Le reazioni ai voti di Cyberpunk2077 ci permettono di fare un piccolo excursus storico sui valori e sul ruolo della critica culturale italiana
Nel contesto italiano (ma non solo), molte recensioni videoludiche estere vengono considerate dei pessimi lavori per vari motivi, ma tutti in qualche modo riconducibili al tema dell’oggettività critica, che chiede uno sforzo di “depersonalizzazione”, in virtù di una valutazione tecnica il più limpida possibile. È da qualche anno che il mercato dei lettori pare chiedere questo approccio, prova ne è la sostanziale omogeneità di giudizio di quasi tutte le testate, ancora più netta se si considerano solo quelle incluse nei vari aggregatori di voti internazionali: qualche decimale di differenza è spesso percepito come uno dei più ampi possibili, mentre un voto sotto il 7,5 è mediamente recepito come indice di fallimento del prodotto in esame.
Via le opinioni sulle pratiche produttive dello studio; mettiamo da parte le considerazioni sul significato di un gioco nel contesto culturale che lo riceve; andiamo oltre le modalità di rappresentazione della società; cancelliamo la persona che scrive: il gioco è in quanto tale, è autonomo rispetto sia ai processi che l’hanno creato sia a quelli che lo ricevono, e così deve essere comunicato a chi legge.
È interessante notare come per moltissimi lettori italiani questi problemi siano dovuti a “tratti culturali americani” che, per mille motivi, impongono alla firma di “eccedere i suoi compiti“, sovrapponendo il suo provato tecnico e il suo sentito emotivo alla “reale” esperienza offerta dal gioco. Il recensore non viene visto come tale, ma come una sorta di “opinionista”, quando non un vero e proprio strumento di propaganda delle sue idee, diffuse tramite l’articolo. C’è chi attribuisce la responsabilità di questo “nuovo fenomeno” al “nazifemminismo” di matrice americana, e chi invece lo derubrica come il trionfo dell’ipocrisia tipica delle correnti più progressiste del partito democratico USA.
È ancora più curioso che moltissimi attribuiscano a certe produzioni giornalistiche italiane il tentativo di imitare queste “moderne correnti americane“, rinunciando alla razionalità tecnica per una più o meno velata urgenza di parlare di sé stessi (la famosa “agenda setting personale“, così fortemente criticata qui come al di là dell’Atlantico).
In realtà, il modello di giornalismo culturale britannico (che descrive con efficacia anche quello statunitense e canadese) è sempre stato caratterizzato da un approccio liberale, orientato dunque al soddisfacimento della domanda dei lettori con l’offerta del giornale: “se chiedete se il romanzo giallo o rosa si adegua agli standard del suo genere, noi vi rispondiamo“. Di conseguenza, del critico non è mai stata richiesta la capacità di lettura del testo calato nel suo contesto storico/culturale, ma sono invece sempre state fondamentali la sua esperienza e la sua capacità di capire la domanda del pubblico (come avviene in generale nelle logiche di mercato).
Al contrario, la storia del giornalismo culturale italiano è sempre andata in senso opposto (almeno fino al periodo tra la caduta del muro e l’11 settembre), così come in generale quella dei mondi di lingua latina (e soprattutto dell’Europa meridionale, dato che per quella centro-orientale vale un altro discorso ancora). È nel 1901 che in Italia nasce la pratica della Terza Pagina, dove penne illustri di varie arti si esprimevano su fenomeni culturali che spaziavano dalla prima del Teatro alla Scala (spesso nella “spalla”) fino alla competizione sportiva del giorno precedente (quasi sempre in “taglietto”). Tratto distintivo è stato anche l’elzeviro, articolo di “spalla sinistra” della Terza affidato a figure come Croce, Deledda, Capuana, Pirandello, che si lanciavano in riflessioni estremamente “auliche” o in racconti popolari a seconda della loro libera scelta, e usandoli come strumenti di riflessioni sull’attualità.
Il secondo dopoguerra fece esplodere le distinzioni tra il giornalismo culturale italiano e quello degli “alleati” a stelle e strisce, portando grandi cambiamenti interni al settore nostrano: già Moravia sosteneva che la Terza Pagina era oramai una creatura di compromesso, a causa dei libri recensiti con le schede valutative. Eppure, ancora oggi molti studiosi sostengono che non ci siano poi differenze così rilevanti tra la pagina culturale del quotidiano (ripeto: quotidiano) odierno e quella del giornale dei ’30 (sì, neanche il fascismo cambiò poi così radicalmente questa tradizione, all’epoca già ultradecennale).
Interessante anche notare che è sempre dal secondo dopoguerra che, data la diffusione delle idee anglosassoni che vedevano nel giornale un prodotto d’impresa, in Italia inizia il conflitto tra il “critico culturale” e il “giornalista culturale“: il primo pretende di avere funzione critica, pedagogica e aperta, il secondo funzione informativa, chiusa e cifrata. Il primo, a volte involontariamente, parla alla borghesia acculturata, alle classi più agiate, agli insegnanti, escludendo spesso il popolo; il secondo cerca attivamente la massa (che non è il popolo).
Indipendentemente dalle tendenze politiche delle varie testate (per esempio, la pagina culturale del Corriere abbracciò più facilmente queste istanze, al contrario del Manifesto), il tratto distintivo del giornalismo culturale italiano rimase quello di “usare” la cultura non come cronaca, ma “come spazio per il confronto, le discussioni, i sassi nello stagno, le provocazioni”.
Nei primi anni del XXI secolo gli storici individuano in alcuni fattori chiave del cambiamento del giornalismo culturale italiano verso un modello più anglosassone, tutti in qualche modo legati però allo stesso problema: la loro trasformazione da agenti principalmente sociali in agenti principalmente economici.
Tra gli elementi più rilevanti troviamo la presenza sempre più massicci di allegati, tra libri, film, dischi e altro, che spostano il valore testo verso quello dell’autopubblicità; la nascita di settimanali e mensili dedicati ai prodotti culturali spinge le aziende a una pubblicità ancora più generosa verso realtà capaci di targhettizare a fondo i consumatori, e di conseguenza gli editori cercano di soddisfarne le necessità orientando la linea editoriale; si indebolisce la critica, con i tempi della contemporaneità che privilegiano commenti brevi e veloci (o al massimo complessi solo nel lessico): gli spazi rimangono, ma il loro essere poco rilevanti in termini economici spinge i professionisti altrove, e a occupare i loro spazi arrivano capacità inferiori e dall’esperienza minore; nascono fenomeni come preview, segnalazioni e anticipazioni, che avvengono in assenza di prodotto completo e spesso in ambiente controllato o guidato dall’azienda produttrice, e rappresentano dunque gioco-forza un elemento di pubblicità; il mercato editoriale diventa “concentrato“, ossia pochi editori iniziano a controllarne la maggior parte (si pensi ai gruppi RcS, Espresso, Caltagirone).
Il dominio della critica culturale meramente “tecnica” dell’opera (che sia letteraria o videoludica) è dunque un fenomeno più che altro recente nel nostro paese: un approccio che astrae l’essenza del gioco dal tempo e dai sistemi che vive, cercando di calarlo in una teca di immanenza priva di alcuna influenza esterna e, spesso ma non sempre, umanità (si parla infatti di studi, non di autori, di aziende e non di persone). È qui che nasce l’incapacità di comprendere, accettare o capire recensioni come quelle di Polygon, Kotaku o GameSpot su Cyberpunk2077: sentir parlare di diritti dei lavoratori, di rappresentazione transessuale e di coerenza narrativa tra missioni secondarie e quest principale appare come un percorso educativo o pedagogico, come la pretesa di questi “tizi qualunque” di distrarci dal consumo del prodotto che abbiamo a lungo atteso, per ricordarci che anche quell’oggetto è stato creato nei sistemi che viviamo.
Ora, a me interessa ma non compete decidere quale delle due scuole sia la migliore, se quella anglosassone o quella neolatina: storici, giornalistici e critici dibattono da decenni sul tema, e ognuna di queste scuole mostra le sue problematiche (assenza di pensiero critico quella anglosassone, potenziale esclusione delle fasce basse quella neolatina, ecc.). Certo è invece che quando l’utenza si avvelena con chi fa critica in virtù di un’ipotetica tendenza a “imitare” gli anglofoni, dato il nostro desiderio di parlare di videogiochi (e cultura) come di oggetti intrinsecamente legati ai mondi che li producono, mostra solo ed esclusivamente ignoranza storica: c’è molto più Eco nella critica videoludica anglofona di quanto non ci sia Fiedler in quella italiana.
Fonti:
“Il giornalismo culturale”, G. Zanchini, Carrocci editore
“Lezioni di giornalismo”, G. Santambrogio, Scholé