Crowdfunding, Kickstarter e aspetti legali
A meno che non viviate su di un altro pianeta ormai sarete più o meno a conoscenza di quello strumento noto come crowdfounding, arrivato alla ribalta grazie al celeberrimo Kickstarter, portale che si sobbarca l’onere di radunare le idee dei singoli cosicché gli utenti della rete (i cosidetti “backer”) paghino un contributo che poi, solitamente, dà una qualche forma di rimborso, il più delle volte un campione del prodotto commerciabile o parte di esso. Kickstarter (ve ne avevamo già parlato qui) è ormai in voga da diversi anni ed ha permesso la nascita di tantissimi prodotti che spaziano dall’elettronica alla cinematografia e che hanno permesso la nascita di idee folli e forse irrealizzabili, come l’arcinoto Oculus Rift su cui qualche anno fa forse nessuna major avrebbe scommesso. Kickstarter, tuttavia ha anche lanciato un trend, quello dell’elemosina digitale, di cui però magari parleremo un’altra volta (non appena qualche poveraccio parte con l’ennesima campagna stile aiuti umanitari… tranquilli che la vita è una ruota), e che, fondamentalmente, mette il volto dello sviluppatore in prima linea, un po’ come era in voga negli anni ’80, ma con il surplus dello svilimento dello stesso. Come che sia, Kickstarter, per quanto bene possa aver fatto, ha generato anche una serie di domande cui, a rigor di cronaca, non si è data ancora una risposta e su cui le persone stanno finalmente cominciando a interrogarsi. Perché dobbiamo chiarirlo: non c’è alcuna legislazione e/o regolamentazione del processo e del prodotto di crowdfounding, e pertanto tutto quel che succede in questo panorama è lasciato un po’ al caso. Ma mettiamo l’esempio: cosa succede se un progetto, per cui la gente ha pagato, resta in fase beta quasi permanentemente? O peggio ancora, un progetto, il cui denaro è stato racimolato, non parte?
Ad oggi la domanda è stata lasciata un po’ ai posteri, ma ecco che cominciano a verificarsi le prime controversie. Senza voler citare le problematiche legate proprio a Oculus Rift, ed al malcontento generato dalla sua acquisizione da parte di Facebook (per ora googolate gente, poi nel caso ci torneremo), vorremmo oggi analizzare il particolare caso di Asylum Playing Card, un progetto che ha raggiunto (e superato) la cifra richiesta dall’ideatore e che poi… si è perso nel limbo. A riportare la notizia era stato Gamasutra, fatto sta che pare che nei primi giorni di maggio lo stato di Washington abbia intentato una causa contro il creatore del gioco, tale Edward J. Polchlepek, ed alla sua società, la Altius Management. Il reato sarebbe evidente: frode, e si sarebbe consumato proprio su Kickstarter dove il progetto, a fronte dei 15.000 dollari richiesti per cominciare ne aveva incassati ben 25.146 promettendo agli utenti sia alcune ricompense, che la distribuzione (per chi aveva sborsato di più) di un set di carte. Chiusa la campagna il 31 ottobre 2012, le carte e i reward sarebbero dovuti essere distribuiti due mesi dopo (il che di per sé suona già strano per un progetto che non aveva alcun tipo di fondamento economico sino alla fine della campagna) salvo lasciare gli utenti con un palmo di naso. La vicenda non si è conclusa ma pare evidente che il suo esito avrà ripercussioni su quello che è il controverso sviluppo via crowdfounding creando, quanto meno, un precedente giudiziario che possa in qualche modo dare una risposta a situazioni simili sebbene, giusto per chiarezza, cazzate simili non si sono verificate frequentemente.
Quel che mi lascia perplesso è quanto lentamente si sia arrivati all’idea che si possa e si debba regolamentare una pratica come la raccolta di fondi che, a differenza delle tipiche “donazioni”, mette un creatore in una svantaggiosa situazione di debito verso un indefinito numero di utenti.Se è vero che “vox populi, vox dei” allora toccherebbe poi chiedersi cosa può succedere se una serie di backer si ritrovi scontenta del prodotto per cui ha pagato lì dove, per esempio, il risultato finale per le motivazioni più variegate sia agli antipodi del prodotto promesso. Si potrebbe, a quel punto, parlare di frode? Esiste un reato per la pubblicità ingannevole, sarebbe il caso anche dei prodotti nati dalle idee di un Kickstarter a caso? La chiave di volta della riuscita di questo meccanismo è semplicemente una rappresentanza legale che, soprattutto nei paesi in cui sono permesse le class action, porti sotto la stessa bandiera uno scompenso comune. A quel punto non è difficile capire quale potrebbe essere lo scenario, con le meccaniche di produzione sovvertite dalla spinta dei numerosi committenti digitali. Un privato non è una società. Un privato non ha flessibilità. Nessuno di voi pagherebbe per un prodotto soggetto ad un qualchetipo di flessibilità, sarebbe come andare in un ristorante e ordinare un piatto che cambia ad ogni boccone. Una logica impossibile nella realtà, figurarsi in un mercato che è soggetto a delle leggi di domanda e di offerta. Se quella bandiera di formasse, se quel rappresentante legale vincesse, se si creerà il precedente legale che giustifica lo scontento di X utenti, allora dove finità quella “libertà” promessa proprio da istituzioni come Kickstarter, ormai leader del crowdfunding? Chi ci rimborserà questo giro di giostra? Semmai il rimborso fosse possibile…