Da anni decine di produzioni videoludiche si interrogano sul ruolo del giocatore nei mondi virtuali. Oggi appare però più una scusa per legittimare la violenza, piuttosto che una sincera riflessione
Le origini del videogioco commerciale sono caratterizzate da una presenza massiccia di eroi, idraulici, guerrieri, soldati e paladini, quasi sempre al maschile, che salvano giovani pulzelle e pacifici universi da miriadi di nemici e pericoli. Nel corso del tempo, a quei giovanissimi cresciuti con tali racconti son venuti i brufoli, è esploso il testosterone ed è cresciuto qualche pelo nel pube: in breve, sono entrati nell’adolescenza.
I loro eroi si sono dunque trasformati in anti-eroi, in personaggi sì cupi e ribelli, ma in fondo pur sempre buoni e desiderosi di fare del bene, e disposti a tutto pur di ottenerlo: pistoleri senza paura ma con più di qualche macchia (Red Dead Redemption); ex poliziotti fuorilegge che affrontano la mafia (Max Payne); combattenti diffidenti degli altri ma con un gran cuore (Final Fantasy VII); ex soldati ribelli richiamati alla bromance nel momento del bisogno (Gears of War); straordinari guerrieri in cerca di vendetta (God of War).
Dato che quelle storie oramai si propongono e ripropongono da anni, secondo le regole cronologiche che caratterizzano il nostro mondo dovremmo essere entrati nell’età adulta del videogioco, e in qualche modo ci stiamo effettivamente avvicinando: sì, chiaro, nuove leve entrano costantemente nel mercato videoludico, e con loro la giusta e salutare voglia di far saltare tutto in aria, ma non ogni videogioco è così. Infatti, basta guardarsi intorno tra gli store digitali (un po’ meno in quelli fisici) per vedere che non c’è più solo voglia di “shparare e shpadare”, ma di farlo con una certa maturità.
Proprio quei brand nati come sfogo per target adolescenziali mostrano più di altri queste volontà, proprio perché su di essi possiamo riflettere i canoni del decennio precedente: Gears of War ha iniziato a raccontare cosa significa per Marcus essere padre, e lo stesso è avvenuto in God of War; Max Payne è passato dal fascino del combattente solitario e fuorilegge al dolore dell’alcolizzato e sovrappeso; Red Dead Redemption II ha allentato la stretta pop sul suo stile narrativo, cercando un’umanità molto più concreta e, appunto, matura.
Eppure, pare esserci un problema di fondo: se si guarda al tutto con leggerezza le cose sembrano completamente cambiate, ma in realtà non lo sono più di tanto. Cerco di spiegarmi.Quando si analizza un film non si descrive, ovviamente, solo la sua sceneggiatura: a colpirci sono infatti gli sguardi, il montaggio, le inquadrature, le scelte visive, le musiche e molto altro, no? A veicolare il messaggio o l’emozione sono dunque tutti i momenti, tutti i frame della pellicola. Lo stesso identico discorso si applica a tutti gli altri media, compreso il videogioco: a essere importanti nel trasmetterci la sensazione voluta dal gioco sono tutti gli istanti che viviamo di quel mondo, dalle fasi cinematiche a quelle dei menù, dalle sparatorie ai quick time event.
Ecco, io ricordo che quando sono passato dal leggere quasi solo Marvel al gustarmi anche altri fumetti, magari più underground, mi ritrovavo generalmente a descrivere cose molto diverse ai miei amici: entrambe belle, ricche, divertenti o commoventi, ma diverse! In quei testi non cambiava solo “come” accadevano le cose (ossia un tratto ricco di dettagli per il fumetto Marvel, e uno più minimalista e atipico per il volume indie), ma mutava anche il “cosa”: da un lato c’erano dei pettoruti tizi in tutina che si davano le botte, e dall’altro trovavo architetti straziati dal dolore dell’amore perduto.
Al contrario, oggi avrei una certa difficoltà nel descrivere giochi dalla narrazione “matura” come Gears of War 5 o God of War 4, perché so che la maggior parte delle cose che descriverò saranno orientativamente molto, molto simili a quelle che racconterei per spiegare giochi come Devil May Cry o Bulletstorm: uccidere, sparare, squartare, sgozzare, ammazzare, devastare, schiacciare, e… avete capito.
Le trame del videogioco desiderano maturare, lasciarsi l’adolescenza alle spalle, ma il mercato non può essere disilluso: tra scegliere di parlare a un pubblico specifico o vendere a tutto il globo terracqueo, molte delle aziende più rilevanti scelgono la seconda opzione. Ci siamo dunque ritrovati spesso di fronte a opere bicefale, desiderose di suscitare grandi sconvolgimenti emotivi nelle fasi narrative, ma comunque interessate anche a far sfogare il testosterone delle nuove orde di consumatori.Ora, che il mondo dei videogiochi abbia un problema con la violenza non è né una nuova verità, né qualcosa che bisogna ulteriormente confermare. Basta guardarci intorno: i giochi più seguiti al mondo sono imperniati sulla violenza sull’altro; da quando esistono, gli Oscar del videogioco premiano produzioni iperviolente; l’ultimo E3, secondo molti il momento più importante dell’anno videoludico, presenta tonnellate di sangue e violenza, come d’altronde fa ogni anno.
E non perdiamoci, in questa fase, in sottigliezze lessicali o concettuali: non mettiamoci a disquisire se Mario è violento perché salta sui funghi o se la violenza è tale anche quando subita. Sono temi importanti, ma non c’è bisogno di approfondirli così tanto in questa sede: basta la più limpida e chiara delle violenze, quella fisica e diretta, per evidenziare un già netto squilibrio nell’offerta mondiale del “medium videoludico”. Inoltre, inutile citare l’indie uzbeko con i sottotitoli in aramaico: sappiamo bene che la cultura del videogioco viene creata da tutti, ma la sua diffusione è, purtroppo, diritto di pochi soggetti, capaci di avere i mezzi e le risorse per agire sulla percezione di molti.
I motivi di questa tendenza sono infiniti, a partire dalla tradizione e dalla convenienza per gli studi di lavorare su qualcosa di già testato, fino ad arrivare alla facilità con la quale certe meccaniche e sistemi riescono a tenere l’utente “ingaggiato”, senza farlo annoiare o allontanare dal prodotto. In questo frangente non mi interessa però criticare la violenza sempre e comunque, primo perché è uno strumento e dunque non è sempre da condannare (che Hitler non lo fermi con i fiori), e poi perché non vorrei che questo mio articolo passasse come un categorico rifiuto del conflitto, anche fisico, nel videogioco: viva Doom, viva Disco Elysium, viva Assassin’s Creed (calmi, parlo del primo).
Quella che invece mi interessa esporre è la mia profonda stanchezza verso quella che è nata come una grande trovata per ribaltare i canoni della narrazione videoludica, e che sta diventando una scusante per farci trucidare tonnellate di pixel in forma umana, animale o umanoide, pretendendo inoltre di volerci “dire qualcosa”. Questo problema era già evidente a un certo Fumito Ueda e al suo Team ICO, che nel 2005 con Sony pubblicò per PS2 Shadow of the Colossus, un gioco che si poneva l’obiettivo di riposizionare il giocatore rispetto agli estremi del bene e del male, chiedendogli di rendersi conto del dolore che causava pur di perseguire i suoi obiettivi. Per farlo non creò 1500 tipi di soldati da uccidere e 47 diverse armi e abilità per sgozzare, ma imbastì una sequenza di boss fight finalizzate al creare un rapporto speciale, anche solo per la messa in scena, con ogni singolo Colosso.
Nonostante lo splendido concept e la magistrale qualità artistica dell’opera, la tradizionalità del gioco (che offriva una sfida abbastanza elevata) poteva spezzare facilmente il flebile status emotivo del giocatore, trasformando l’empatia verso l’essere vivente in rabbia contro il codice. Nel mentre, Sony pubblicizzava il gioco con slogan come “alcune montagne vanno scalate, altre vanno uccise”, e “scopri, rivela e distruggi mitici giganti”.
Un paio d’anni dopo, al di là dell’Oceano, negli studi di Irrational Games Ken Levine pensava: “ma io, come autore, sono davvero libero? E il giocatore, come tale, è davvero libero?”. Fu così che entrò in guerra con noi, scrivendo e pubblicando con 2K il primo BioShock, una delle più brillanti prese in giro della storia dei videogiochi, nonché una delle più esaltanti scuse per farci massacrare decine di liberisti sott’acqua. Nel gioco, la nostra violenza è tale perché incontrollata, priva di cervello, esattamente come il protagonista che ci troveremo a guidare: BioShock è un capolavoro perché meno sei gamer, e più facilmente anticiperai il colpo di scena finale.
Un anno dopo Goichi Suda ripercorrerà le stesse orme di Ueda con No More Heroes, cercando di imbastire una riflessione sul ruolo e i desideri del giocatore partendo da un racconto a prima vista tipicamente pop, ma che nel corso dell’esperienza diventa qualcosa di… diverso. Qualche anno dopo, Shadow of the Colossus verrà imitato anche da Prince of Persia (2008), che venne fortemente criticato da alcuni influencer e parte della stampa per il fatto che i personaggi non morivano, e quindi per la sua facilità. Insomma, siamo stronzi, sì, e ve lo ribadiamo: questa non violenza non s’ha da fare neanche di striscio.Mentre l’urlo di dolore dei colossi si disperde tra i fischi dei proiettili di Nathan, e mentre il clangore delle lame di Travis silenzia le grida delle sue vittime, nella periferia di Berlino, in uno studio di videogiochi, a qualcuno viene un’idea: “aspè, ma se raccontassimo la guerra? Non Battlefield e CoD eh, quella vera”. Nel 2012 arriva dunque Spec Ops: The Line, la versione videoludica di Cuore di Tenebra e Apocalypse Now, che annichilisce il giocatore con una quantità tale di torture, violenze e morte da far desistere il più tenace dei reporter di guerra. Non i gamerz, però, che declassano Spec Ops a robetta perché “il multi fa schifo”. Eppure la critica celebrò l’opera di Yager, che ancora oggi è considerata un manifesto artistico incredibile, e un grande momento per l’evoluzione, per la maturità del videogioco. Oggi Yager fa multiplayer competitivi online.
L’anno di pubblicazione generò poi delle coincidenze incredibili. Abbiamo detto che Spec Ops: The Line poneva una simbolica pietra tombale sul racconto di guerra interattivo, rendendo pacchiano ogni tentativo successivo (CoD, Battlefield) di rendere “realistica” quella che oramai appariva a tutti gli effetti un’esaltazione del conflitto bellico in quanto tale. Nello stesso periodo, il lancio di Journey, di Jenova Chen e That Game Company, ricevette una visibilità immensa, che certo non gli permise di competere con i colossi testosteronici di quegli anni, ma che lo rese comunque un simbolo, una forma di resistenza al dominio dell’esplosione. Più di ogni altra cosa, Journey ci dice che di solito i gamerz sono delle merde perché possono solo essere delle merde, dato il tipo di interazioni offerte.
Sempre nello stesso anno, i quasi ignoti Dennaton Games, in collaborazione con una Devolver Digital ben diversa da quella di oggi, pubblicano Hotline Miami. Il gioco, al grido di “ti piace fare del male alle altre persone?”, accompagna il giocatore in una lucida follia di psichedelia, pixel, synthwave e violenza, ricordandogli costantemente il suo essere un criminale, un omicida, un essere spregevole: insomma, un gamer. Non è un caso se The Last of Us II, fortemente interessato al tema della violenza, citerà con molta attenzione l’opera Dennaton Games. Con questa involontaria trilogia, il mondo videoludico del 2012 sembra voler accompagnare il mezzo dall’autocritica alla rivoluzione estetica, dall’uso dei suoi stilemi per metterli in crisi allo sforzo di trovarne di nuovi, e scoprire così anche nuovi temi e linguaggi.
Come per avere un’implicita conferma, l’anno successivo i grandi blockbuster rincararono la dose: BioShock Infinite, The Last of Us e Grand Theft Auto V ci raccontano di esseri spregevoli, egoisti, disposti a qualsiasi cosa pur di ottenere ciò che vogliono, che annientano vite su vite nell’incredibile supponenza di essere loro i meritevoli, i giusti, i migliori. Certo, ci sono distinzioni tra il contesto apocalittico di Joel e quello distopico di Booker, ma il punto fondamentale è che la loro rabbia era ora la nostra rabbia, la loro voglia di uccidere era anche nostra, anche se a volte per motivi diversi: si decise di farci vestire i panni di esseri di merda perché, quando abbiamo un pad in mano, siamo veramente soggetti spregevoli. Come detto prima, c’è da dire che forse lo saremmo di meno, se potessimo avere un’alternativa.
Passano tre anni e un nuovo team di sviluppo, i The Game Bakers, pubblica a sorpresa FURI, che sfonda nel pubblico mainstream grazie alla sua presenza sul servizio Play Station Plus. Di FURI ne ho parlato più a fondo su GLITCH (video sotto), ma quel che è interessante notare riguardo al tema che stiamo affrontando è che FURI opera un totale ritorno al passato, riproducendo sostanzialmente in forma identica la struttura di Shadow of the Colossus, aggiungendo però alcuni elementi ancora più netti e chiari per definire la sua identità di gioco “violento sulla non violenza”. Tra finali alternativi pacifisti e boss fight che in realtà non esistono, FURI è un progetto esaltante anche perché viene seguito da Haven, un gioco molto più sulla scia di Journey e quel Prince of Persia così bistrattato eppure così influente. I The Game Bakers, come Ueda prima di loro, mostrano non solo di saper dire qualcosa sul giocatore violento, ma di voler esprimere altre emozioni, idee, pensieri, temi, concetti: vanno oltre, insomma. Persino più rilevante è il desiderio di permettere anche al giocatore di vivere queste emozioni alternative, queste idee differenti.
Ecco perché quando uno studio, una serie o un brand mi dicono che “vogliono dire qualcosa” e, nel farlo, mi fanno massacrare decine o centinaia di persone, io accetto l’offerta, ma sono anche curioso di capire cos’altro hanno da dire. Se lo stesso schema si riproduce due, tre, quattro volte, forse non si è poi così tanto interessati per davvero a “dire qualcosa” e “far riflettere”, ma si vuole dare un giustificazione, che diventa quindi spesso pacchiana e imbarazzante, alla necessità di vendere a frotte di sicari mancati. E ribadisco, per me è bellissimo sparare in Doom, saltare sui funghi in Mario, far esplodere gli alieni in Prey: non è la violenza il punto. Il punto è la presa in giro, l’incapacità di accettare di star facendo “solo” (aggiungete voi mille virgolette) un videogioco che diverte e che svaga, pretendendo di spezzare la nostra emotività in due fasi: quella tardoadolescenziale dei proiettili e del sangue, e quella “matura” delle lacrime e dei monologhi. Poi magari a volte ci si riesce anche, non lo nego, ma voglio credere che non sia questa la massima ambizione di un designer, né quella di un coder: riuscire per caso.
Ecco quindi che alla fine dell’ottava generazione di console, nell’anno in cui un gioco come The Last of Us II vince il Gioco dell’Anno ai Video Game Award, direi anche di mettere un punto: di giochi che non ci lasciano altra strada che essere merde perché “vogliono dirci che siamo merde” penso che ne abbiamo abbastanza per un po’ di tempo (anche perché mica ho citato tutti i casi disponibili, anzi). Di soldati devastati dagli orrori della guerra ma senza PTSD non ne vogliamo più sapere, ci bastano Chief e il Doom Guy; Il terzo capitolo di una saga tps o fps non si esprime più contro la violenza, la mette al centro del suo discorso, è il suo linguaggio. Che la nuova generazione accolga queste conquiste e le faccia sue, in modo tale da poter uscire da questa pubertà infinita e arrivare all’età adulta.