Un dolore fantasma ancora vivido
Ogni tanto mi capita di ripensare a quanto ha significato nel bene o nel male, per l’industria dei videogiochi, l’ultima compianta e sudata opera di Kojima in casa Konami. Sapete, quel tipo di riflessione che puoi fare solo a posteriori, quando le posizioni dell’opinione pubblica si sono ormai consolidate, quando l’acqua sotto i ponti è passata, quando vedi cosa hanno fatto gli altri nel frattempo.
Phantom Pain è diventato famigerato, prima ancora dei sui meriti o demeriti, anche solo per tutti i “gossip” e il casino successo dietro le quinte tra Kojima e Konami. È un gioco fortemente simbolico per questa generazione. Ha rappresentato molte cose, a cominciare dalla fine di una saga leggendaria, portabandiera a sua volta di moltissimi obiettivi raggiunti dal media. Metal Gear ha portato la scrittura cinematografica di una certa maturità nei videogiochi, fondendola con quel gusto e sensibilità tipicamente giapponese. Ha settato nuovi standard grafici grazie alle sue particolari scelte stilistiche, già dal primo capitolo per PlayStation. Ha portato innovazione nel game design, trovando un equilibrio perfetto e assolutamente originale tra meccaniche stealth, action, e tattiche, e creando uno dei gameplay più liberi e sfaccettati che tuttora si possano ricordare, soprattutto quando pensiamo a quel calderone infinito di strumenti e opzioni di manovra che proprio in Phantom Pain trova la sua massima espressione.
Phantom Pain però è stato anche lo specchio di un utopico e irraggiungibile compromesso tra ambizioni artistiche e possibilità concrete di sviluppo. L’incapacità e impossibilità di tradurre alcuni progetti, soprattutto in suolo giapponese, in giochi commerciabili che devono essere portati a quella scala di grandezza necessaria per competere sul mercato oggigiorno. Una situazione che in qualche modo ha coinvolto anche Final Fantasy XV, e il compianto Scalebound (ve ne abbiamo parlato in questo articolo). Progetti che non possono e non vogliono perdere nel processo quella pulizia, cura e precisione nelle “microdimaniche” che ha da sempre contraddistinto i concept decennali da cui anno avuto origine, e che evidentemente si sposano molto difficilmente con l’esigenza tutta occidentale, di dare sempre un’apparenza gargantuesca a qualsiasi software venga immesso sul mercato.
E Metal Gear Solid V: Phantom Pain era ad un passo dal raggiungere questo obiettivo, ma allo stesso tempo, ne è rimasto incredibilmente distante. Ecco quindi che infine, Phantom Pain rappresenta uno degli spartiacque più netti, profondi e sconcertanti tra delusione ed esaltazione che si ricordino. Un titolo che riesce a far emergere in maniera netta questi due sentimenti, separarli, e allo stesso tempo farli convivere nello spirito del videogiocatore. Un titolo nato tra luci intensissime, abbaglianti, e ombre oscure e buie. Nell’opinione personale di chi vi scrive, un vero e autentico capolavoro incompleto.
Il paradosso è doppiamente evidente e straniante se si considera l’estrema completezza e cura maniacale di quello che è arrivato sui nostri schermi. Lo so, sembra un ossimoro concettuale, eppure è così. Non mi districherò in questa sede, in una nuova analisi del titolo. Ma in breve, la mia prospettiva è quella di chi ha ravvisato la quasi totale perfezione in ambito ludico e una riscrittura dell’open world che è stata per me semplicemente eccezionale. E non perché Phantom Pain permette di fare milioni di attività mai viste in un sand box, ma perché è stato cucito intorno al genere del Tactical Espionage Action proprio della serie in maniera talmente naturale ed efficace, che davvero fa sembrare Phantom Pain la quintessenza di quella che è sempre stata la filosofia ludica della saga. Nonché massima espressione del genio “kojimiano” in tal senso.
Un open world studiato per traghettarti da un punto di gameplay interessante ad un altro, estremamente condensato e concentrato sul valorizzare le meccaniche di gioco senza inutili derive di contorno (se non a totale margine dell’esperienza). Una libertà totale ma circoscritta negli spazi e nelle azioni al contesto bellicoso in cui ti immerge. Un titolo che alla sessantesima ora di gioco è estremamente diverso dalla sesta, visto l’enorme upgrade possibile al nostro equipaggiamento in tutte le direzioni. Una collezione di dispositivi, armi, e gadget che a differenza di molti open world non appagano semplicemente un feticismo collezionistico, e vanno ad aggiungersi ad un gameplay che in molti altri casi, esaurisce quello che ha da dire fin dalle prime ore di gioco, salvo poi reiterarsi sempre uguale per tutte quelle necessarie alla sua conclusione.
A Phantom Pain manca però, oggi come ieri il giusto confezionamento del tutto. Anzi OGGI, manca molto più di ieri, perché quando il titolo uscì brillava ancora nei cuori dei più ingenui la speranza e l’illusione di un terzo capitolo postumo che sappiamo benissimo era nei piani iniziali del progetto. Per quanto boss battle, missioni, forse mappe, e soprattutto segmenti importanti di storia, fossero comunque irrimediabilmente perduti in ogni caso.
Eppure anche sul piano narrativo, la base c’era, e non era meno potente e solida di quella su cui posavano le loro fondamenta i capitoli precedenti di Metal Gear. Tanto è vero che rimango convinto che, anche avendo a disposizione altri 10 anni, e riuscendo a concludere il gioco così come lo aveva pensato Kojima, la natura del racconto non sarebbe cambiata più di tanto. Certo ci sarebbero state molte più occasioni di renderla emotivamente coinvolgente e articolata, ma Phantom Pain avrebbe comunque funzionato per sottrazione, avrebbe comunque mantenuto il suo tono malinconico e il suo ritmo sommesso. Perché Kojima voleva chiaramente darci dei sapori diversi con Phantom Pain, che fossero in un certo senso opposti a quelli dei lavori precedenti.
D’altro canto Metal Gear non è nuovo a ribaltamenti concettuali, basti pensare all’indissolubile dicotomia giocatore/protagonista, chiaramente evidenziata in ogni episodio dal rapporto di metareferenzialità tra noi e Snake, o alla completa negazione di essa, attraverso la figura di Raiden in Sons of Liberty che invece ci teneva a ribadire il proprio individualismo. Phantom Pain mischia nuovamente le carte in tavola, ma non lo fa in maniera sottile o svelandole solo nell’esemplare (e per me azzeccatissimo) epilogo. Lo fa dal principio, e lo fa raccontando una storia attraverso le NOSTRE azioni, in senso letterale, e non permettendoci di essere passivi nemmeno quando si tratti di seguire gli sviluppi che prescindono dai noi, con blande cassette da ascoltare a nostra discrezione spremendo l’immaginazione per tramutarle in cut-scene mentali.
Al di là di questo, i tagli sono evidenti, innegabili, e deturpano definitivamente un titolo estremamente coraggioso, la cui forma e sostanza rimangono nonostante tutto COMUNQUE tutte al loro posto, e mio dire mai più replicate o avvicinate da qualunque altro esperimento simile.
Phantom Pain era odio e amore e sarà ancora odio o amore. L’invariabile nell’equazione però è una e solo una: la necessità di giocarlo, a prescindere dallo schieramento in cui vi infilerete a seconda della vostra sensibilità.
Quindi, quale eredità lascia la saga di Metal Gear o noi giocatori? Nessuna purtroppo. Metal Gear non è una serie che può funzionare senza Kojima, come magari può succedere per altre serie celebri, come ad esempio Resident Evil, o Final Fantasy, che possono essere reinterpretate bene anche da autori diversi. Perché Metal Gear non è un ingrediente vincente che permette ad ogni cuoco talentuoso di creare la sua pietanza migliore. Metal Gear è una ricetta compiuta e “segreta”, che solo Chef Hideo sa portare a tavola. Metafore a parte, la risposta più scontata e pragmatica forse è: l’eredità di Metal Gear è Metal Gear Survive, ma non serve certo che vi illumini sulla tristezza infinita di questa prospettiva.
Più ottimistico pensare che l’eredità di Metal Gear sia il prossimo progetto di Kojima, Death Stranding. In fondo per quanto i figli possano essere diversi, avranno comunque sempre e comunque il DNA del padre. A me invece piace pensare che semplicemente l’eredità di Metal Gear siamo noi giocatori, come lo stesso “Big Boss” ci suggerisce alla fine di Phantom Pain. Noi giocatori che dobbiamo apprezzare il viaggio per quello che è stato, con la consapevolezza che è finito e non tornerà più. Abbiamo però sempre la possibilità di riprenderlo e ricominciarlo (o proprio cominciarlo, se non l’avete mai giocato e approfittate del Plus di Ottobre). Oppure possiamo continuarlo all’infinito, invitati quasi da Kojima e quell’end game praticamente infinito offerto da Phantom Pain. Perché alla fine quando il GIOCO è buono, quando il GIOCO è tutto, in fin dei conti la vera storia siamo noi che ci divertiamo, e tutto il resto non conta.