Ode al Game Boy

Su tutto scusate, perché questo non è un vero e proprio editoriale. Si tratta piuttosto di uno sfogo o, se volete, di un rigurgito. Un “rigurgito di passato”, se proprio vogliamo dare a questa formula una qualche parvenza poetica. Un passato che è mio, personale, e che per questo ho pensato di trattare in forma di editoriale. Perché penso, anzi sono sicuro, che quella che è la mia esperienza sia un po’ un’esperienza comune. Non perché io sia investito di un ruolo adamitico, ci mancherebbe, ma perché sono sicuro che se ci leggi, se leggi Stay Nerd, sei uno che qualcosa da condividere con noi, con me, ce l’hai. E dunque eccoci qui, parliamo del passato, parliamo del classico. Perché questa è un’ode al classico, ai tempi che furono, è il nostro personalissimo momento amarcord: è il Game Boy.

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Questa riflessione nasce da Facebook, dalla nostra meravigliosa pagina, dove giusto una settimana fa la community ha condiviso i suoi ricordi, le sue esperienze, proprio relative alla meravigliosa portatile Nintendo. Game Boy, che era poi il simbolo di un modo di pensare il videogame estremamente smart, ha accompagnato milioni di ragazzi nel corso di un buon numero di anni della loro vita con un’idea, unica e semplice: far divertire. E lo ha fatto, con uno stile impeccabile che oggi sembra quasi agli antipodi del modo di fare dell’industria. Ma il Game Boy no, era un aggeggio magico. Io non lo so cosa avesse che altri aggeggi, nella mia vita, non hanno mai avuto. Si trattava di un qualcosa di unico, come il rapporto che nella vita stringi solo con poche persone. Quelle strette, di cui ti fidi. Nella sua pesante scocca grigia, quel mattone mi ha accompagnato per innumerevoli pomeriggi, è passato per le mani di decine di amici e parenti, ed ha bruciato così tante cartucce che non riuscirei neanche a ricordarle tutte.

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Lo ricevetti per un Natale, nella sua scatola rettangolare, in bundle con il Tetris, e lì credo che mi innamorai davvero del videogame. Del suo animo così semplice, così squisitamente plug&play. Mi viene in mente un vecchio editoriale che scrissi, quello sul Tasto Start, sulla sua immediatezza, sulla sua mancanza di pretese, sul suo fottersene del Tasto Share. Ebbene il Game Boy viveva dello stesso principio, era un enorme e granitico tasto start. Ci ficcavi dentro una cassetta e giocavi, senza occuparti troppo di dire, fare, impostare. Quel che forse dovevi fare era impostare la tua posizione… rispetto alla luce, perché altrimenti quello schermo in tinte di grigio con il suo fondo verde palustre ti avrebbe reso cieco o poco più. Ma a pensarci ho comunque l’impressione che era tutto migliore, più bello, più sorprendente. Nonostante l’arretratezza tecnologica, quel vano da quattro pile stilo, quella sua mancanza di retroilluminazione, il Game Boy vinceva comunque a man bassa sulla concorrenza passata e presente, con quella sua semplice, ma impagabile, volontà: farti giocare, senza chiederti alcunché.

mario-gameboyUna cosa lontanissima da quello che invece ci propinano oggi, ma che per me pare imbattibile nonostante la sua arretratezza. Pesava un sacco il Gameboy, ma te lo portavi dovunque. Lo ficcavi in tasca anche se in tasca non c’entrava, e quanto poi beccavi addirittura un amico che aveva lo stesso gioco, sfoderavi il tuo cavetto link sentendoti pronto per sperimentare un’esperienza da “futuro prossimo”. Tutto questo in uno schermo minuscolo, con colori pessimi e con una retro illuminazione che anni dopo arrivò come una rivoluzione, VERA, autentica. Non avevi il pensiero del fatto che andasse a pile, che fosse pesante, che fosse brutto. Non te ne fotteva della versione limited edition ed anzi, se beccavi l’amico bravo con i pennarelli, magari te lo facevi pure personalizzare, in quella che era un’antesignana scena di modding estetico. Non ti curavi che le cartucce avessero la scatola, non ti importava che gli adesivi su di esse fossero intatti, il Game Boy era come una bustina di biglie, in cui ficcavi la mano e tiravi su quello che capitava. La regola aurea era solo quella di non graffiarne lo schermo (perché altrimenti col cazzo che ci avresti più capito qualcosa) e di avere con te almeno un paio di cartucce di riserva, che tra le bestemmie di certi giochi, o l’immancabile cartuccia che non partiva, era sempre bene avere dietro “un cambio”. Il Game Boy era davvero così magico. Tanto magico che le sue cartucce avevano il pregio di sistemarsi da sole con un soffio, e tu ci soffiavi… manco fossero la leggendaria ocarina di Link… e funzionavano!

ku-xlarge Funzionavano spesso anche mezze sfasciate, bastava solo che non saltasse la pila al loro interno… quella dei salvataggi. Era la cosa più simile tra un oggetto e un amico, una sensazione assurda che non ha avuto, almeno per me, nessun altro corrispettivo videoludico. Era un oggetto del desiderio, un feticcio, un qualcosa di cui non sentivi di voler fare a meno. Se penso a dove siamo arrivati, a cellulari che processano quel che i PC processavano appena 10 anni fa (o anche meno), non posso che constatare quanto bene sia fatto nello sviluppo dei dispositivi portatili. Penso poi al videogame, ed alle sue caratteristiche “sociali”, alla sua grafica sempre più cazzuta, ai suoi contenuti sempre più “a prova di utente”… ma tutto perde di senso perché manca, a mio dire, quell’immediatezza. Quel guardare più alla sostanza che alla forma. Un principio che nella sua semplicità e, per certi versi, bruttezza, il Game Boy abbracciava in pieno.

Game Boy si merita tutte le odi di questo mondo. Perché non è stato solo la base di un modo diverso di concepire i videogame (con quei paroloni che oggi sono appannaggio di tutti come “mercato”, “users”, “usability” che allora non si accalcavano come nella bocca dei moderni e “competentissimi” ragazzini). Era una cosa diversa, che quasi non si spiega a parole. Fortunato, in modo sincero, chi come me ha vissuto quegli anni. Si dice che la vita delle persone si regga su una volta di esperienze. La mia pietra di volta era e resterà per sempre il mio Game Boy.