Non ho ancora giocato a Bloodborne, lo farò presto, in compenso ho sviscerato i due Dark Souls e perciò penso di sapere più o meno cosa aspettarmi. Ulteriori conferme sulle mie previsioni poi, arrivano in questo periodo proprio dal sollevamento del solito tormentone in occasione dell’uscita del gioco che coinvolge buona parte sia degli utenti che della stampa specializzata.
Mi riferisco ai soliti “è un concentrato di bestemmie“, “è difficile da far schifo“, “preparatevi a soffrire” ecc. Bene. Perfetto. Penso mi piacerà. Ma per qual motivo? Perché sono un povero masochista a cui piace perdere tempo morendo milioni di volte in un videogioco? Perché mi piace dimostrare di avere la fava più lunga di tutti finendo giochi che il giocatore medio trova impraticabili? No, assolutamente. La ragione piuttosto è che mi trovo oggigiorno nella paradossale e anche un po’ bizzarra situazione di dover interpretare i commenti altrui, di dare un significato diverso da quello inteso perché la natura stessa del videogioco negli anni è cambiata. Insomma, ormai personalmente, se l’opinione generale è che un videogioco sia difficile o particolarmente impegnativo, beh… per me significa semplicemente che nove volte su dieci, si parla di un gioco BELLO. Sconcertati dalla banalità del mio “postulato”? Eppure ragazzi, è proprio così! Ma facciamola ancora più semplice. Io penso senza alcuna malizia che molte volte questo aggettivo si utilizzi totalmente a sproposito. Insomma Dark Souls o il suo seguito, NON sono affatto difficili e probabilmente, non lo sarà particolarmente a miei occhi, nemmeno Bloodborne. Ancora una volta, chi vi scrive non pensa affatto di essere il Dio del gamepad e anzi mi considero un player assolutamente nella media, semplicemente sono un giocatore a cui piace ancora impegnarsi ed avere un minimo di sfida perché questa fa parte IMPRESCINDIBILMENTE di QUALSIASI buon game design.
I videogiochi sono nati per questo, per divertire, per affascinare e oggi certo, anche per emozionare stupire e tutto quello che volete, ma trama, grafica espedienti e varie caratteristiche inserite per veicolare queste sensazioni sono diventate le protagoniste assolute della gran parte della produzione odierna. Invece a mio parere, i videogiochi dovrebbero per definizione avere un GAMEPLAY che metta le azioni e lo spirito di risoluzione del giocatore in primo piano, proporre una formula che vi faccia interagire con decisione con ciò che accade sullo schermo, in modo che più questa cerchi di chiamare in causa tutte le facoltà del giocatore, più faccia scaturire il divertimento, e se permettete, anche una certa soddisfazione nel finire un livello o battere un particolare boss. Ma oggi siamo talmente poco abituati a questo ordine di idee, che invece rappresentavano il mantra dei videogiochi dell’era pre-PlayStation, che appena lo sviluppatore prova a chiedere un impegno leggermente superiore al giocatore, subito viene considerato un sadico che si diverte con le proprie frustrate vittime con vere e proprie scelte stilistiche e di game design maligne quando non proprio sbagliate. Invece la sensazione di sfida, limitare e ostacolare il proseguo del giocatore, significa per chi crea giochi avere molte più difficoltà nello sviluppo, significa andare alla ricerca di un prodotto migliore, perfezionare i comandi in modo che siano consoni alla reattività dell’avversario, confondere in giocatore in modo positivo e consapevole, fornendo molte possibilità di approccio e affidandosi alla sua libera scelta di confrontarsi con meccaniche create apposta per testare le proprie capacità.
Ma i giocatori non vogliono più divertirsi così, vogliono solo l’illusione che ci sia davvero questo rapporto “competitivo” tra creatore e giocatore, accontentandosi quindi di una gratificazione molto meno viscerale di quella che derivava una volta dalla stragrande maggioranza dei giochi “classici” e dai pochissimi titoli moderni che seguono la stessa filosofia e che paradossalmente, spesso sono comunque infinitamente meno proibitivi di quanto lo fossero titoli come Ghosts’n Goblins, Pong, Megaman, Super Mario Bros., Wonder Boy ecc.
Da quando quindi giocare è diventata solo una questione di “finire tutto il prima possibile”? Dove è finito lo spirito contemplativo, la voglia di svelare e sviscerare un gioco nella sua interezza, il piacere di avere una sfida nelle piccole cose e nel comprendere la complessità di una meccanica o di una specifica frazione del level design? Vi fa cosi schifo non avere un checkpoint ogni cinque secondi, e nello specifico uno davanti ad un qualsiasi boss nei Dark Souls? Questa scelta può essere fatta non necessariamente per farvi imprecare oltremisura rifacendo un pezzo che avevate già concluso, ma per darvi un livello di appagamento più completo, conseguente al superamento di una sezione COMPLETA del gioco: percorso, più ostacoli, più boss finale. Ma anche per valorizzare tutto quello che c’è attorno. Avere un mondo divertente sempre da approcciare e ri-approcciare a ripetizione, si, può essere una rottura di palle doverlo rifare più volte, ma un’ottica più appassionata dovrebbe vedere la prospettiva, e in questo caso chiamo in causa nello specifico i Souls, di imparare a giocare sempre meglio, di contemplare più a lungo e più attentamente l’ambiente, trovare scorciatoie od oggetti che magari avevate perso le prime 10 volte che avete affrontato quella determinata sezione. Insomma, oggi siamo troppo abituati ad avere fretta nei videogiochi, si vuole tutto e subito, non concepiamo più che una sezione di gioco possa avere chiavi di lettura stratificate e godibili su più piani, preferiamo con occhio disattento proseguire nella narrazione nel minor tempo possibile con meno sforzo e perdita di tempo.
Le nuove generazioni non distinguono più la sfida classicamente intesa con il concetto di disonestà. Basta rompere un minimo gli argini della accessibilità e il gioco viene definito subito difficilissimo. Ma non lo è necessariamente, perché mai e in nessun caso sono richieste capacità sovraumane. Difficilissimo può essere finire Ninja Gaiden 2 a Master Ninja, o The Evil Within ad AKUMU ma in questi casi diventa la scelta consapevole di confrontarsi con una sfida estrema. In moltissimi altri, la modalità più impegnativa selezionabile rivela in tutto e per tutto la formula perfetta del gioco. Prendiamo ad esempio Sniper Elite 2, alla cui massima difficoltà si muore giustamente con pochi colpi e la balistica dei fucili da cecchino assume realismo chiamando in causa variabili come vento e distanza dal bersaglio.
Ecco, queste impostazioni di gioco determinano il massimo grado di coinvolgimento e divertimento a cui è possibile affrontare il titolo, ma secondo me è un paradosso che sia una sfida eccezionalmente intesa e non quella normale, perché credetemi, il gioco NON diventa realmente difficile ma semplicemente esprime al massimo le potenzialità della sua formula, totalmente svilita ad un più blando livello normal di difficoltà. Insomma, sempre di più penso che l’industria dei videogiochi segua con naturalezza (ma anche con estrema “paraculaggine”, vista l’indubbio sforzo minore sul piano concettuale) l’evoluzione di un medium sempre più vicino ad altri più passivi, come il cinema, che si diffonde verso un pubblico sempre più vasto e culturalmente stratificato, composto magari da persone giovani che hanno imparato che il videogioco non è fatto per metterti alla prova, e se vuoi la vera sfida devi contribuire a crearla nella community online dei molti titoli competitivi, e persone più “vecchiotte” che nonostante i trascorsi da veterani del joystick probabilmente sotto sotto non hanno più realmente voglia e tempo di Giocare (esatto, G maiuscola) ma non se ne sono ancora accorti, e magari per nostalgia di una passione persa o meno incandescente di un tempo, preferiscono giustificare se stessi dietro l’affermazione “è difficile”. Ma quello che conta in fondo, è che ognuno faccia quello che gli pare e viva il videogioco come preferisce, l’importante è che la parola “difficile” non nasconda, o peggio oscuri completamente, le qualità che può avere un titolo, perché mai come in questo periodo storico del medium, abbiamo bisogno di riconoscere i giochi belli.