Quali sono i doveri di un “buon gioco” verso i suoi giocatori? Forse me lo ha spiegato Monster Hunter.
Non sono mai stato un fan di Monster Hunter. Non lo sono stato, ma ci ho provato. Diciamo che il problema è derivato tutto dalle piattaforme su cui il gioco è uscito, DS e PSP, che a causa di alcune mancanze tecniche (leggasi l’assenza di un secondo stick analogico) mi hanno sempre creato non pochi grattacapi per quanto riguarda il sistema di controllo. Un problema di frustrazione che ho provato spesso in passato e che mi portò, con fatica, a detestare anche giochi come MGS: Portable Ops e Peace Walker. Poi non so, c’era quella sensazione di solitudine che permeava quei titoli (ovviamente parlo sotto un punto di vista strettamente personale) che forse mi impediva di apprezzarli al meglio.
Dopo però è arrivato World su PS4, e devo ammettere che a differenza di molti la mia accoglienza fu abbastanza tiepida. Non è difficile capirne il perché: mi mancavano le basi. Tuttavia mi son detto, proviamoci lo stesso, e devo dire che mai decisione fu più saggia, perché senza mezze misure me ne sono innamorato! Non immediatamente, poiché il gioco ci prova pure ad accoglierti bene, ma la verità è che ti prende a sberle quasi subito. Come Dark Souls e simili ti fa sentire inadeguato, impreparato, ma con quel meccanismo instilla in te quel livello di sfida tale che, se lo accogli nel modo giusto, finisce poi per ammaliarti, prima, e schiavizzarti poi. Monster Hunter: World funziona bene, dannatamente bene, ed ha un meccanismo quasi additivo. Il più, in realtà, lo si deve al modo in cui convince, e quasi obbliga i giocatori a collaborare, al sistema che ti porta a condividere la caccia insieme ad un gruppo di estranei, provenienti da chissà dove, e di cui non ti frega sostanzialmente nulla. Tutti ronin, tutti avventurieri che si trovano lì per la stessa ragione: combattere, cacciare, grindare. Non sai nulla di ‘sti giocatori il più delle volte. Loro pubblicano la loro missioncina, o tu la tua, e qualora la si accetti si finisce insieme sul terreno di caccia. Non c’è una vera e propria fratellanza digitale, ma più uno schema di comune, quanto momentanea, utilità, che ci porta poi a gioire insieme dell’abbattimento o della cattura dei vari mostri che abitano il Nuovo Mondo.
Non è una cosa facile da spiegare, per me che sono praticamente un neofita. Diciamo che trovo che sia un piacere dato da un qualcosa che si può definire come una condivisione della fatica, una sublimazione dello sforzo, che non ho trovato in altri titoli coop. E fidatevi non ve lo dico perché sono galvanizzato dal gioco in sé, è che proprio il sistema di collaborazione funziona nel modo giusto, punendo i giocatori quando si comportano da pippe atomiche, e premiandovi invece quando tutto va come dovrebbe andare. Direte voi che è un’ovvietà, che se becchi una squadra scarsa in qualunque videogame sei destinato a capitombolare col culo a terra. È vero, il punto è che in Monster Hunter si accusa una sensazione di “fatica” diversa dagli altri titoli, perché entrano in ballo delle meccaniche logoranti, che non si ritrovano in qualunque gioco a squadre in arena o, per dire, in un FPS online. Prendete Call of Duty, giusto per tirare in ballo il più celebre e competitivo. Tu sei lì che corri con il tuo fucile in mano, e qualcuno da un angolo ti secca con un colpo solo. Tu respawni, imprechi, ti incazzi perché il tuo team non collabora nel modo giusto. Ma in fin dei conti morte e resurrezione, o morte e basta (a seconda delle modalità) è un qualcosa che pur potendo protrarsi per diversi minuti, finisce per avere una risoluzione di media di una manciata di secondi. Ecco, questo in Monster Hunter non c’è. Perché non è una questione di timing, è sempre una questione di chi sia più tosto, se tu o il fottuto mostro che devi tirare giù. È una battaglia campale tra la tua squadra e la creatura, che si sbatte, si dimena, ti disarciona. Una tiritera che può durare 5 minuti, ma anche 10, o perché no 20 minuti buoni. “Logorante” si era detto, ed è bellissimo quando poi ti rendi conto che anche altri giocatori condividono lo stesso termine. Questa sensazione di logorio permea tutta l’esperienza di gioco in squadra, e seppur molte volte ti trovi frustrato, perché quel mostro proprio non ne vuole sapere di farsi abbattere, tu comunque sei lì che ci riprovi. Non sai bene neanche tu il perché ti va di sbatterci la testa così tanto, però ci sbatti lo stesso.
Ma la vera sorpresa, per me che ormai mi sento un vecchio dei videogame, non per età anagrafica, quanto perché forse ne ho giocati troppi, davvero troppi, è constatare come Monster Hunter mi abbia convinto, in modo subdolo, a lasciarmi andare alle facezie del grinding e del crafting. Ora chiariamolo: non è che grinding e crafting se li sia inventati Monster Hunter; c’è dietro una scuola lunghissima di giochi nipponici che, specialmente dal lato RPG, dice la sua da 30 anni buoni. Sono pratiche che spesso mi annoiano, perché non ci trovo un senso reale nel dover replicare azioni, su azioni, su azioni per scovare quei maledetti oggetti per mettere su la super uber arma finale. Io, per dire, le armi ultime dei giochi di ruolo, le ho sempre avute sul cazzo, e forse nella mia vita ne avrò collezionate giusto un paio, per lo più nel circolino dei Final Fantasy che ho amato di più. Perché tu sviluppatore mi devi frustrare nel collezionare oggettini per darmi quell’arma finale che, diciamocelo, non mi semplifica del tutto la vita, ma mi aiuta in modo importante a tirare schiaffi nelle ultime fasi di gioco. È una curva di difficoltà non ripida, ma lenta, che mi obbliga ad allungare il brodo in modi in cui, forse, io giocatore non mi vorrei cimentare. Non so se la cosa vi è chiara, e non fraintendetemi pensando che mi piaccia il piatto cotto e mangiato. Sto semplicemente dicendo che ci potrebbero essere altri mille modi di convincermi a reperire quella benedetta arma finale, ma a pensarci bene la tiritera è sempre la stessa: trova l’oggetto ultra raro, che droppa solo 1 volta su mille quel determinato mostro, super stronzo, che sta lì in quella parte di livello molto brutta che tu hai visto un paio di volte ed in cui non vuoi tornare più. Avete presente Breath of the Wild? Ecco, io vorrei che le cose fossero sempre così: l’arma più forte sta in un punto della mappa, e se sei abile e intelligente la trovi e impari col tempo a usarla come si deve. Se ti va, altrimenti ciccia, ci sono tante alternative “economiche”, che non ti faranno sentire un figo ma, fanculo tutto, il gioco lo finisci lo stesso.
Monster Hunter è forse il primo caso che mi ha convinto che vale la pena, invece, andarsi a cercare quell’ingrediente del cazzo che a te serve come il pane, ma che – sfiga – te lo droppa una volta ogni X solo quel drago anziano nato incazzato come il demonio, che se ci provi a sfidarlo da solo ti usa come pezza per pulirsi il culo. C’è una parte della tua testa che ti dice: “fanculo tutto, opto per l’alternativa economica”. Ma sai che c’è? Qui non ha senso. Perché la meccanica che regge il gioco è la sfida, e se tu non la accetti allora forse è meglio che lasci perdere. Se poi l’hai già accettata quella sfida, ti ritrovi lì, che il problema di cercare materie non te lo stai ponendo più, e sei così adagiato nel masticare le meccaniche di gioco, che pian piano ce la fai. Farmi, grindi, fondi materie e ti crei quello che davvero ti serve, e il gioco ti mette a tuo agio. Non lo diresti mai che ci si possa sentire a proprio agio in un sistema simile, specie se come me te n’è sempre fregato cazzi di cercare gli oggettini utili et similia. Perché è la sfida che ti eccita, è sconfiggere il drago che ti arrapa in modo atavico, e il materiale ne è quasi una conseguenza ovvia. Tu sei lì che farmi non perché devi, o il gioco te lo chiede, ma perché ti galvanizza l’esperienza di gioco in sé, e tutto quello che ne consegue è un gustoso surplus che, guarda un po’, ti serve per portare la sfida al livello successivo. Ci sono mostri, in MH: World, che diventano quasi un pane quotidiano. Ti trovi ad abbatterne così tanti di quella categoria che comincia a classificarli in modo meccanico: “questo è facile, questo è difficile, qui è meglio convocare qualche giocatore, questo meglio che lo catturo”.
Ora ditemi voi se tutto questo non è, in fin dei conti, bellissimo. È ovvio che la presa che il gioco può avere su di voi varii da giocatore a giocatore, ma pensateci: cosa vorreste chiedere ad un gioco se non eclissarvi totalmente dalla realtà e rendervi partecipi così a fondo da farvi sentire in prima persona tra i poligoni che lo compongono? Se posso rispondere io per voi: “nulla di più”.
Spesso ho lamentato che mi manca un po’ quel coinvolgimento che, da bambino, mi incollava a certi giochi nel cuore della notte. A chi me lo chiede rispondo sempre che c’è stata poca roba, negli ultimi anni, che mi ha letteralmente rapito e mi ha obbligato a notti insonni. Nella pratica direi solo The Witcher 3 ha fatto così bene, con Breath of the Wild a tenergli testa con il suo inarrivabile stato di grazia. Oggi dico che Monster Hunter: World, nella sua barbara efficienza, pur senza i fronzoli e lo stile dei due giochi appena citati, ha dalla sua quel pregio che tanto a lungo tedia la mia attuale carriera di videogiocatore. Quello di farmi staccare la spina, di sorprendermi nel vezzeggiarmi con quei modi di giocare che non fanno parte di me. Tutto questo è bellissimo.