La storia della mia passione per i videogame
Ultimamente mi sono trovato a riflettere sul concetto di “passione” e nel pensarci mi è saltato alla mente un vecchio spot pubblicitario che Sony utilizzò, a cazzo più che duro, per commemorare i 10 anni del marchio PlayStation. Uno spot che ovviamente fu censurato più o meno in ogni dove e che riproponeva il concetto di passione nel suo senso “biblico” associato al marchio PlayStation. Lo spot è quello che segue e vi pregherei di guardarlo per bene.
“Passione”, premesso che non sono qui a fare il predicatore di nessuna fede, o presupposta tale, mi è sempre piaciuto il concetto di “passione”. Molti di voi non sapranno che quella che è una parola che comunemente usiamo per indicare un qualcosa che ci piace è stato originariamente usato per esprimere il cordoglio di Cristo sulla croce. Perché la passione è un qualcosa che prescinde dall’azione, ma è piuttosto un qualcosa che si vive in maniera molto più intrinseca, quasi spirituale. Non necessariamente un dolore o un cordoglio ma un sentimento, un “momento” che nella nostra vita ha un impatto così forte da imprimersi nell’anima. Mi piace la parola “passione” perché esulando da ogni sofismo teologico o religioso aderisce perfettamente a quella che è la mia idea verso le cose che mi piacciono. E così riflettendo sulla passione mi sono chiesto: “quali saranno i momenti che hanno definito la mia passione?”. Parlo ovviamente di quella per il videogame, almeno in questo caso specifico, una passione che mi ha portato, col tempo, a fondare e dirigere la baracca di Stay Nerd. Uno di quei rari casi in cui quello che ti piace diventa il tuo lavoro, aprendo a tutta una serie di interrogativi più o meno inutili. L’argomento però mi sembrava interessante perché, chi più chi meno, siamo tutti vittime di una passione che ci brucia dentro e che chiede di essere soddisfatta e sono altrettanto sicuro che, come me, siate più o meno tutti in grado di desumere il come, il quando, e il perché siate arrivati ad amare quello che amate. Avevo pensato di dare a questo articolo un corpo unico, come un lungo ed articolato diario, ma la verità è che non ci avreste capito nulla perché la passione è di per sé caotica ed io, in fondo, non sono uno scrittore così dotato. Ecco perché ho deciso di schematizzare tutto, cercando di percorrere le tappe precise della cronistoria della mia passione, che magari non ve ne fregherà nulla, ma ogni tanto è bello provare a parlare di qualcosa di nuovo, anche se paradossalmente è qualcosa di terribilmente vecchio.
L’inizio del viaggio – Il GameBoy
Tutto per me è cominciato qui, con il magico GameBoy di Nintendo, il primo videogame degno di questo nome con cui mi si mai interfacciato. C’era un mondo prima di GameBoy, e quel mondo erano gli innumerevoli cloni italiani dei vari Game & Watch, quando non si aveva la più pallida idea di cosa fosse un Game & Watch e si obbligava i nostri genitori a spendere ben ventimila lire (talvolta poco meno) per i plasticosissimi Gig Tiger (ed io ero gelosissimo di quello che avevo di Darkwing Duck). Erano gli anni in cui gli schermi a cristalli liquidi erano la cosa più figa che potevi avere ed in cui i bambini ancora giocavano con i pupazzi di He-Man. Tanto che chi possedeva il Castello di Grayskull era il tipo più figo con cui potevi avere la fortuna di giocare. Poi arrivò il GameBoy e improvvisamente gli schermi a cristalli liquidi dei vari Gig Tiger ti sembravano una roba da poppanti. I cristalli liquidi restavano, ma i pochi legnosi movimenti erano stati sostituiti da sprite che potevi muovere come ti pareva, ed i giochi limitati allo schermo statico, lasciavano il passo a livelli enormi, con storie da raccontare, personaggi da conoscere e obiettivi da raggiungere che non fossero solo un contatore dei punti da far salire ma qualcosa in più.
Mi ricordo che il GameBoy arrivò tra le mie mani un Natale, in un bundle con all’interno il Tetris. La scatola all’interno era di un terribile grigio scuro, quasi come il colore della console, con riposta lì accanto la cartuccia del gioco, rigorosamente senza pack originale. Il Tetris fu uno dei giochi a cui giocai per buona parte della mia infanzia, ed anche della mia gioventù, fintanto che il GameBoy, sfortunatamente, non decise di tirare le cuoia. Pomeriggi a cercare di giocare con il link cable insieme un amico, i giri per negozi per cercare il gadget più figo da attaccare sulla console (ed io ero uno dei “fortunati” possessori del kit casse + schermo illuminato… il che rendeva il mattone ancor più pesante) e la ricerca di giochi sempre più belli, complessi e lunghi. Persino la mia famiglia si attaccò al GameBoy e se per mia madre l’amore scoppiò per Adventure Island (clone uffioso di Wonderboy ad opera della defunta Hudson), mio padre si chiuse su Tetris in modo tale da soffrire per qualche mese della celeberrima e omonima “sindrome”. Penso che la mia passione sia cominciata qui, con una console infilata nello zainetto ed un pacco di pile stilo da 4 rigorosamente a portata di mano, cercando i punti migliori del giardino di mia nonna per giocare all’aperto, con una console che ci stava tutti veicolando verso la strada del videogame e della cecità…
I colori sulla tv – Il Master System II
E così la mia passione crebbe a dismisura, tanto che riuscii ad accaparrarmi un bel po’ di cartucce tra Natali, compleanni e una condotta scolastica più o meno decente. Mia madre, inoltre, nel suo immenso genio, riuscì almeno due o tre volte ad accaparrarsi qualche lotto di giochi usati che per una cinquantina di verdoni, qualche amica le cedeva in virtù della noia dei propri figli. Tuttavia il GameBoy era poco per chi, come me, all’inizio degli anni ’90 veniva letteralmente bombardato da messaggi inerenti l’intrattenimento videoludico. Che fosse Jovanotti o Gerry Calà, le console per videogiocare comparivano in ogni dove ed ecco allora che tra un numero di Topolino e un catalogo da giocattolai (che, diciamocelo, erano un qualcosa di bellissimo da sfogliare, specialmente prima di Natale) ti saliva la scimmia per le console di casa. Lì in quegli incolti campi dove sbocciavano i primi semi della console war, ci si cominciava a schierare tra i fronti Nintendo e Sega, senza poi effettivamente sapere del perché una fosse migliore dell’altra. Le pubblicità sparavano i loro proclama sui vari numeri di bit, parole che tu replicavi pari pari nel tuo circolino di amici, ma poi in effetti se qualcuno te ne chiedeva il senso, tu rispondevi che boh… quella console X (dove X era sostituito da quello che avevi tu) in effetti era migliore punto e basta. Mi fa sorridere che le cose non siano affatto cambiate, ed anche se oggi sappiamo parlare tutti di poligoni e texture, riempiendoci la bocca come uno youtuber a caso, il succo del discorso non è poi cambiato: cazzate erano ieri, e cazzate sono oggi. Per quel che mi riguarda, il mio amore sbocciò nei confronti di Sega e, per la precisione, del suo Mega Drive. I motivi furono fondamentalmente 2: design e Sonic.
Ora, pare sciocco parlare di design se hai tipo 10 anni o giù di lì, ma ammetterete che all’aspetto giocattoloso delle console Nintendo, Sega contrappose quello del suo Mega Drive che di per sé, già essendo nero, aveva attorno a sé un’aura di tamarra figaggine a cui, personalmente, non seppi resistere. Ammetto poi che, per quanto abbia riconosciuto a Mario ogni merito (specialmente su GameBoy), trovavo in Sonic un personaggio molto più intrigante. E per quanto la versione novantina del riccio avesse una panza a uovo che in confronto Mario era un bagnino di Baywatch, l’idea di velocità e i livelli arzigogolati, mi sembrarono immediatamente più “belli” di quelli di casa Nintendo. La sfiga volle che i miei, non capendone un cazzo, si presentarono dal giocattolaio chiedendo semplicemente una console Sega. L’infido venditore rifilò loro non il Mega Drive, ma un rimasuglio di Master System 2, la versione europea e vagamente cheap del più glorioso Master System. La delusione, lo ammetto, fu molto breve, complice l’avermelo regalato in bundle con Sonic per la gioa di Gerry Calà, che in quegli anni aveva per i giocattolai lo stesso fascino che ha oggi un George Clooney a caso per i caffettieri… ma forse sto divagando troppo.
Gli anni transitori – Amiga e Commodore
A questo punto la mia passione per i videogame si accende. E lo fa come un fuoco bruciante. La passione diventa tale negli anni del Master System dove, tra un prestito e diversi pomeriggi a casa di ragazzini che poi mai avrei più visto in vita mia, arrivo a giocare più o meno di tutto. Cugini vari aggiungono al pacco anche un vecchio Amiga 500 e non ricordo bene come, arrivò in casa persino un Commodore 64. Mi piace pensare che sono stato tra gli antesignani italiani del retrogaming, sicché mentre compravo di tanto in tanto qualche nuova uscita su Master System (fermandomi per mesi e mesi in pianta stabile su Wonderboy in Monster Land… gioco che ancora mi porto nel cuore) mi recuperavo quanto in passato non mi era stato possibile giocare. In realtà erano moltissimi i ragazzini che, come me, sulla scia del successo dei videogame, avevano fatto in modo di recuperare quello che non avevano giocato per mezzo di amici di amici e di cugini vari che, ormai prossimi alla maggiore età, avevano passato i loro pomeriggi su Prince of Persia e su Pitfall già molti anni prima della “rivoluzione degli anni 90”.
Personalmente adoravo OutRun, per un motivo neanche troppo particolare. Mi piacevano i colori, ed il fatto che la macchina mi sembrasse vera, viva, con una grafica all’avanguardia. Non che mancassero i giochi automobilistici su Master System (tra cui lo stesso OutRun) ma illo tempore giocavi quello che avevi e dove lo avevi, senza avere la minima idea di cosa fosse un porting o giù di lì. Si ammette, senza troppe remore, che a guardarla oggi certa roba è come andare in un muso di arte egizia, dove tutto ti sembra affascinante ma polveroso e datato. In quegli anni invece mi sembrava ancora tutto sgargiante, scintillante, infoiato com’ero dall’orrendo film di Super Mario, dal cartone animato di Sonic, dalla serie in tv di Cadillac e Dinosauri (roba che quando trovai il cabinato nel baretto di un lido mi ci fiondai di corsa) e da“Un Videogioco per Kevin” (serie prodotta da Nintendo con tutta una serie di bellissimi rimandi ai classici del videogame).
Erano poi anche gli anni delle sale giochi, o meglio i loro ultimi anni, e così passavo le mie estati in luoghi più o meno ameni, nel tentativo di ammazzare Mr. Bison a colpi di Hadoken, o nella speranza che la fottuta scimmia di Toki salvasse la sua principessa da mostri e amenità varie. La passione per i videogame, in quegli anni, era una mania dilagante, più o meno come lo può essere oggi la passione per il cosplay, nel senso autentico che dove andavi andavi c’era da qualche parte un videogame, un cabinato, o quanto meno un rivenditore di cartucce tarocche. Le riviste in edicola vendevano bootleg di più o meno qualsiasi cosa e chi come me si è vissuto quegli anni, non può non ricordare con piacere quanto bello e colorato fosse il mondo del videogame. Forse eravamo anche noi che ci vivevamo il tutto in maniera diversa, incapaci di sapere che videogame stesse uscendo e perché, ci facevamo il nostro “giro premio” in qualche negozio, di tanto in tanto, passando un’ora buona a scegliere quello che avremmo portato a casa (sperando durasse il più possibile o che non fosse una merda da giocare). E mentre Sega spennava i miei come i proverbiali polli, e io li spennavo degli spicci restanti per buttarli nelle vecchie “mangiasoldi”, complice l’Amiga giocai veramente di tutto e di più, da “I tre marmittoni” a Pitfall, passando per Monkey Island (che aveva sempre degli spassosi e complicatissimi metodi anti pirateria su dischetti di cartone) e altri classici intramontabili come Zool, Lemmings, Turrican (che aveva una cover fantastica!), Alien Breed, Shadow Beast e tutta una serie di autentici capolavori che i più di voi dovrebbero studiare a scuola tant’è che, non a caso, negli anni sono più o meno tornati in vita quasi tutti.
Gli anni della crescita – PlayStation
Poi a metà anni ’90 succede una cosa incredibile: il mondo dei videogame si prostra ai piedi di Sony e con PlayStation il videogame esplode come fenomeno di massa cominciando il suo lento viaggio verso la consacrazione popolare. Erano gli anni del film delle Spice Girls, dei primi formicolii nei pantaloni, delle (tamarrissime) Silver della Nike e delle uscite con gli amici. Ricordo ancora il primo incontro con PlayStation, quella macchina strana che al suo interno metteva i dischi invece delle cartucce o dei floppy. E badate, strana non è un “eufemismo” per dare un tono a questo racconto. Sony, per noi, faceva tostapani e televisioni, e dopo anni ed anni di “ocio” di Gerry Calà, per te ragazzino delle medie videogame significavano Sega o Nintendo. Pensare che Sony facesse una console, e che quella console fosse addirittura MIGLIORE di quello che c’era prima, era per noi incomprensibile. Non che le novità dal fronte non mancassero, perché nel mentre Sega aveva lanciato la sua Dreamcast che pure ci aveva fatto innamorare e che era, almeno per me (e ancora lo è), una delle migliori console di tutti i tempi. Il problema è che la Dreamcast ci venne presto a noia, a causa di un parco giochi che per qualche motivo non ci stuzzicava più di tanto, robe come Shenmue e Ecco The Dolphin, lo ammetto, io le ho recuperate postume anche perché, proprio mentre ero sull’orlo dell’acquisto della nuova bellissima macchina Sega, PlayStation irruppe nella mia vita come il proverbiale fulmine a ciel sereno.
E fu amore, come per chiunque altro abbia vissuto quel lancio magico e rivoluzionario. Ora, se mi state ancora leggendo lo saprete: in quel periodo mi dividevo tra 3 o 4 console, tutte decisamente demodé, ma fu in un pomeriggio di settembre che il mio modo di intendere i videogame cambiò. Un caro amico mi parlò infatti di questa nuova console che stava per arrivargli, grazie ad un cugino che, vivendo in America, l’aveva già acquistata. Quello stesso cugino sarebbe venuto in Italia poco dopo con la promessa di comprargliene una, e quella console era PlayStation. Ricordo ancora i consigli che ci chiese questo mio amico (bella Gino!) sul gioco da farsi portare: il primo era una specie di Indiana Jones, ma aveva protagonista una donna. Il secondo era invece un gioco con gli zombie, su cui però non sapeva molto di più. Il cugino di Gino, alla fine, glieli portò entrambi e dopo aver montato la console, facemmo la nostra prima partita a Resident Evil. Me lo ricordo bene il primo RE, con quel video super trash con gli attori in carne ed ossa, e quel filmato, uno dei primi, in cui lo zombie si gira di profilo. Lo stronzo (lo zombie) ci uccise subito, tra le nostre imprecazioni al sistema di controllo che per gente come noi, che aveva saltato a piè pari il N64, non si era ancora abituata alla tridimensionalità.
Con Tomb Raider ci andò meglio, e fummo letteralmente rapiti. Era settembre, dopo poco sarebbe stato Natale e feci di tutto per farmela regalare ma la PSX, per me, arrivò solo il mese di giugno dell’anno dopo, in occasione di un compleanno per cui, lo ammetto, chiesi di farmela regalare già modificata. Il mio primo gioco fu Pandemonium, con cui ci giocai per oltre un mese stra-finendolo, ma nel mentre non rimanemmo mai con le mani in mano. Gino, intanto, si faceva arrivare giochi sempre nuovi, e tra Crash Bandicoot, Tekken e compagnia cantante, accumulammo uno score di giochi finiti tale da esserci sempre pentiti di non aver chiesto a qualcuno di registrarne il record. Ricordo che il nostro stato di malattia mentale raggiunse livelli tali da portarci poi, tempo dopo, a finire Resident Evil 3: Nemesis in giapponese, senza mai capire un cazzo della trama e senza una guida. Lo facemmo e basta, come fosse naturale, perché erano gli anni di PlayStation ed i videogame ci si erano ormai impressi nel DNA. Giocare era un appuntamento fisso, naturale, spontaneo, tale che non ti chiedevi neanche cosa giocare, giocavi e basta. Fanculo grafica, colori, texture, concept, trama, fanculo tutto, era il gioco, il gioco e basta.
Intervallo – PSM mon amour
Qui finisce la prima parte di questo speciale, e credetemi c’è ancora molto da dire, ma prima di lasciarvi a questo intervallo forzato, vorrei parlarvi di un qualcosa di altrettanto fondamentale per la mia crescita come videogamer: le riviste. Perché negli anni 90 le riviste a tema erano un qualcosa di assolutamente fondamentale per la conoscenza del mezzo e, soprattutto, per cercare di risparmiare qualche soldo acquistando solo cose che veramente ci potessero interessare. Le riviste (in particolare PSM per me, ma la prima e storica non le sue blande imitazioni successive) erano un appuntamento fisso, che andava consumato ogni mese in compagnia di qualche amico con cui, a turno, si faceva scambio a fine lettura. Le riviste, che all’epoca riproponevano le copertine della versione US ad opera di uno stronzo a caso – > “Mad” Joe Madureira (avete presente Darksiders? Avete capito.) erano le antesignane dei forum.
Ti raccontavano fatti, aneddoti, le avventure dei redattori. Ti proponevano guide, adesivi per “customizzare” la tua console, e quando ti andava bene persino un disco di demo. C’erano riviste e riviste, alcune talmente belle che valeva la pena collezionarle. Alcuni redattori, come il mitico Ualone (caraibi!) ho avuto il piacere di conoscerli negli anni e da esse, ho imparato le basi della critica di settore. Robe che avrei applicato anni più tardi approdando nella cricca di Console Tribe anche se, ancora una volta, divago. Considero le interviste fondamentali per la crescita di me come videogame, e per lo sviluppo del medium in generale. All’epoca, quando i videogame si consideravano ancora giocattoli, questo manipolo di eroi ha contribuito in modo fondamentale alla diffusione del videogioco, della sua semiotica, del suo spirito extra ludico. All’epoca non lo si capiva, ma oggi è più che mai evidente. Se è nata una certa cultura, un certo modo di parlare di videogame, è perché le riviste, come versioni su carta dei vecchi café letterari, si sono prese la briga di informare, condividere, analizzare. Prima solo con i voti, poi con gli speciali e gli approfondimenti, e più tardi con i primi forum. Intendiamoci, con gli anni ho imparato che su molte di esse girava tanta, tantissima merda. Che molte persone che scrivevano per esse non erano così illuminate come si credeva quando c’era di mezzo la fanciullezza e che, spesso, si vendevano per buone cose che poi, pad alla mano, non lo erano. Però alle riviste in sé, al loro status come “idea” resto profondamente affezionato tanto che molte di esse sono ancora lì, nella libreria di casa, a prendere polvere “ad memoriam” dei bellissimi tempi che furono gli anni ’90.
E con questo si conclude questo pezzo della mia storia, nella speranza che non vi annoi e che vi stia portando alla mente tanti dolci ricordi dei tempi che furono. Ma voi? Che mi dite di voi che (spero) mi state leggendo? Dov’è cominciato il vostro viaggio? Qual è il vostro più dolce ricordo? A cosa giocavate? Cosa leggevate? A quale console vi siete legati? Aspetto di saperlo tra questa prima parte e la seconda che verrà, perché in fondo non c’è poi tanta differenza tra voi e me. Siamo tutti gamer, siamo tutti figli della passione, e come tali siamo nel bene o nel male, amici, cugini, forse persino fratelli.