Significato e conseguenze nella morte del grosso progetto di Platinum Games
Scalebound chiude i battenti, non vedremo mai il frutto di un lavoro durato anni per Hideki Kamiya, uno dei più grandi talenti nello sviluppo di giochi giapponesi. Inutile negare lo shock iniziale per la perdita praticamente certa, salvo il recupero della licenza da parte di Platinum Games con improbabili passaggi contrattuali, di un gioco che ormai sembrava avere una forma più che definita. Erano infatti palesi le enormi risorse già impiegate fino a questo punto e viene da farsi tante domande su cosa sta succedendo all’industria dei videogames, quale sia il ruolo dello sviluppo giapponese e quale sia l’atteggiamento delle grosse major come Microsoft nei confronti di certe tipologie di progetti.
E’ evidente infatti come la filosofia commerciale di quest’ultima abbia raggiunto negli anni un’incompatibilità di fondo con il modo di fare delle software house nipponiche, o in generale come se ne fotta bellamente della visione autoriale del medium videoludico. Microsoft è un’azienda piuttosto testarda, molto attenta alle proprie esigenze che spesso, per non dire sempre, mette davanti a quelle creative dei talenti con cui collabora, e questo ce l’ha fatto ben capire negli anni. Non siamo nuovi infatti a ritardi (Crackdown 3 docet) o divorzi celebri, come quello con Cliff Bleszinski, autore di Gears of Wars, o con il team di Bungie. Laddove infatti si raggiungeva da parte di questi l’esigenza di una svolta artistica e creativa sul proprio lavoro, a Mcrosoft è sempre interessato di più mantenere il controllo e la paternità delle saghe multimilionarie da loro create, con buona pace per la perdita del loro taglio autoriale. E non scomodiamo nemmeno nel discorso il compianto Fable Legend.
D’altra parte, gli ultimi anni ci insegnano come per gli sviluppatori giapponesi sia davvero difficile confrontarsi con ciò che si richiede oggi per sfondare nel mercato internazionale. Il loro modus operandi infatti, per un motivo o per l’altro, crea diverse difficoltà ai produttori e finanziatori dei progetti.
Questo non vuole essere né un’accusa nei loro confronti, né una difesa, ma semplicemente una constatazione che vive più che altro di speculazione e di analisi di fatti conclamati negli ultimi anni, non essendo io un insider di queste realtà. Prendete quindi le mie parole per quello che sono, riflessioni a voce alta di un videogiocatore preoccupato che si fa semplicemente “i suoi conti”.
Noto un filo condutture tra diversi casi celebri apparentemente slegati tra loro. Scalebound non era certo nuovo ai rinvii, il gioco di Platinum Games viveva di una gestazione evidentemente travagliata e prolungata, al punto che, nonostante i soldi e il tempo spesi fino ad oggi, qualcuno in Microsoft ha pensato che non né valesse più la pena. Quello che mi viene da pensare è che i team giapponesi abbiamo difficoltà a creare un certo tipo di giochi, qualcosa dal sapore “universale” che si concili però anche con la loro certosina e peculiare attenzione al gameplay vero e proprio. Sviluppare un open world posso immaginare sia già un lavoro oneroso per chiunque in termini di risorse, ma diciamocelo, questi spesso nascono su carta con intenti commerciali ben precisi, almeno per quel che riguarda lo sviluppo occidentale: l’environment giusto, che attecchisca con il grande pubblico e la dinamica di gioco ultra collaudata che segua il trend.
Progetti insomma ottimizzati già nella genesi, per garantire al 100% un rapporto spese/profitto vantaggioso. Questo rapporto è diventato così importante da tarpare completamente le ali ad un eventuale fattore “artistico/creativo” che possa in qualche modo inserirsi nella formula. Ecco quindi che probabilmente per Platinum Games, sviluppare Scalebound significava creare “due giochi in uno”, con conseguente dilatamento dei tempi di produzione. E’ verosimile infatti pensare che il gioco dovesse essere enorme e magniloquente sul versante grafico, ma allo stesso tempo, dovesse avere un gameplay studiato a puntino, preciso, pulito e senza sbavature, come ci ha sempre abituato la compagnia giapponese dagli esordi fino ad oggi (salvo qualche scivolone come Teenage Mutant Ninja Turtles: Mutants in Manhattan). Certo che un conto è mantenere tale proposito in giochi “indipendenti” e concentrati sulla propria visione creativa, e un conto è fonderlo con un potenziale blockbuster voluto da Microsoft per diventare una delle punte di diamante dell’offerta Xbox One 2017.
Se ci pensate, con Metal Gear V: Phantom Pain le cose non erano poi molto diverse. Kojima voleva un gioco sconfinato, che seguisse la deriva di praticamente il 90% dei titoli di nuova generazione, quella open world, ma allo stesso tempo sentiva il bisogno legittimo di non ridimensionare per questo qualsiasi altra caratteristica del progetto, doveva mantenere una qualità specifica per ogni elemento del gioco. Intenti che richiedono tempo, troppo tempo oggigiorno. Ecco quindi che Konami, alla stregua di Microsoft, non è arrivata a cancellare il progetto ma lo ha fatto uscire pesantemente mutilato, chiamando fuori dai giochi il buon Hideo.
Final Fantasy XV è un altro esempio, anni per sviluppare un open world che alla fine si è rivelato una fucina di “alti e bassi” sconcertante. Sono recentissimi gli aggiornamenti su zone di gioco sconfinate che non sono riuscite ad entrare nel titolo finale, ma anche senza queste, sin dalla sua pubblicazione era palese il modus “cerchiobottista” con cui è stato sviluppato il gioco, un titolo estremamente curato sotto certi aspetti ed altrettanto trascurato sotto altri, con elementi che richiamassero da una parte gli aspetti squisitamente giapponesi più tradizionali della saga e dall’altra che modernizzassero la struttura di gioco per renderla papabile ad un pubblico generalista.
Ma Final Fantasy è Final Fantasy, Metal Gear è Metal Gear. Progetti salvati in extremis dal nome. Nomi che da soli costituivano una variabile FONDAMENTALE che si inseriva in quel rapporto spese/profitto di cui vi parlavo qualche paragrafo fa. Giochi che in qualche modo ce l’hanno fatta. E sebbene sia preoccupante il fatto che siamo arrivati al punto in cui è la norma aspettarsi che i progetti giapponesi più ambiziosi arrivino sugli scaffali dei negozi fortemente ridimensionati, troppo spesso in maniera estremamente lesiva, è ancora più preoccupante pensare che nuove IP di questa portata, come Scalebound, che poverino, non poteva certo contare sullo zoccolo duro di una fanbase ancora inesistente, non riescano nemmeno ad arrivare alla fine dello sviluppo.
Ora, sarebbe lecito chiedersi. Chi sbaglia? Sbagliano i produttori come Microsoft, che dovrebbero concedere tempi e libertà creative adeguate ai progetti che vanno a sovvenzionare? Sbagliano gli sviluppatori giapponesi, che dovrebbero non so… Cambiare forma mentis, sfruttare le risorse a disposizione in maniera più lungimirante per accontentare sempre e comunque i publisher? Dovrebbero trovare nuovi metodi di sviluppo? Sbaglia Kamiya a porre la sua visione di director sul progetto dinnanzi a tutto con così tanta testardaggine da mandare il team intero alle “ferie forzate” per lo stress, oppure sbaglia Microsoft a non lasciar lavorare in pace gli artisti a cui decide di dare fiducia?
Sono molti leciti dubbi a cui è difficile rispondere visto che la questione è articolata, delicata e il sottobosco di informazioni necessarie a sbrogliare la matassa si perde tra gli uffici degli addetti ai lavori.
Ma lasciatemi dire la mia su ciò che gira in rete sulla questione. Pare che di fatto, Scalebound sia stato abbattuto da un feedback non eccessivamente entusiasta da parte della gente durante le poche ed estremamente limitate, dimostrazioni pubbliche del titolo di PG. Feedback che ha portato Microsoft a chiedere un cambio di rotta totale ai PG, o in alternativa all’acceleramento repentino dei lavori in modo da chiudere la questione limitando al massimo le presunte perdite. Ovviamente entrambe le soluzioni significavano snaturare l’idea e il concept dietro Scalebound per Kamiya ed è facile pensare che non ci sia per questo stato alla fine un punto di incontro. Al di là di questioni più complesse di cui probabilmente non verremo mai pienamente a conoscenza, se la morte di Scalebound fosse stata decretata da questa “divina voce del popolo” che ha fatto cadere la sua scure sul progetto dall’alto della valutazione superficiale di quanto mostrato, non pensate sarebbe una cosa piuttosto drammatica? E’ giusto che oggigiorno venga dato un tale potere all’opinione pubblica? Secondo me no. Gli investitori dovrebbero mettere in primo piano la fiducia sui creativi su cui decidono di scommettere. Perché solo questi ultimi possono avere in testa chiaro il potenziale del loro progetto, e se non è possibile assecondarli per ALTRI motivi, beh di certo non dar loro credito perché si percepisce a priori il malcontento -legittimo ma ingiustificato- di una massa che non fa altro che omologare l’industria sempre di più, è sbagliato.
Si parla tanto di Microsoft che in questa generazione si sta dando la zappa sui piedi da sola, e anche se in realtà ne condivido il pensiero, io ne fare un discorso più su larga scala, perché credo che, sebbene forse Sony e Nintendo in virtù dei loro natali siano più propensi in ad assecondare progetti giapponesi più o meno ambiziosi, sia un problema generale, i cui sentori sono già da anni nell’aria, ora si ora no, e di cui Scalebound è forse la manifestazione più concreta. Perché se anche la major probabilmente più potente del mondo (dietro la divisione gaming ci sta pur sempre la fottuta Microsoft) su dieci progetti di cui nove “sicuri” sul piano commerciale, non riesce a scommettere a “cuor leggero” su uno parzialmente atipico, nemmeno quando la qualità artistica dovrebbe quanto meno essere ottimisticamente auspicata, significa che stiamo andando in una direzione totalmente unilaterale, che non lascia scampo e mette definitivamente ai margini il videogioco giapponese relegandolo a produzioni dai costi contenuti per rientri contenuti. Un circolo vizioso deteriorante, un cane che si mangia la coda, che non permetterà mai di scoprire quanto effettivamente e realmente possa essere vasto e accomodante il gusto del pubblico, e quanto in finale una nicchia possa potenzialmente diventare massa.
Eppure quando si tratta di giochi “piccoli”, brand come Dark Souls insegnano che anche concept di nicchia possano diventare virali e creare trend internazionali. E allora perché non provare a porre fiducia anche quando si tratti di progetti più grossi? Davvero il gioco non vale la candela e non c’è modo di conciliare questi tempi di sviluppo pachidermici in nessun modo?
Io non sono mai stato troppo entusiasta di quanto mostrato con Scalebound, percepivo ci fosse ancora parecchio margine di miglioramento in alcune cose, ma in ogni caso penso che si trattasse di un prodotto potenzialmente valido, di cui comunque avevamo visto davvero TROPPO poco. Se quindi fosse stato bocciato per troppa “eccentricità concettuale ed estetica”, decreterebbe una mossa veramente sbagliata da parte di Microsoft e un pregiudizio davvero prematuro sul progetto.
Ora che fine farà Platinum Games, non lo so davvero… Finiti i rapporti con Activision e con solo Nier: Automata come asso nella manica la vedo nera per gli ex Clover Studio. Ma la speranza è l’ultima a morire, speriamo solo non faccia la fine di Scalebound.