Novembre per me è stato un mese particolarmente duro ludicamente parlando, perché mi è toccato smazzarmi due dei giochi più grossi usciti su console, ossia Assassin’s Creed: Unity (di cui trovate i miei pareri in questa recensione e in questo approfondimento) e Dragon Age: Inquisition, la cui recensione sarà online prossimamente. Per quanto il piacere sia stato altalenante, e il secondo mi abbia decisamente accanito più del primo, devo dire che entrambi i giochi mi hanno lasciato con un certo senso di disagio. La cosa, poi, è stata ancora più avvallata quando chattando via PS4 con l’impareggiabile Eugene, si parlava di LittleBigPlanet 3 (che stava in quei giorni recensendo) e della situazione cui anche lui si trovava di fronte. A questo punto lo avrete capito, ma se state leggendo con aria intontita ve lo spiego: l’avvilimento era dato dai bug, ed a quanto essi siano diventati una norma del videogaming moderno.
Ora, non vogliamo dilungarci su cose tipo il bug “no face” di Assassin’s Creed o chissà che altro. Sono argomenti che sanno già di stantio e su cui, sinceramente, ci siamo inerpicati anche troppo. Il problema qui (che poi potete constatare tutti) è che la situazione è diventata una fottuta norma. Il problema non diventa neanche il gioco in sé, ma l’intera industria che sembra ormai incapace di proporre prodotti che non siano bisognosi di una patch o di una serie di fix. Sembra che ormai si sia perso il buoncostume di portare sul mercato un videogioco fatto e finito e si preferisca, piuttosto, accelerare così tanto i tempi di produzione da far uscire videogiochi incompleti. Pensateci: quante volte ormai vi capita di mettere un disco su per la prima volta e di essere obbligati ad effettuare un aggiornamento? SEMPRE! E questa cosa mi fa imbestialire! Con le patch day one che sono ormai una prassi, tant’è che spesso le si annuncia persino in pompa magna PRIMA dell’uscita del gioco, la sensazione di disagio nel mio cuore cresce e con essa la relativa incazzatura! Gli annuncioni, poi mi fanno girare le scatole anche di più! Che diavolo hai da annunciarmi gaiamente? Che hai aggiunto una patch al primo giorno di un gioco che sto profumatamente pagando? Ah bhe grazie mille per aver fatto il tuo lavoro! Ma non potevi farlo prima?!? Se una patch esce al day one con relativo annuncio pre-day one, allora la cosa più logica è che su di essa si stia già lavorando da un po’, mi risulta francamente difficile credere che ci si accorga di un errore gravoso (tanto da necessitare di un fix) qualche giorno prima dell’uscita mentre si fa la festa aziendale.
Ovvio che non è così. Quando una patch esce così prematura è perché si sa già che il problema c’è e si preferisce semplicemente non rimandare l’arrivo nei negozi. Perché? Per motivi economici ovviamente, perché rimandare l’uscita vuol dire perdere soldi, venire meno a certi accordi e scontentare certi fan. Ma non è forse ora di capire che i fan sono già scontenti? Questa meccanica è ormai così consolidata che certi giochi escono praticamente rotti, e il bello è che la situazione accomuna praticamente tutti i grossi esponenti nel mercato. Il problema non è che Ubisoft ci ha tirato fuori un gioco pieno di bug, il problema è che questa norma è uniforme, e se pensate che ci siano situazioni “fuori dal coro”, allora pensate male. Ho spesso letto, ad esempio, di gente che si appella a Rockstar come salvatore della patria, a questa è follia. Sebbene è vero che certe realtà ci tengano a mettere online prodotti più “puliti” e rifiniti, persino GTA V ha avuto bisogno al lancio della sua bella patch di correzione. E la lista è lunga, perché in cima al palo della cuccagna videoludica ci sono esponenti altisonanti del bug come Halo: The Master Chief Edition, Destiny, LittleBigPlanet, Call of Duty: Advanced Warfare e tanti, tanti di più. Se non vi bastasse il parere di chi ha giocato buona parte di essi allora fatevi un giro in rete, googolando i nomi di cui sopra si trovano decine e decine di esempi, e spesso anche qualche esilarante video stracolmo dei bug più scemi.
Ma perché succede tutto ciò? Da dove è partita la piaga? Come detto il primo e fondamentale problema della moderna game industry è certamente il fattore economico. Diamine… è il principale problema di buona parte dei settori produttivi del pianeta. Il punto però è un altro, perché non parliamo semplicemente di “quanto costa un videogame”, ma piuttosto di come si sia riassettato il sistema di produzione con il passare degli anni. Facciamo gli Adam Kadmon del caso e “prendete quello che vi dico al pari di una fiaba”, ma penso di dire con coscienza che tutte le moderne società di produzione videoludica peccano – almeno a guardare quel che fanno – di due fattori: il sistema di controllo qualità e il feedback con gli utenti. Sono entrambi errori di superbia? Si, assolutamente si!
L’industria di oggi è figlia del boom di ieri, e come il tizio che vince al lotto dopo anni di fatiche vive quasi di sensazioni di rendita, come a dire che “se siamo stati forti negli anni ’90 e agli inizi 2000 allora lo saremo per sempre”. Non c’è bisogno di evidenziare quanto si sia lontani dalla verità. Il controllo qualità di oggi NON PUO’ essere quello di 5, 10 o 20 anni fa. C’è una diamica che ha investito il mercato che è data dall’ingigantimento delle produzioni non solo per mezzo di budget da capogiro, ma anche e soprattutto per la mole di lavoro che un prodotto di oggi necessita. Direste mai che la lavorazione di un film dei Lumiere è gravosa quanto Avatar? No, non lo direste, e non ci vuole una laurea per capirlo. I videogame sono cresciuti, sono diventati grandi ma non hanno mai accolto la loro responsabilità con cognizione di causa. I giochi di oggi, esclusa la semplice mole poligonale (su cui COMUNQUE si lavora più che mai) sono iperconnessi, e si propongono di mettervi in mano così tante cose da fare che sembra quasi ovvio che qualcosa andrà storto. Dove non parliamo di titoli open world, ci sono giochi che cercano di proporsi comunque con ambienti enormi e ricchi di cose da fare, trovare, ammazzare, ecc. Quelli più “piccoli”, magari hanno accanto una modalità multiplayer mastodontica che, giocoforza le necessità di un sistema online, richiedono ipoteticamente un lavoro pari, se non maggiore, di qualsiasi gioco in singolo.
SI CHIAMA EVOLUZIONE
Il videogame si è evoluto ma non si sono evoluti gli strumenti per far si che esso si concretizzi in un prodotto finito. Mettere su mondi enormi, città piene di persone, o sistemi online tanto affollati da necessitare di server propri per stare su vuol dire affrontare un lavoro che NON PUO’ essere sottovalutato. Non ci si può barcamenare perché il risultato uscirà sempre e comunque fallato. I tester che si utilizzano per mettere su certi prodotti non possono andare incontro alle esigenze di una volta, perché i giochi sono sempre più grossi, sempre più ricchi, e sempre più complessi. Mi sembra ovvio che per quanto un gruppo di tester possa essere grosso, sarà sempre e comunque troppo piccolo perché si vada a pescare in ogni riga di codice, in ogni anfratto di quel mondo digitale. La soluzione allora qual è? La soluzione ci porta al punto due. Avevamo detto: feedback con gli utenti. Ed è questo il nodo gordiano. Gli sviluppatori non si fidano del loro pubblico. Pensate a robe come BloodBorne e The Crew. Perché pensate siano andati online negli ultimi giorni? Per farvi felici? Per invogliarvi ad acquistare i rispettivi giochi? Se pensate a un “sì” netto allora siete fuori strada. Si tratta semplicemente di “stress test”, ossia situazioni in cui tramite una beta pubblica si raccolgono dati di ricerca per supportare il beta testing. Il problema? Il problema è che non lo fanno tutti e spesso chi lo fa crea il tutto affinché partecipare ad una beta sembri un premio! NO! SBAGLIATO!
Questa deve essere la norma, è questo il trucco magico con cui si potrà, un giorno, raggiungere una certa stabilità onde dare all’utente prodotti migliori. Se non si può, ovviamente, investire solo nel beta testing (perché, come detto, testare robe come GTA V fino in fondo è pura follia), allora contattiamo il pubblico, solletichiamolo, rendiamolo partecipe e non diamogli contentini, ma rendiamolo parte dell’azione. Perché ad essere onesti, io mi sento già un maledetto beta tester. Ma è incomprensibile che vi debba pagare per avere “questa appagante sensazione”. Perché è così che ormai mi sento quando metto un disco nella mia console: mi sento un beta tester che paga per testare. E volete davvero dirmi che non avete mai provato sensazioni simili? Allora, se proprio devo sentirmi così, se è assodato che l’industria non riesce più a consegnare prodotti fatti e finiti, leviamoci il dente e testiamoli insieme, ma GRATIS con delle beta lunghe e aperte a cui sono invitati tutti e non solo pochi eletti. Meglio ancora no? Perché magari il feedback sarà anche migliore, più cosciente e meno incazzato e se ci dice culo il prossimo Assassin’s Creed uscirà con meno errori e più idee, con meno fail e più win.
Se il gioco ha sentito di doversi evolvere e diventare più complesso, allora deve assumersene le responsabilità. E tra queste, con i tempi che corrono, c’è quella di capire che se vuoi fare le cose in grande allora le devi fare per bene, devi pianificare e devi progettare. Perché realisticamente parlando ci siamo tutti un po’ rotti le scatole di questa situazione. Tutti i media si evolvono, ma la rivoluzione culturale va di pari passo a quella tecnica, e se si evolve lo script, se si evolve la creatività, se si evolve “il mondo digitale” allora per forza di cose si deve evolvere il design, si deve evolvere la produzione, si devono evolvere le fasi di test, e si deve evolvere il rapporto con la gente. Non per questioni di esperimenti sociali e neanche di giustizia, ma perché è il modo più funzionale è intelligente di fare le cose. Altrimenti smettetevela di lamentarvi dei bug.