Riepilogo e speranze sulla situazione televisiva in Italia

L’ultima stagione di Boris, la più grande “fuori” serie italiana, si concludeva con la melanconica affermazione che “un’altra televisione”, alla fin dei conti, non era possibile. Questa rassegnazione da parte del protagonista, René Ferretti, trova le sue origini molti episodi prima, quando al regista televisivo viene data la possibilità di fare qualcosa di nuovo, qualcosa di diverso. Pian piano nel corso della stagione, René scenderà sempre più a compromessi con la produzione, gli attori, gli sceneggiatori, ma soprattutto con se stesso, trasformando così l’opportunità di una vita in un sistema già visto fin troppe volte.

Sono passati ormai dieci anni da quel tragicomico finale, ma Boris sembra non essere invecchiata di una virgola. Certo, nel campo della televisione nostrana abbiamo avuto esempi (anche molto recenti) di registi compatrioti che “ce l’hanno fatta” e sono volati in America per portare il marchio italiano in giro per il mondo. Paolo Sorrentino (ironicamente presente come cameo proprio in un episodio di Boris) e Stefano Sollima sono entrambi emigrati a HBO con le rispettive serie sul giovane Papa di Jude Law e il gangster thriller tratto da Saviano, Zero Zero Zero.

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Poi c’è Netflix Italia, che produce prodotti locali, purtroppo di poco successo internazionale. Nel nostro paese non abbiamo un corrispettivo di Dark o La casa di carta, e prodotti come Summertime e Luna Nera sicuramente non possono gareggiare. L’attenzione del pubblico internazionale sulle serie tv del nostro paese ricade però sul nostro fiore all’occhiello, il crime drama. Da Romanzo Criminale a Gomorra, fino all’ultima ondata di originali Netflix sulla scia del crimine organizzato di firma italiana. Quello che vende all’estero si è ormai consolidato nel corso dell’ultimo decennio, e difficilmente questa situazione potrà cambiare. Se invece rivolgiamo il nostro sguardo alla tv nazionale la situazione, come ben sappiamo, non è delle più rosee.

I motivi sono molteplici. È notizia di pochi giorni fa il fatto che in Italia il numero dei pensionati ha superato quello degli attualmente lavorativi. Tolta la recente pandemia globale, questo dato evidenzia non solo che siamo un paese di vecchi, ma che quest’ultimo è anche il target di riferimento di quasi la totalità dei sistemi e servizi del paese. Se la politica si rivolge quasi ed esclusivamente alla classe più anziana della popolazione, non fa diversamente la televisione nazionale. Basta un veloce zapping per notare che un vero canale per giovani non esiste. Esempi recenti di questa reticenza culturale sono stati presenti anche nell’ultima edizione di Festival di Sanremo, dove non solo vedere Achille Lauro esibirsi dopo Rita Pavone è stato destabilizzante, ma soprattutto grottesco. Se ci soffermiamo inoltre sulle pubblicità delle varie serie che la RAI propone, ci troviamo davanti a La dottoressa Giò, Don Matteo e Montalbano, ovvero “classici” che vanno avanti ormai da anni, se non proprio da decenni. E quando finalmente parte una produzione originale abbiamo Adrian

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Ma quindi, un’altra televisione nel nostro paese è possibile? Non proprio, e il sopracitato caso Netflix ne è la prova, visto che il trasferimento dal via cavo allo streaming è passato dallo stesso canale contenutistico. Una serie come Summertime altro non è che I Cesaroni sotto mentite spoglie, mentre Suburra altro non fa che proseguire l’eredità lasciata da altri. Eppure i colossi dello streaming dovrebbero avere, almeno teoricamente, un pubblico più tecnologico, e quindi più giovane.

Ma quello che manca in Italia è anche solo la concezione di pensare a una televisione diversa da quella del berlusconismo o dal servizio statale. E il problema risiede nella mancanza delle figure note come “showrunner”, di cui cultura lavorativa, qua in Italia, è quasi inesistente. Stiamo parlando di figure creative in grado di costruire serie con forti personalità e personaggi dal carattere indistinguibile. Mancano figure come quelle di David Simon, creatore di The Wire, Damon Lindelof, ideatore di Lost e The Leftovers, o anche attori/sceneggiatori come Donald Glover e Phoebe Waller-Bridge, rispettivamente le menti dietro Atlanta e Fleabag. In sostanza, mancano gli autori.

Ma il vero elefante nell’articolo è però uno solo, la mancanza di fondi per la cultura. Se, ovviamente, vogliamo considerare la televisione come cultura, e non mero intrattenimento in funzione delle pubblicità d’intermezzo. Manca la voglia di investire in un vero e proprio piano culturale vasto e diversificato. Sì, abbiamo le eccezioni (di dubbia qualità) di Sky e Netflix Italia, ma non la certezza che in un mare produttivo si possa trovare il capolavoro che è quasi certezza in HBO, ad esempio. Serie come Watchmen o Euphoria, in Italia, non si potrebbero mai fare. La prima perché nessun produttore spenderebbe così tanti soldi per un prodotto relativamente di nicchia. Il secondo perché nessun produttore spenderebbe in generale soldi per un prodotto con dei contenuti così espliciti. E in tanto i grandi autori emigrano, e il sistema si adagia su stesso e non evolve.

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Un’ultima profetica perla proveniente da Boris la dice Sergio Lopez, ovvero il personaggio del produttore. “Siamo noi la concorrenza”, sbeffeggia in faccia a René quando quest’ultimo minaccia di lasciare. In Italia non c’è una vera concorrenza e il monopolio di stato fa in modo che nessuno cerchi di fare la televisione migliore, perché non ce n’è motivo. L’arrivo di Netflix, nel nostro paese, non ha portato crolli finanziari alla tv, perché ci sarà sempre il pensionato che la Barbara D’Urso se la guarda. E quindi un’altra televisione è possibile? Forse, tra un paio di generazioni. O forse bisognerebbe lasciar crollare questo apparato e far in modo che i produttori tornino a cercare di catturare l’attenzione delle future donne e dei futuri uomini di questo paese.