Di bombe e di amori mai sbocciati
La Notte degli Oscar 2018 ha dato il suo verdetto: il vincitore assoluto è Guillermo del Toro.
The Shape of Water – La forma dell’acqua si porta a casa 4 statuette, ma soprattutto vince nelle due categorie più ambite ed importanti, ovvero il Miglior Film e la Migliore Regia.
C’era da aspettarselo? Non del tutto. Sono meritate? In parte. Comunque anche qui, non del tutto.
Iniziamo a chiarire un po’ di cose.
Dopo il trionfo in ogni dove da parte di Tre Manifesti a Ebbing, Missouri, portato avanti a gran voce dalla critica di tutto il mondo, sembrava piuttosto preventivabile il suo successo – quantomeno nella categoria Miglior film – anche nella cerimonia di Los Angeles, con McDonagh che aveva già fatto spazio sul camino per l’ennesimo premio, sacrificando magari un BAFTA o qualche vecchio theatrical award. E invece ancora una volta l’Academy ci ha stupito, consegnando a del Toro le chiavi di casa e facendolo passare dalla porta principale.
In fin dei conti però, scorrendo un po’ a ritroso nella memoria, non è nuova questa tendenza a dare il doppio premio per film e regia, al punto che per un periodo, qualche anno fa, è stata quasi una routine, ma tale propensione che potrebbe sembrare piuttosto ovvia, se analizzata meglio, non è poi così scontata. Prendete uno come Villeneueve, ad esempio, o lo stesso Nolan. In maniera del tutto differente, abbiamo a che fare con dei maestri della direzione, due che sanno utilizzare la camera in un modo impeccabile e singolare, il primo con modalità squisitamente tecniche, forse irraggiungibili, il secondo con un’autorialità senza pari e con una condotta quasi onirica, di totale aderenza allo script su cui mette sempre mano e con il quale la regia si fonde impregnandosi di esso. Possono due così ambire al premio della migliore regia, pur se a volte i loro film contengano delle imperfezioni (più per il primo che per il secondo, a dirla tutta)? Assolutamente sì.
Ora, Villeneuve stavolta non è stato nemmeno considerato per la regia, e ciò è già assurdo, vista la presenza di Jordan Peele o, con tutto il bene e la stima del mondo, di Greta Gerwig; ma possiamo capire le ragioni dell’Academy, ed un film eccellente tecnicamente ma con evidenti limiti sul fronte artistico, tra script e narrazione, si fa fatica ad inserirlo in una lista di sole 5 unità.
Ma anche qui insomma, siamo abituati a strani trattamenti. Senza andare troppo indietro nel tempo, lo scorso anno venne candidato Mel Gibson alla regia, e fu fatto fuori John Madden per Miss Sloane, film magari non all’altezza di una nomination agli Oscar ma con una direzione a regola d’arte.
Tornando però al 2018: per Dunkirk?
Il discorso qui è diverso. Il film di Nolan è stato candidato ad 8 premi Oscar, tra cui tutti quelli più tecnici, oltre al miglior film e la regia, ed ha infatti ottenuto 3 statuette molto “settoriali”, come montaggio (se qui avete qualcosa da dire, forse dovreste vedere qualche film in più), miglior sonoro e miglior montaggio sonoro.
E il resto? Il resto manc(i)a.
Chi ha letto le mie tre recensioni di Dunkirk, Tre Manifesti e La forma dell’acqua forse saprà già dove andrò a parare. Una volta appurato l’insuccesso di Tre Manifesti, un film promosso a pieni voti ma che, tolti i favori del pronostico, non ritengo un lavoro da Oscar, mi sembrava piuttosto evidente potesse essere finalmente l’anno di Nolan.
Il motivo è semplice: Dunkirk è il masterpiece del nolanismo, di un certo tipo di cinema che tecnicamente e a livello autoriale rappresenta la summa di tutto ciò che ci ha mostrato il regista londinese dal 1998 a oggi, consegnandoci 20 anni di capolavori strettamente connessi tra loro, di incredibili successi di pubblico e molto spesso (ma non sempre) anche di critica, ma anche di grandi sconfitte in quel di Los Angeles, che tuttavia non hanno messo mai K.O. il cineasta, che è andato avanti per la propria strada, continuando il suo intreccio temporale, che ad oggi supera i 1000 minuti per un totale di 10 film, illudendosi quasi che con la doppia cifra sarebbe arrivato il tanto ambito premio. E invece no. Anche stavolta la maschera dello sconforto, un sorriso rassegnato ed amareggiato ha pervaso il suo volto, quasi come DiCaprio dopo l’ennesima delusione post The Wolf of Wall Street, ma almeno stavolta non c’era lo Jonah Hill di turno a sogghignare alle spalle.
Dunkirk poteva essere finalmente il film in grado di convincere l’Academy, e forse nemmeno tanto per tutto quello detto fino ad ora, non perché fosse la summa del suo cinema, delle magistrali alterazioni temporali, ma perché nei fatti sembrava il film di Nolan meno nolaniano di tutti, al punto che anche molti di quelli che in passato l’hanno criticato hanno saputo apprezzarlo, e non in ultimo, non è stato un plebiscito, con una certa fetta di pubblico che non l’ha amato, e questo – non ce ne voglia nessuno – è un fattore.
Nulla di tutto questo ha scalfito il muro eretto dall’Academy che è andata dritta in una direzione evidentemente tracciata da molto tempo, che ha saputo resistere a tutto, in prima linea allo tsunami che ha travolto del Toro con il continuo fioccare di accuse di plagio. Prima un cortometraggio, poi un film, poi un altro, perché il mondo del cinema è così: appena si sveglia qualcuno, si svegliano tutti; e il recente caso Weinstein & co. ce lo ricorda.
Ma nonostante tutto questo, del Toro ha vinto. E ha vinto con una storia d’amore, che fa ancora più notizia. Quanti anni era che non vedevamo un film del genere trionfare agli Oscar? Bisogna andare parecchio indietro nel tempo, al 1998, quando vinse Shakespeare in Love di John Madden, o per certi versi all’anno seguente, con la vittoria di American Beauty, sebbene stiamo parlando di un diverso tipo di amore.
Questo è l’amore puro, oltre la natura umana, che travalica ogni cosa, persino le barriere artificiali dell’Academy. Ci poteva riuscire solo lui, Guillermo del Toro, uno che viene indubbiamente apprezzato da un certo tipo di critica (nonostante sia il primo Oscar), perché è un genio e come ogni genio il suo modo di fare cinema raggranella consensi da parte di chi l’arte la vive quotidianamente e sa riconoscerne i meriti.
Ora lo averete capito: non sto disprezzando la vittoria di del Toro, né il suo film, che resta per me una magnifica testimonianza della Settimana Arte, all’ennesima potenza. Un’attestazione di come si possa realizzare un film che parla d’amore, ma farlo in modo atipico e singolare, non tanto per uno script originale, perché in fondo non lo è, quanto per le sfumature fantastiche che solo un maestro come del Toro poteva donargli.
Se quindi la vittoria è concettualmente giusta e meritata, quello che non capisco è perché l’Academy si ricordi di apprezzare film del genere soltanto ora, quando fino a ieri aveva accantonato il concetto di amore in tutte le sue forme, spesso innovative ed encomiabili, da La La Land ad Animali Notturni (addirittura snobbato), da Her alle tante sfumature di alleniana dimensione. Il tutto in favore di tematiche crude o attuali o importanti o di valore sociale, come Moonlight o 12 anni schiavo, o ancora premiando il capolavoro della tecnica, come Spootlight o Birdman. O come Dunkirk, magari. Oppure The Post (forse troppo “uguale” a Spotlight o A tutti gli uomini del presidente, possiamo capirlo), o Il filo nascosto, molto “oscariano“, ma no, non hanno vinto nemmeno loro.
Quello con Nolan o con altri registi e l’Academy è un amore mai sbocciato, e che forse mai sboccerà, seppur precedenti illustri ci insegnano che non bisogna mai disperare e che prima o poi il successo può finalmente sfondare le barriere.
Stavolta è toccato a del Toro, la cui vittoria merita comunque di essere glorificata e per il quale, ad onor del vero, sono contento, perché ho amato il film e ho amato soprattutto la Hawkins, a cui avrei dato l’Oscar nonostante la performance di Frances McDormand fosse da applausi scroscianti. Ma la Hawkins ci ha fatto innamorare, divenendo la Bella di fronte alla Bestia sebbene non corrisponda ai canoni assoluti o universalmente riconosciuti di bellezza, riuscendo così, con una parabola simile a quella di del Toro a scavalcare le barriere dell’amore, racchiudendo l’essenza stessa del film di cui è protagonista e senza la quale, sicuramente, l’Oscar non l’avrebbe vinto mai.
Ma questa è un’altra storia. Quello che resta dopo la notte degli Oscar 2018, oltre al boom di del Toro, è che Nolan ha appreso che nemmeno le bombe buttano giù il fortino dell’Academy, tuttavia che se il collega messicano è riuscito a vincere con una storia d’amore allora non bisogna mai arrendersi. Perché l’amore, che sia per il cinema o nel cinema, prima o poi vince su tutto.