Il senso di invecchiare insieme ai videogame
Ho da poco compiuto 29 anni, e l’anno prossimo compirò il passo definitivo verso gli “enta”, con tutto quel che ne può conseguire e significare (premesso che capiate che sia un passo che può effettivamente significare). Crescere è un concetto basilare della biologia, così radicato nel pensiero comune che forse se ne percepisce il peso solo parallelamente ad altri tipi di consapevolezze ben più dolorose, come il distacco, la morte, o cose così. Forse è un discorso che vi suonerà banale, ma pensateci: quando avete preso consapevolezza di essere cresciuti? Quando avete capito di essere effettivamente maturati? La questione richiederebbe studi psicologici e sociali che non ci competono, eppure il discorso mi ha fatto riflettere per più di un motivo: sono cresciuto. I miei occhi, i miei pensieri, sono completamente diversi da quelli di anche solo un quinquennio fa. Il mio carattere, il mio (irruento) modo di fare è forse sempre lì, ma la mia visione del mondo è cambiata, e con essa è cambiata la mia consapevolezza.
[E3 2016] Parte subito col botto la conferenza Sony, che mostra un succoso video di gameplay per il nuovo capitolo di God of War. Dieci minuti di mazzuolamenti e feels, con l'entrata in scena del figlio di un insolitamente barbuto Kratos. Godeteveli!
Julkaissut Stay Nerd Maanantaina 13. kesäkuuta 2016
Trovare un posto adeguato all’interno della vita, senza dover per forza tirare in ballo prolisse dissertazioni sul despotismo sociale e sul welfare è forse la radice fondamentale del senso della vita stessa. Non tanto “essere utili”, ma trovare un posto. Piccolo o grande che sia, un luogo fisico e mentale in cui darsi una collocazione e un senso. È un pensiero forse pesante, persino noioso per chi di voi ha già deciso di abbandonare questa lettura, eppure è così, ed è curioso che tutto questo mi sia stato ispirato da due icone del videogaming moderno, che proprio di recente si sono (in modo diverso) ri-affacciate al mondo in modo completamente diverso da quanto non avessero fatto ai loro esordi. Come se un certo tipo di media lo avesse capito ed è curioso che quegli eroi, che oggi si presentano a noi in forma più decisa, rifinita e “matura”, siano gli stessi con cui molti di noi sono cresciuti.
Parliamo ovviamente di Nathan Drake e Kratos, beniamini dell’utenza PlayStation che dai loro albori hanno rappresentato un certo tipo di divertimento “leggero” e senza troppe pretese. Entrambi i personaggi, pur volendo essere ottimisti, hanno sempre manifestato una curiosa bidimensionalità, che in un certo qual modo li affiancava ad un concetto molto più vecchio di “sviluppo della storia”, più ricollocabile alle opere regine delle sale giochi (gli arcade) che ai capimastri del racconto videoludico. Per Nathan Drake la cosa è così evidente che giocando oggi al multiplayer di Uncharted 4 ci si rende conto che alcuni personaggi, specie i villain, erano così memorabili che proprio non ci si ricordava chi diamine fossero, salvo andarsi a leggere le bio per poi dire “ah si, il cattivo di Uncharted 1”. Per God of War il discorso è forse in parte diverso, ma anche lì Kratos è sempre stato un personaggio confinato in 4 strettissime mura di sceneggiatura, più interessato a fare che a dire di sé, tant’è che l’intero leit motiv gira attorno alla morte di una famiglia, la cui fine ci viene riproposta, e riproposta, e riproposta sino alla noia, relegando forse i migliori spunti narrativi – paradossalmente – ai due tie in portatili.
Nathan è sempre stato un guascone. Una copia ancor più piaciona del già piacione Indiana Jones, con un spirito di avventura evidentemente emulato dalla beniamina di genere, Miss Lara Croft. La storia non è mai stata al servizio del personaggio, semmai il contrario, ma un buon quantitativo di battute e strizzate d’occhio non hanno mai significato “spessore”. Nathan Drake non è mai stato un personaggio di spessore, ma più uno strumento del giocatore per procedere in un’avventura. Serrata, divertente, spesso anche meticolosamente “caotica” nel suo susseguirsi di eventi sempre più imponenti ed assurdi tra palazzi che crollano, elicotteri che cadono, navi che affondano e via discorrendo. Poi comincia Uncharted 4 e la prospettiva cambia, la storia non si infittisce nei suoi risvolti archeologici ma decide di concentrarsi sulle persone, sulla loro umanità e, come da premessa, sul loro posto nel mondo. Nathan è invecchiato, ha una casa, una moglie, un lavoro che non ricorda che vagamente la sua vocazione verso l’avventura. Vive il dramma del quotidiano che, evidentemente, gli sta stretto. Il racconto è più placido, più “lento”, lasciando che le esplosioni siano solo un lontano ricordo. “Sei felice?” gli chiede Elena, e nonostante la risposta sia “sì” non si può non soffermare sul dipinto nel salotto, che rievoca una veduta marittima che sembra richiamare un vecchio racconto di avventura di cui, certamente, è stato protagonista. I ricordi, stipati in soffitta, sono un luogo in cui rifugiarsi per poi fuggirne quasi inorridito. Uncharted 4 racconta una storia di tesori, pirati, ricongiungimenti familiari, ma questa è solo la superficie dell’acqua, che nasconde invece la rivincita sulla frustrazione e sulla propria incapacità di battere il sentiero della vita, della crescita, della maturità verso la vecchiaia.
Che dire allora di Kratos, il Fantasma di Sparta? C’è un’analisi che si può fare, di come il mito di God of War sia un meraviglioso esempio di catarsi aristotelica. Il gioco abbatte ogni barriera di correttezza e ci propone un personaggio che praticamente non ha morale, non ha ripensamenti, e così attraverso esso il giocatore sperimenta quel che non potrebbe fare, come qualcuno direbbe si possa fare in qualunque altro titolo basato sull’esplosione della violenza. Eppure la violenza in God of War, come in uno splatter movie, è così potente e sublimata da lasciare squisitamente “sazi”. È come uno schiacciasassi, che con il solo scopo di appiattire il mondo circostante, finisce per non avere altro significato oltre sé stesso. E così è per Kratos, che si spinge su di un cammino di sangue in cui il personaggio non ha interesse a porsi alcuna domanda. Il suo obiettivo è unico, ultimo, finale e lo porta avanti con la dedizione della rabbia, incontrollata e forsennata. Al di fuori del senso ultimo di God of War, Kratos non ha alcun significato. È completamente asservito al suo ideale, tanto da esprimersi per lo più per mugugni rabbiosi durante i combattimenti, lunghi e intensi, e con lunghi silenzi durante le frequenti esplorazioni che lo vedono protagonista. Ma cosa succede quando tutto arriva alla conclusione? Qual è il senso ultimo dell’aver distrutto tutto. Il vuoto interiore lasciato da God of War 3 non ha senso, ma solo una blanda giustificazione. E non è allora un caso che la presentazione del nuovo God of War sia completamente diversa dalle vecchie presentazioni della serie. C’è un Kratos dopo la tempesta, invecchiato anche lui, ed anche lui alla ricerca del suo posto del mondo. La rabbia che alberga nel suo cuore è sopita, controllata, e la ricerca di un diverso tipo di emozioni (riguardatevi il trailer e cosa il personaggio cerca di fare a uso figlio alla fine della “caccia”) ha completamente soppiantato qualunque vecchio stimolo. Ma è lì, c’è.
È curioso, a mio giudizio, che una certa fetta di videogame stiano oggi puntando a questa maturità. Quel che mi incuriosisce è che questa deviazione verso un racconto più introspettivo e maturo lo abbiano/stiano effettuando personaggi che sono sempre stati al di fuori di qualunque canone contenutistico. Il bello è che questi beniamini lo stanno facendo oggi, con una consapevolezza che si rispecchia nella mia generazione, storicamente incapace – specie nel nostro paese – di configurarsi nel miglior modo possibile verso la vita di oggi e quella di domani. Certo, i nostri bisogni sono diversi dalle mere necessità di vendita dei videogame, ma questa spinta narrativa è evidente e sensata, e per questo augurabilissima a buona parte del mercato.
Lo è sia per un mero accostamento con noi stessi, che a questo punto ci sentiamo forse più partecipi del racconto, sia per i brand in sé, che nell’ottica di un completo cambio di registro, ci propongono il loro passato in un’ottica diversa, come leggere un romanzo di formazione che abbiamo, solo in parte, contribuito a scrivere e pubblicare. E così, magari, Nathan è stato un avventuriero perché libero da ogni legame e da ogni catena, era bisognoso di evadere da un mondo in cui non è mai stato a suo agio e che dunque, oggi, mantiene un fascino romantico che non può sposarsi con i tempi della sua vita che incorre. Kratos, il cui passato è certamente più cupo, va oggi riletto come un uomo uscito dal guscio della bestia. Un assassino che ieri sembrava incapace di mostrare ogni sentimento (come, per altro, mostrato in almeno due precisi momenti della storia del brand), è che oggi invece riesce a mettere la rabbia da parte anche se per errore viene colpito da una freccia al braccio.
Se il racconto di oggi ha effetto su di noi è dunque perché siamo stati protagonisti e partecipi delle loro vite. Perché le storie di oggi, i racconti di “maturità” sono così in antitesi con le origini da lasciarci, per forza di cose, sconquassati e colpiti dalle immagini a schermo. La prima incursione con Nathan, il primo dio abbattuto con Kratos, sono oggi ricordi, a cui il nuovo strizza l’occhio in modo sapiente. È questo il modo giusto di raccontare le cose, o almeno un certo tipo di cose. Un racconto efficace è quello che ti lascia addosso un segno, un marchio, una cicatrice, sia esso un ricordo piacevole o un certo senso di disagio. Si tratta di trasformare un certo bidimensionalismo in profondità, di rendere personaggi immaginari, reali. Si tratta fondamentalmente di raccontare, e con esso non tanto insegnare, ma lasciarci riflettere. La mia generazione ha la fortuna di poter assistere a questa evoluzione del medium non solo dall’interno, ma con gli occhi di chi si trova a compiere gli stessi passi. E questo non può essere un qualcosa che lascia indifferenti, semmai il contrario. Perché anche per noi si tratta di crescere, cambiare, trovare un posto. Anche noi, chi prima chi dopo, siamo personaggi bidimensionali in cerca di spessore.