La Bibbia del fantasy… o no?
Che Il Signore degli Anelli abbia influenzato il genere fantasy è una verità incontestabile. Quando pensiamo a questa branca del fantastico è difficile scinderla dalla maestosa opera di John Ronald Reuel Tolkien.
Il successo avuto da questa saga è innegabile. Numerose le copie vendute, le critiche positive e incalcolabile il gran numero di appassionati e di fan che, ancora oggi, si riuniscono per parlare e analizzare l’epopea di Arda.
Eppure il successo de Il Signore degli Anelli non sembra essere universale. Sin dalla sua pubblicazione l’opera si trovò di fronte a un solido gruppo di oppositori, che negli anni ha potuto vantare anche figure di spicco e di chiaro talento, da Michael Moorcock fino a China Mieville.
Dobbiamo quindi porci una domanda fondamentale: qual è il reale valore del Signore degli Anelli all’interno del genere fantasy? Comprendere se quest’opera abbia una concreta importanza nella storia della letteratura non è cosa da poco. Serve anche a capire quale sia il retaggio del suo autore, quale grande eredità esso abbia fornito ai lettori e, soprattutto, agli autori venuti dopo di lui.
Chi vi scrive non ha mai fatto mistero di considerare il Signore degli Anelli uno dei propri testi preferiti. Nel corso degli anni ho avuto modo di rileggerlo numerose volte e apprezzarne diversi aspetti. Tuttavia è chiaro che questa saga, sotto molti punti di vista, si rifaccia a una concezione di fantastico e di letteratura ormai datata.
Lo stile verboso, talvolta eccessivamente magniloquente e le dinamiche nella vicenda che sembrano rimandare a un testo molto più vicino all’epica che al romanzo; l’idealizzazione di una realtà, come quella contadina portata fino all’eccesso; il titanismo nei confronti del progresso e del cambiamento della tecnologia e dei valori; e, non ultimo, il confronto tra razze e stirpi diverse, che sembrano rimandare a quella che molti hanno interpretato come una xenofobia latente nello scrittore.
Quante volte, di fronte a tutto ciò, ci siamo trovati a pensare se questo genere potesse effettivamente rendere ancora valida un’opera che, pur con tutti i suoi pregi evidenti (una trama eccezionale e per l’epoca innovativa, descrizioni di rara bellezza e la scelta, per la prima volta, di lasciare che fossero gli umili e i semplici l’ago della bilancia nella lotta tra il bene e il male) era chiaramente un testo della propria epoca. Un testo scritto da un uomo nato nell’età vittoriana e vissuto in quegli anni di profondi cambiamenti come l’inizio del ventesimo secolo.
Certo, tutte le peggiori critiche fatte al Signore degli Anelli al livello di contenuto e messaggio possono essere facilmente spiegate proprio se consideriamo la vita dell’uomo dietro alla sua mitologia. Soprattutto possono essere spesso facilmente confutate soltanto leggendo con attenzione il testo.
Ma resta un fatto incontestabile: il Signore degli Anelli appare datato sia a livello di tematiche che di stile. Sul modo di scrivere di Tolkien dobbiamo pensare a come esso fosse tipico di un’opera realizzata più di settant’anni fa. Quanto alle tematiche e all’ambientazione le storie di stampo “tolkieniano” sono un terribile convitato di pietra per tutti gli scrittori e i lettori fantasy.
Il successo genera imitazione, una regola basilare che trascende la letteratura e abbraccia moltissimi campi. Quanti autori, negli anni, hanno preso a piene mani da Tolkien, creando a tutti gli effetti ambientazioni molto, spesso troppo simili alla sua Terra di Mezzo? Dal successo di Terry Brooks in poi, la scelta di imitare il Professore in tutto e per tutto, nelle tematiche così come nell’ambientazione sembra essere stata una costante in quasi tutte le generazioni di scrittori fantasy che si sono succedute.
Questa ovviamente non possiamo considerarla una responsabilità di Tolkien né de Il Signore degli Anelli. Tuttavia, se osserviamo il retaggio dell’opera da questo punto di vista, molti potrebbero pensare, non a torto, che l’eredità del Professore sia stata più un danno che un dono, una maledizione che accomuna gran parte degli autori costringendoli a vivere nell’ombra di qualcuno migliore di loro.
Eppure sarebbe un modo troppo semplice di risolvere la cosa: non è corretto ridurre il contributo di Tolkien alla letteratura fantastica alla mera proliferazione dei suoi epigoni.
Nel corso degli anni la domanda su quale sia stato il grande merito di Tolkien è stata più volte affrontata. Voci autorevoli si sono confrontate su questo argomento e molti grandi autori hanno fornito la propria posizione. Cercare di dare un’ulteriore contributo a questo dibattito, a fronte di nomi più blasonati, potrebbe apparire come un eccesso di autostima, tuttavia sembra anche giusto cercare di trovare una propria opinione, al di fuori della grande mole di personalità che hanno espresso un parere sull’argomento.
Se vogliamo capire quale sia l’eredità di Tolkien dobbiamo guardare fuori dalla storia. Lasciare la Terra di Mezzo e osservarla, per così dire, dall’alto. Questo perché il maggiore retaggio di Tolkien è stato il suo metodo di lavoro. Il Signore degli Anelli e l’intera epopea di Arda costituiscono il primo grande esperimento compiuto di mitopoiesi conosciuto.
Il concetto non fu inventato da Tolkien: già nel 1906 lo psicologo Wilhelm Wundt utilizzò questa parola parlando del mito e della tradizione popolare. Il folklore, adeguatamente analizzato sotto la lente critica del filologo, diventa una miniera quasi inesauribile da cui attingere. Al suo interno esistono migliaia di storie che attendono di essere rielaborate e per poi essere narrate.
Tolkien, in quanto docente di filologia, difficilmente poteva non aver letto il testo di Wundt. Al ritorno dalla Grande Guerra cominciò il suo lento e costante lavoro per realizzare qualcosa che lo avrebbe accompagnato per la sua intera esistenza, un’enorme epopea che, anno dopo anno, riuscì a costruire fino a trovare il suo compimento con la pubblicazione de Il Signore degli Anelli.
Eppure questo testo non è che la punta dell’iceberg: il gran numero di ricerche, il lavoro per dare all’intera mitologia e alle tradizioni popolari inglesi contesto e svolgimento omogenei, la cura con cui vennero generate le lingue di Arda non possono essere completamente compresi con la mera lettura del romanzo, seguendo Frodo nel suo lungo viaggio verso Mordor.
Per apprezzare a fondo l’immenso dono offerto dal Professore a tutti i suoi successori è necessario lasciare il Signore degli Anelli e cimentarsi nella lettura dei suoi saggi e delle sue lettere, al fine di capire quale grande fatica sia stata la realizzazione di quest’opera.
In particolare sono due i trattati che dovrebbero essere letti per poter adeguatamente interpretare le fatiche di John Ronald Reuel Tolkien. Entrambi sono stati raccolti nell’antologia “Il medioevo e il fantastico” edita in Italia nel 2000.
Il primo è il trattato “Sulle Fiabe”. Si tratta di un’orazione fatta in memoria di Andrew Lang nel 1939, successivamente rivista e pubblicata nel 1947. All’interno di questa breve opera si trovano alcune interessanti indicazioni sulla personalità di Tolkien e sul suo metodo di lavoro, oltre alla massima, divenuta celebre, “L’evasione del prigioniero non va confusa con la fuga del disertore” rivolta a tutti coloro che accusavano la letteratura fantastica (e nello specifico Lo Hobbit) di eccessivo disimpegno.
A colpire è la profondità con cui Tolkien analizza qualcosa solitamente associato alla sfera dell’infanzia come le fiabe e la narrativa fantastica. Nel Professore troviamo la lucidità di avvertire chiunque si cimenti nella costruzione di una fiaba di costruire con saggezza la storia. Non basta creare un buon intreccio: bisogna avere anche la capacità di fornirgli un contesto che possa dare quella sospensione dell’incredulità fondamentale per tutti i lettori, quel tacito patto esistente con l’autore di un libro che non va mai tradito. Se si vuole narrare di un mondo in cui il sole sia verde va bene, purché il creatore di quel mondo sappia motivare la cosa e spiegare quali ripercussioni abbia sulla storia che intende raccontare. Meno semplice di quanto appaia.
Il secondo trattato si intitola “Un vizio segreto” e racconta della creazione degli idiomi di Arda. Al suo interno Tolkien non si limita a spiegare quale sia il modo corretto di costruire una lingua inventata e quali caratteristiche essa debba avere; è dare a questi linguaggi un contesto, una storia e un utilizzo a renderli vivi e credibili.
In tutto questo appare evidente come il lavoro di costruzione di una saga fantasy non sia un esclusivo lavoro di immaginazione. Alle spalle c’è studio, c’è metodo. E fatica. Sotto questo aspetto ritroviamo quel valore che è giusto dare a Tolkien e il suo ruolo nella storia della letteratura.
Tolkien, per gli scrittori desiderosi di cimentarsi nel fantastico, è stato il Professore a tutti gli effetti, colui che ha trasmesso la sua conoscenza affinché altri potessero trovare la propria strada. Rimproverare a Tolkien di aver fatto un danno alla letteratura fantasy, come spesso è stato detto, appare da questo punto di vista estremamente ingiusto. Il maestro scultore crea i propri attrezzi, prende il marzo grezzo e crea la propria opera per poi trasmetterla all’allievo. Sta solo all’allievo ricavare dalla roccia con martello e scalpello qualcosa di nuovo, qualcosa che non sia una mera imitazione del lavoro del proprio mentore.
Alla fine Tolkien è stato, per gli scrittori fantasy, il saggio che ha indicato la luna. Troppi di noi hanno malauguratamente scelto di guardare il dito.