A mente fredda
La notte degli Oscar non partiva con le migliori premesse.
Un caos mediatico che ha portato, alla fine, ad una cerimonia senza presentatori in un anno peraltro molto scialbo in termini di nomination per il premio più ambito.
Se solo pensiamo al 2018 ci vengono in mente, oltre al vincitore Shape of Water, pellicole incredibili come Dunkirk; Il filo nascosto; Chiamami col tuo nome; Tre Manifesti a Ebbing, Missouri; L’ora più buia. Persino film come Lady Bird e Get out quest’anno avrebbero avuto delle chance di vittoria.
Senza nulla togliere ai candidati di quest’anno infatti, possiamo tranquillamente affermare che almeno 4 su 5 di questi nel 2018 non avrebbero ottenuto la nomination nemmeno per sbaglio.
Alla fine comunque, al netto dei pronostici che davano Roma come favorita (senza il La davanti), ha trionfato Green Book.
Ok, molti aveva già profetizzato fosse impossibile una vittoria come Miglior film per una produzione Netflix, ma è altrettanto vero che l’eccessivo clamore, abbinato agli apprezzamenti della critica, stava generando l’effetto contrario, ovvero “Se ora non gli diamo il premio, che figura facciamo?”. E infatti i bookmaker di tutto il mondo quotavano bassissima la vittoria di Roma (piena solidarietà a chi ci ha buttato anche solo 1 euro).
Io – ad essere onesto – ho apprezzato molto Green Book, ma davvero meritava di vincere? È di certo un film pensato e messo in piedi con tutti crismi, grazie alla sapiente regia di Peter Farrelly che conosce i segreti della commedia e li ha messi al servizio di una storia dalle tinte drammatiche, ma anche e soprattutto alla piena intesa tra i due protagonisti. La performance di Viggo Mortensen resta probabilmente la migliore della sua carriera, eppure tra i due l’Oscar se lo porta a casa il solito Mahershala Ali, complice anche la poca concorrenza per la categoria del non protagonista.
Viggo sicuramente ci sarà rimasto male (mai quanto Willem Dafoe, che a questo punto l’Oscar potrebbe non vederlo mai), ma la lotta per il miglior attore protagonista vedeva concorrenti d’eccezione.
Se valutiamo la performance e la preparazione di certo il trasformista Bale avrebbe meritato il premio, già soltanto per aver messo per l’ennesima volta a serio rischio la sua salute (ha detto che sarà l’ultima: ci crediamo?), però pochi hanno idea degli sforzi fatti da Malek per cercare di diventare Freddie Mercury. In un’intervista rilasciataci prima dell’uscita di Bohemian Rhapsody, ci svelò che la preparazione al personaggio è iniziata quando ancora il film non era nemmeno confermato: ha preso lezioni di canto e l’ha fatto di tasca sua, provando poi a confontarsi con la “natura mitologica di quest’uomo, una specie di dio dal punto di vista musicale”.
In tutta franchezza il rilsultato non è stato esente da difetti (del resto come poteva?), ma è bello vedere per una volta un premio nato in parte dopo aver ascoltato l’umore “popolare”, e andato finalmente a chi è riuscito a far emozionare milioni e milioni di spettatori.
Ritornando al discorso di partenza e a Roma, possiamo dire che Cuaron abbia comunque trovato conforto nel premio per la Regia (secondo nella categoria, dopo quello del 2014), che non si sposta dal Messico e gli viene consegnato dall’amico e connazionale Guillermo del Toro, in una premiazione ricca di simbolismi. Tra l’altro Cuaron si “becca” pure quello per la miglior fotografia, con buona pace di Robbie Ryan per La favorita.
Tornando agli attori, o meglio alle attrici, sono rimasto contento e nemmeno sorpreso – al netto dei pronostici che la davano per sfavorita – della vittoria di Oliva Colman. Dispiace umanamente per Glenn Close, che se non altro può festeggiare un record, quello dell’attrice con più candidature senza aver mai preso un premio: ben 7 (complimenti, Glenn!); ma non premiare la performance della Colman, che ha saputo rendere tangibili le tante sfumature caratteriali della fragile e al contempo autoritaria Regina Anna, sarebbe stata un’ingiustizia.
Passando dall’altro lato, ovvero quello delle non protagoniste, c’era invece una vera e propria bagarre. Ha vinto Regina King (Se la strada potesse parlare), data comunque per favorita, ma la recente esclusione dell’attrice persino dalle nomination dei SAG Awards aveva minato le sue certezze e dato nuove speranze alle inseguitrici, a partire dalla sempre eccezionale Amy Adams.
Sinceramente, visto il livello generale piuttosto alto, sarei rimasto soddisfatto di qualunque premio per questa categoria, quindi va bene così e tanti applausi per Regina King, al suo primo Oscar.
Ora però, la prossima volta, datelo un benedetto premio alla Adams, o volete farla diventare la nuova Glenn Close?
Parlando di script invece nessuna sorpresa per la sceneggiatura non originale, andata meritatamente a Spike Lee per BlacKkKlansman mentre nello spalla a spalla tra Green Book e La favorita cade la seconda e Green Book si porta a casa pure la statuetta per la sceneggiatura originale. Il che, peraltro, ci sta tutto.
Quello che non ci sta, a mio avviso, è lo squallido teatrino messo in atto da Spike Lee che predica bene e razzola male, e dopo la vittoria di Green Book addirittura minaccia di uscire anzitempo dalla sala: come se poi ce ne importasse qualcosa. Per il regista, il film di Farrelly non rappresenta degnamente la storia della cultura della afroamericana, con un finale buonista che non rende sufficientemente omaggio agli sforzi per le lotte di liberazione dallo schiavisimo.
Polemiche che mi sembrano davvero futili e prive di fondamento, e nate con l’intenzione di alzare un polverone che non serve e a cui si accodano tanti artisti, tra cui uno che quando c’è una controversia si butta sempre nella mischia, ovvero Jordan Peele. Dall’altro lato poi c’è l’esercito dei contrari, ovvero di chi sostiene che gli Oscar siano sempre più politically correct e meno autentici. È per questo – sostiene lo schieramento in questione – che lo stesso battagliero Peele ha ricevuto l’immeritamo premio per lo script originale nel 2018, così come Regina King ha vinto quest’anno, che Black Panther ha ricevuto un mare di nomination, e così ancora tante statuette vengono date a film o attori che si lanciano alla ricerca del politicamente corretto.
La verita come al solito sta nel mezzo e sarebbe meglio che Spike Lee si godesse il suo primo, vero, Oscar e gli oppositori la smettessero di guardare sempre il bicchiere mezzo vuoto.
Perché sì, diciamocela tutta, è vero che il livello delle nomination di quest’anno non fosse particolarmente alto ma è ugualmente vero che di Oscar immeritati ce ne sono stati senz’altro meno che in precedente occasioni.
Quello che non capisco infatti è la polemica relativa ai premi di Black Panther. Premetto che trovo assurda la sua nomination al miglior film, ma le statuette ottenute dal cinecomic Marvel secondo me non gridano vendetta, tutt’altro. La scenografia è una sorta di futuristica architettura dell’Africa, con Hannah Beachler che l’ha realizzata chiedendosi come avrebbero edificato gli africani senza aver subito le influenze delle colonizzazioni. Dispiace per le ambizioni dell’altrettanto sublime La favorita e il certosino lavoro di Fiona Crombie e Alice Felton, ma credo che il premio BP se lo sia assolutamente guadagnato (e poi, dopo l’assurda sconfitta di Dennis Gassner lo scorso anno, tutto il resto è noia).
Polemiche anche sui costumi, e pure qui il cruccio arriva in primis dal film di Lanthimos. Io invece sono contento che per una volta nella categoria non abbia vinto la solita opera in costume, che molto spesso si traduce nel classico film tirato su solo con lo scopo di arrivare a quella ambita statuetta. Non è certo questo il caso de La favorita, che è un lungometraggio con le idee ben chiare e avrebbe meritato senza dubbio più premi di quelli riscossi (lo dico senza problemi: io gli avrei dato Il miglior film), ma il grandioso lavoro operato dalla troupe di Black Panther per realizzare graficamente i costumi wakandiani strappa applausi.
Credo infine che non servano nemmeno parole per la sontuosa soundtrack del film Marvel, ed infatti si trattava di un premio già scritto.
Dopo tutto questo sforzo per cercare di placare le polemiche, una la accendo invece io: come si può scegliere di non premiare al montaggio sonoro un film come First Man, che in tal senso è uno dei migliori dell’ultimo decennio, e dargli invece il contentino per gli effetti speciali, togliendolo peraltro ad un altro che l’avrebbe meritato, ovvero Avengers: Infinity War? Già l’esclusione della pellicola di Chazelle nella categoria come miglior film è stata a dir poco scandalosa, e personalmente avrei storto la bocca anche se – visti i concorrenti – non avesse vinto, ma non premiarlo nemmeno nelle categorie in cui avrebbe meritato, sembra un po’ una follia.
In tutto questo trambusto di critiche e malumori, per fortuna c’è chi ci restituisce il sorriso: Lady Gaga, che ha finito finalmente le lacrime e festeggia per l’ultima volta, l’ultimo premio, quello che desiderava tanto. La sua Shallow è formidabile e ci emoziona vederla cantare sul palco insieme a Bradley Cooper, dando vita ad un’intesa sempre maggiore, in cui i maliziosi vedono qualcosa di più. Sempre per fare polemica, tanto per cambiare.