventi. La fabula non cambia bensì quello che muta quasi completamente è l’intreccio, come sottolineato dalla divisione in due parti: L’alba nera e Il tramonto rosso.
Nei Dylan Dog 401/402 abbiamo sempre un marito defunto che ritorna in vita e cerca di azzannare la moglie, la quale fa di cognome Browning e si reca da un fantomatico investigatore dell’orrore per un consulto; un mad doctor che vuole costruire un’utopia dove la morte è stata bandita; Scotland Yard, i suoi poliziotti caratteristici e un soprintendente ineluttabile; un viaggio verso un misterioso paesino della Scozia da raggiungere con un tratto in bici; una custodia per clarinetto sospetta; un’esplosione; un bizzarro assistente.
L’inizio e la fine sono le stesse del capolavoro che fu, ma quello che c’è in mezzo è nei fatti un altro racconto. Questo perché Recchioni, rimettendo mano alla sacra materia, ha agito sui suoi originali tempi morti, sul non detto, sulle sviste e le incongruenze, aggiungendo sequenze di raccordo, flashback e un background più credibile a tutte le figure coinvolte, sfruttando bene (salvo forse sul finale un po’ frettoloso) il maggiore spazio concesso.
E, per finire, inserisce il tutto nella mitologia dylaniata, nella teoria del multiverso, tant’è che se non fosse per quel “continua” in fondo all’ultima pagina penseremo di aver assistito ad un seguito o ad una variante dell’albo 43, ad un altro “sogno di nessuno”.
Non ci troviamo dunque di fronte ad un nuovo remake dell’Alba dei morti viventi, forse più ad un vero e proprio reboot per quanto perfettamente contestualizzato, anche se questa storia composta dal Dylan Dog 401 e 402 getta una luce diversa su quell’operazione compiuta all’epoca da Recchioni e Mammucari nel primo albetto de “I colori della paura”. Operazione che, tra l’altro, qui viene ampiamente citata, insieme ad un sacco di altre cose, a rimarcare il senso di collegamento, l’invisibile trait d’union tra questo Dylan 666 e il Rilancio.
Diciamo quindi che il curatore inaugura il 2020 come aveva finito il 2019: cita, cita come se al posto della penna avesse un fucile mitragliatore, portando ancora un po’ più in là il concetto di “citazione”.
Essere Dylan Dog, citando Dylan Dog
Il citazionismo è da sempre una delle caratteristiche fondanti del personaggio, forse quella più efficace in assoluto e sicuramente una delle prime chiavi del suo successo. Ed è anche, a mio modo di vedere, la sublimazione di uno degli aspetti unici del fumetto, di uno dei verbi più parlati della sua grammatica: il post-modernismo.
Il fumetto è l’arte post-moderna per eccellenza, il citazionista definitivo, un po’ per la sua doppia natura visiva e testuale che, soprattutto alle origini, lo spinge a rubare da ogni parte per operare una sintesi, un po’ perché, data la sua natura prevalentemente popolare, cerca di incanalarsi sul seminato dei grandi fenomeni di costume della narrativa di tutti tempi.
Così si spiegano Tex ai suoi tempi, Zagor, Mister No, tutti i personaggi Bonelli storici nascono dall’embrione di questo o quel genere, questo o quel personaggio, questa o quella passione per l’Avventura. Dylan non fa eccezione, anche lui emerge come prodotto della passione di Sclavi per l’orrore, solo che invece che tenerla sotto traccia ha sempre ostentato questa sua anima a forza di citazioni costanti e creandosi così un’identità forte, ecumenica.
Recchioni, fin da sempre, dai suoi primi tentativi di approccio con Dylan, ha spinto molto su questo aspetto, a volte esagerando, a volte, come nel caso del numero 400, dimostrando di poter usare l’arma prediletta di Sclavi in una maniera nuova e inedita.
Sui Dylan Dog 401/402 si ripete, solo che se prima aveva della sua il clima sognante e da fine del mondo del celebrativo, stavolta lo fa in un ambiente possibile e dando vita ad un gioco stimolante e appagante. Il lettore viene spinto a cercare tutti i riferimenti, proprio come negli albi del Dylan che fu, ma all’abituale alchimia creativa viene aggiunto un ulteriore livello di lettura. Oltre che le citazioni della cultura pop, a quelle diegetiche ed extradiegetiche, adesso troviamo il Dylan Dog 666 che cita il vecchio Dylan, un personaggio che cita una sua versione vecchia o, se vogliamo, un fumetto che cita sé stesso. Questo crea un cortocircuito costante, dinamico, che attira, seduce e poi cambia le carte in tavola all’ultimo, inatteso.
Sclavi riciclava i plot di alcuni grandi classici dell’orrore, come quello della casa infestata, dei mostri che ritornano, dei vampiri, dei morti viventi, e poi lo ribaltava, cambiando il punto di vista o aggiungendo una sua personalissima interpretazione.
Questo spingeva il lettore a fare quel passo in più, a farsi una sua idea e, in un certo senso, mostrava pure l’inattualità e la finzione di formule su cui la narrativa si era ormai adagiata.
Recchioni ha ripreso lo stesso stratagemma, solo che lo ha applicato a Dylan.
Cita Dylan, il Dylan “mitologico”, e da all’inizio l’impressione di citarlo passo passo, finché non cambia un particolare mutando completamente il senso di quella citazione. È un po’ come se volesse, riproponendo alcune situazioni classiche dell’Indagatore dell’Incubo, demolirle pezzo dopo pezzo, dire che ormai quei paradigmi sono fuori tempo massimo, che ci siamo assuefatti e che li dobbiamo mettere da parte.
Anno 666 dell’era dylaniata
Citare, spesso, vuol dire anche confrontarsi con la materia di partenza, prevede una certa cultura e anche una bella dose di faccia tosta e spirito critico. Tutte cose che all’attuale curatore non mancano, anzi.
Ed ecco che, grazie a questa prospettiva, ci si rende conto che paragonare quest’operazione del Dylan 666 all’Anno Uno di Miller e Mazzuchelli o all’Universo Ultimate forgiato da Bendis e Mark Millar, rischia di mandare fuori strada. Salvo rare eccezioni, quelle storie non volevano abbattere il mito bensì rinarrarlo con una grammatica aggiornata, più vicina al sentire dei tempi, ma lo lasciavano lì, intoccabile.
Recchioni si pone invece l’obiettivo opposto ma con un’enfasi più accentuata, con un’idea chiara in testa. Sembra avere in mente una rottamazione in piena regola, da realizzare magari sul solco della tradizione ma al solo scopo di superarla. Dove porterà quest’ambizione, ancora non è dato saperlo.
Di sicuro, ci sta portando a nuotare in acque inesplorate, anche sull’aspetto produttivo e visivo e questa svolta si avverte chiaramente nel disegno.
Ogni volta che Corrado Roi, “regista” dei Dylan Dog 401/402, pubblica qualcosa, sia qualcosa di “popolare” che di autoriale, finiamo per stracciarci le vesti, di gridare al miracolo e in alcuni casi desiderare che sia lui a disegnarci la vita. Il motivo, presto detto, è che Le Roi oltre ad essere uno dei disegnatori col tratto più personale in circolazione è anche un professionista straordinario che migliora anno dopo anno, non in maniera clamorosa ma giorno dopo giorno aggiunge qualcosa alla sua arte versatile e affascinante.
Nel Dylan Dog 401 agiva come solista, mentre nel 402 lascia il posto nei flashback ad un Francesco Dossena calato nelle scene giuste per esordire, dove ha modo di mettere in mostra il meglio delle sue forme spigolose. Ai due, alla fine, si aggiunge addirittura Nicola Mari, che lega la conclusione della vicenda precedente introducendo quella del 403. Una simile impostazione, molto più americana, non è nuovissima perché lo stesso Recchioni l’ha utilizzata più volte, specialmente su Orfani, tuttavia potrebbe avere un impatto fortissimo sulla produzione delle storie dylaniate.
Potrebbe permettere tempi più rapidi, consentendo di avere racconti più vicini al sentire contemporaneo e di cambiare anche in corsa, se possibile.
È tutto diverso, dunque, i totem sono caduti, si sono aperti dei nuovi orizzonti e chissà cosa potrà riservarci il futuro.
Benvenuti nell’Universo 666.