Ovvero: il futuro dell’editoria digitale
Altro venerdì, altro editoriale e, se permettete, vorrei un attimo divagare da quelli che sono i temi che trattiamo di solito, perché in settimana è successa una cosa che, in quanto Direttore Editoriale di un portale di informazione (becera e caciarona, ma sempre informazione è), mi ha fatto riflettere non poco. Non so quanti effettivamente leggeranno o condivideranno questo pensiero, ma valeva la pena di dire comunque due parole, non per altro, ma perché ce n’è bisogno.
Che cosa è successo? È successo che in settimana Italia Oggi ha diffuso un po’ di dati di fatturato inerenti alcuni portali di informazione del nostro paese, dando così il via a una forte eco di critiche e sberleffi su quella che è l’informazione in rete e chi la fa. Non è un mistero che in giro si dica che il giornalismo è morto, e che esso è ormai asservito al denaro e, in rete , ai click. In sincerità ci sono degli aspetti di questo discorso che non capisco, così come non capisco come si possa, con i tempi che corrono, non comprendere quanto sia fondamentale internet nella comunicazione, sia dal punto di vista meramente sociale, sia da quello più squisitamente informativo. La diatriba sarebbe incentrata sui fatturati e sulla questione della trasparenza, ma mi chiedo io come possa parte della “vecchia guardia” non capire che per chi lavora squisitamente online la fatturazione è figlia del click e, seppur per un click o una visita non ci si scanni (o almeno non ci si debba scannare), in fin dei conti si deve lavorare affinché si affini la voglia del lettore di cliccare sempre di più. Non penso, in tal senso, che ciò sia lapidario per il giornalismo com’è comunemente inteso, è più una questione di evoluzione e di funzione del medium al quale si fa riferimento. Se in internet lavoro, è ovvio che con internet devo farmi conoscere e apprezzare e poiché in internet non fatturo se non sono famoso (ed essere famosi, per quanto incredibili, è dettato da leggi del tutto nuove che trascendono quella che era la vecchia “notorietà stampata”) ne consegue che devo farmi cliccare. Di contraltare devo essere limpido, e devo fare del mio meglio affinché la mia startup/azienda/società o quel che sia non solo si dimostri professionale, ma sia anche “a posto” dal punto di vista finanziario.
Ma chi c’è alla base della piramide? Ovviamente il click e la notorietà che esso concede a me ed al mio lavoro. L’innovazione è un processo dal quale non ci si può esimere, e sottostimare la digitalizzazione dei contenuti è un qualcosa che non si può più fare. L’Italia, in tal senso, è sempre stata un passo indietro ed io, che pure ho lavorato sulla carta stampata per un po’, so bene a quali dinamiche si è andati incontro negli ultimi anni. È come se all’arrivare della proposta digitale (e conseguente spinta pubblicitaria) ci si sia nascosti, facendo finta che tutto andava bene, e senza considerare il digitale come una realtà sostanziale (invece che come un’alternativa). Intendiamoci: non sono di quelli che decretano la morte del giornalismo e dell’informazione cartacea, ma sono tra quelli che non ne vedono un futuro roseo, a maggior ragione se riflettiamo su di un piano, quello italiano, in cui spesso l’informazione si fa eco e non si ha mai la concreta idea di stare scrivendo qualcosa di fresco. Non c’è verticalità nell’informazione italiana, ma solo un orizzonte piatto su cui, più o meno in tutti settori, ci si adagia comodamente. Il futuro sarebbe stato positivo se la carta fosse riuscita a rinnovarsi ed a innovarsi, seguendo il trend (veloce) dell’informazione digitale che, per forza di cose, è sempre sul pezzo (pensate poi per quelle che sono le uscite mensile, e non quotidiane, di una rivista o un magazine).
Ci sono domande a cui non si è risposto più quando ci si approccia a un lavoro come il nostro. “Chi dovrebbe leggerci?” “Chi potrebbe desiderare di fidelizzarsi?” E sono state sostituite da robe come “quando arrivano i soldi?”. Non ci vuole un business man di wall street per capire che bisogna avere le idee giuste e proporre i prodotti ed i contenuti giusti se si vuole, in qualche modo, avere una chance di essere qualcuno o di lasciare qualcosa, il che, come capirete, costa sudore e lacrime. L’editoria digitale non è (e non è mai stata) una prosecuzione di quella stampata, ma è un mondo a sé, con delle regole che oltreoceano sono state già fissate e che forse dovrebbero essere imparate anche qui. Non è un’editoria fatta di un corpo unico (la carta) che in virtù di un nome può prendersi il lusso di presentare anche la mediocrità (celata nelle sue pagine con la perizia di un ladro che nasconde una refurtiva), ma è piuttosto un’informazione fatta di singoli articoli, di singole notizie,di articoli dal forte impatto culturale o virale. È fatta di speciali, di breaking news e si, anche di contenuti frivoli. Un luogo dove ogni notizia verrà concepita come a sé stante, ognuna con il suo potenziale, le sue critiche ed il suo valore. È un qualcosa che prescinde dalla vecchiaia e dalla qualità del giornalista in sé (quasi un’eresia in un paese dove ancora si classifica i giornalisti come “casta”), dalla sua duttilità e della sua potenza.
La potenza che non è più figlia di una firma, ma proviene piuttosto dall’impatto tecnologico che si dà alla propria struttura. È il singolo contenuto che fa la differenza per sé stesso ed agisce attraverso la concretizzazione di tre unità digitali che sono la SEO, la fetta social e la home del sito (che deve essere a misura di contenuti desktop come mobile). Lavorare in tal senso vuol dire ragionare in termini di diffusione e, se si ha un po’ di fortuna, e si sa spingere bene il proprio prodotto, anche di viralità, lanciando in rete non un sasso, ma un algoritmo, capace di spingere la visibilità e dunque i click. Non si tratta, a questo punto, di una vittoria economica, ma di una sfida vinta con la propria creatività e con la concezione che si è creato un meccanismo vincente che può, in qualche modo, garantirci una sopravvivenza e (si spera) una fioritura. Evoluzione, semplice e primordiale, adattata a meccanismi digitali e codici binari. Tocca allora difenderla questa cultura del click, ed aiutare gli utenti a ritrovare il gusto della lettura, spingendo, perché no, anche sui contenuti leggeri di quelli che farebbero storcere il naso ai più squisiti “addetti ai lavori”. Gente che, a nostro modo di vedere, non ha più un futuro garantito e dovrebbe cominciare a ragionare in termini 2.0. Non che noi se ne sia capaci eh, come sempre vogliamo sottolineare come non ci si ritenga mai migliori degli altri. Se questa riflessione nasce è solo per dire a voi che ci leggete che noi ci stiamo provando, che stiamo facendo del nostro meglio, che abbiamo capito l’esigenza a cui la rete (in particolar modo quella del nostro paese) va incontro e che se un tipo di informazione si deve fare, bhe noi scegliamo quella che è lontana dagli stilemi vetusti della carta stampata. Non perché siamo innovatori, ma perché siamo fieri sostenitori dell’evoluzionismo digitale. Come le giraffe di Darwin vorremmo quindi alzare il collo e trovare la nostra forma perfetta, consci che dietro di noi si ammasseranno tanti tentativi fallimentari. Perché l’evoluzione è severa e non premia la sciatteria o la mediocrità che poi, guarda caso, è anche il dogma di un buon business. Perché l’imprenditoria dell’informazione è come la teoria dell’Evoluzione, e premia solo chi ha un piano alle spalle e sa allungare il collo, tutti gli altri, bene che gli va, saranno note a margine nei libri di storia di Google.