Fiabe dark. Fiabe dark ovunque.
Alla notizia di un nuovo show ispirato al libro di Lyman Frank Baum “Il meraviglioso mago di Oz” la reazione naturale rischia di essere “siamo già in quel periodo dell’anno?”. Perché, cerchiamo di essere sinceri, è ormai difficile tenere il conto di quanti siano stati, nell’ultimo periodo, i prodotti che hanno tentato di sfruttare il discusso classico dell’infanzia statunitense. Abbiamo così avuto, sul piccolo e grande schermo, varie trasposizioni di una fiaba fortunatissima, dagli anni ‘30, con il classico interpretato da Judy Garland, fino ai tempi recenti, con Once Upon a Time, che ci ha proposto una propria versione del mondo di Oz non più tardi di un paio di stagioni fa, facendo quindi della Strega dell’Ovest uno dei propri personaggi principali.
Com’è possibile, quindi, creare interesse attorno a una storia sfruttata fino all’inverosimile, divenuta trita e ritrita agli occhi dello spettatore che non si dedica alle letture di genere fantasy?
A tentare di risolvere questo dilemma ci pensa Tarsem Dhandwar Singh, un nome, una garanzia (di cosa lo lasciamo decidere all’immaginazione del lettore), regista e sceneggiatore non certo nuovo a questo genere di esperimenti (“Mirror, Mirror”), il quale decide di rivedere la fiaba di Dorothy Gale e del cagnolino Toto in un contesto attuale. Nasce così Emerald City, serie NBC che già dal suo annuncio aveva sollevato un certo numero di perplessità. Vuoi per la conduzione non certo affidabile, vuoi per il concept già molto sfruttato, lo spettatore medio è portato a chiedersi (giustamente) perché vedere l’ennesima seria ambientata a Oz.
Oltretutto, quando si tocca in varia misura il campo della letteratura, non si può fare a meno di chiedersi come trovare il giusto equilibrio tra lo spettatore che ha letto il libro di Baum e quello a che l’ha utilizzato giusto per pareggiare le gambe del mobile della TV. Impresa che in tempi recenti ha visto fallire autori ben più talentuosi di Tarsem. La soluzione purtroppo è pessima: una serie che scimmiotta, male, Game of Thrones, soffocando gli spunti più interessanti della propria trama.
No, non siamo a Westeros, Toto.
Il serial comincia come forse potremmo non aspettarci: una donna che, nel bel mezzo di una tipica tempesta con tanto di tornado, fugge nella notte portando con sé un neonato con un tatuaggio sulla mano, composto da cinque piccoli punti. Salto temporale di vent’anni e scopriamo che si tratta di Dorothy Gale, divenuta infermiera, insicura della propria vocazione e con la necessità di rubare le pillole per aiutare i propri zii. La ragazza, nel giorno del suo ventesimo compleanno, esprime il desiderio di poter essere qualcuno, sfuggendo alla monotonia che opprime la sua vita.
Detto fatto: nel tentativo di riallacciare il rapporto con la madre, la giovane si trova in mezzo a un tornado, venendo trascinata a bordo di una macchina della polizia nel mondo di Oz, insieme a un cane poliziotto sul sedile posteriore del veicolo. L’auto, fuori controllo, finirà per investire una misteriosa donna vestita di rosso, la quale si rivelerà presto essere la Strega dell’Est.
Tutto questo in nove minuti. La cosa ha la nostra approvazione: sappiamo già dove si vuole andare a parare, meglio non tirare troppo per le lunghe la parte introduttiva. Per contro, il tentativo di caratterizzare Dorothy in questi primi dieci minuti scarsi non è del tutto riuscito e lei stenta ad emergere nel corso dei due episodi introduttivi. Il personaggio non fa immediatamente presa, e la stessa attrice, Adria Arjona, sembra ancora poco a proprio agio nei panni della giovane Gale. L’impressione è che si sia cercato di condensare tanto, troppo in così poco tempo. È difficile riconoscersi in Dorothy, che appare una riscrittura interessante, ma ancora tutta da sviluppare del personaggio che fu di Judy Garland. L’interpretazione è altalenante, ma potrebbe essere un tentativo di trasmettere il disagio del personaggio in una situazione dove il suo mondo sembra essere stato stravolto.
Ci spostiamo quindi nella Città di Smeraldo, dove incontriamo il Mago di Oz, interpretato da un Vincent D’Onofrio ben più convincente della propria controparte femminile, il quale evoca fin dall’aspetto una sorta di Robert Baratheon incattivito (mancanza di vino?). Non si riesce a comprendere l’asse morale del personaggio, intento a gestire la città e il regno dopo il caos che un mostro noto solo come La Bestia Senza Fine avrebbe scatenato sul mondo di Oz. La magia si sarebbe rivelata inutile contro questa minaccia e solo l’intervento del Mago e della sua tecnologia avrebbe prevenuto la distruzione della Città di Smeraldo, evocando dei giganteschi guardiani di pietra per affrontare il pericolo soverchiante. Alla presa di potere del Mago è seguito il bando della magia, con le tre Streghe Cardinali rimaste, quella del Nord, dell’Est e dell’Ovest alleate del mago ma limitate nell’uso dei loro poteri e delle loro pratiche.
Così, se la strega dell’Est si è trasformata in una sorta di carceriera, creando una prigione per tutti coloro che hanno osato utilizzare la magia nel corso degli anni, quella del Nord si è limitata a rimanere nel proprio dominio, ritagliandosi un posto di consigliera ben distante dalla capitale e dai suoi intrighi, mentre la fattucchiera dell’Ovest ha… uh, aperto un bordello e fumeria d’oppio nella Città di Smeraldo (sì, la Strega dell’Ovest è Ditocorto!).
Il Mago, venuto a conoscenza dell’arrivo di Dorothy, inizia a darle le caccia, mettendole alle calcagna il suo soldato più fedele, il freddo Eamonn (no, contrariamente a quanto suggerisce il nome, non è un Targaryen) mentre lei, paradossalmente, si sta dirigendo verso la Città di Smeraldo, percorrendo una strada di mattoni ricoperta di polline giallo (in realtà oppio) in compagnia di uno spadaccino privo di memoria che lei chiamerà Lucas. La sua apparizione grida, ancora prima di cominciare, al “love interest” cui è destinata la protagonista. Ma non è tanto la ricerca di Dorothy a tenere banco: sono soprattutto i complotti che si addensano all’interno della Città di Smeraldo, i rapporti di potere sempre più incrinati tra le streghe e il mago, in una versione povera del Gioco del Trono.
Se lo scopo era quello di svecchiare la storia e renderla originale, il risultato ci appare come un mezzo fallimento. Non tanto per gli adattamenti scelti per modernizzare la trama, quanto perché, se da un lato alcune trovate possono risultare interessanti (ne riparleremo quando tratteremo il rapporto con l’opera originale) è impossibile non cadere nel “già visto” di stampo Martiniano. Di fronte a quanto è successo in Game of Thrones, ormai noi spettatori viviamo tutti i complotti e le situazioni politiche scottanti come fossimo il più navigato dei cospiratori, il che ci porta a vedere con un certo scetticismo uno spettacolo che cerca disperatamente di riproporre lo stesso concept di successo della rete HBO. Insomma, la crasi tra “le Cronache del Ghiaccio e del Fuoco” e “Il Meraviglioso Mago di Oz” non funziona, finendo per darci uno spettacolo che, pur nel desiderio di proiettare alcune trame a lungo termine, rischia facilmente di esaurire le proprie idee (non tutte da buttare) in tempi relativamente brevi.
In questo alcune trame appaiono abbastanza scontate: il fatto che possa nascere qualcosa tra Dorothy e “Spaventapasseri” Lucas è fin troppo palese, ma ci sentiamo di azzardare un ulteriore plot twist venato di banalità, la classica riproposizione della situazione “lui, lei, l’altro” quando “Uomo di Latta” Eamonn si unirà al gruppo in pianta stabile. Insomma, niente di meglio che tornare ai vecchi tempi del triangolo Jack-Kate-Sawyer di Lost.
Sei proprio tu, L. Frank Baum? E io chi sarei?
Quando si tratta un libro, il rispetto verso l’autore e le sue intenzioni sono fondamentali, certo, ma si può rispettare quanto espresso da uno scrittore nei suoi romanzi pur cambiando radicalmente il tutto. Nonostante l’idea alla base di Emerald City suggerisca il contrario, questo show ripropone i personaggi, le caratteristiche e le peculiarità che li animavano nella fiaba originale in maniera innovativa, mantenendo, più o meno, le tematiche originali. Il Meraviglioso Mago di Oz, è cosa ormai nota, nasceva come opera fortemente allegorica e satirica, in cui veniva contestata la nuova economia americana. La strada di mattoni dorati simboleggiava il sistema monetario che conduceva verso Washington D.C. e la Casa Bianca, che il popolo americano, rappresentato da Dorothy, doveva seguire per “tornare a casa”, ovvero ai suoi valori tradizionali, affidandosi all’autorità, rappresentata dal Mago di Oz (non mancarono controversie riguardo a questa interpretazione). Per quanto sia prematuro ricercare in Emerald City, dopo appena due episodi, una finalità allegorica attuale, è interessante tentare di carpire e interpretare quanto lasciato trapelare da questi primi settanta minuti circa di fiction.
Da notare come il personaggio di Dorothy, da bambina sia diventata una giovane infermiera, con una crisi d’identità tipica di tutta una classe di giovani che tira a campare, sentendosi parte di una generazione “no future”, semplici rotelline di una macchina più grande di loro, da cui vorrebbero disperatamente uscire. Intanto l’opera originale, traslata sul piano della modernità, cambia fortemente la trama, pur mantenendo sostanzialmente invariato il messaggio. Abbiamo così Dorothy trasportata nel mondo di Oz dal tornado ma, invece di vedere la propria casa sradicata dal terreno, è solo l’auto in cui aveva cercato riparo a finire nel ciclone. La stessa auto che, al momento del suo atterraggio nella realtà parallela, investirà brutalmente la strega dell’Est, la secondina designata dal mago di Oz a imprigionare quanti abbiano osato sfidarlo. Allo Spaventapasseri privo di cervello si sostituisce Lucas, smemorato; all’Uomo di Latta senza cuore corrisponde un sicario senza scrupoli; la strega dell’Ovest, invece di una malvagia megera, è una donna giovane e attraente, che gestisce un traffico di oppio e prostituzione; infine, il grande e potente Mago di Oz, l’uomo dietro la tenda, diventa un re che, dietro la facciata di salvatore del mondo, nasconde una serie di trame e intrighi politici. Insomma, l’abbiamo già detto: cambia la forma, non la sostanza.
Se vogliamo azzardare un’ipotesi, una chiave di lettura doppia per questo serial televisivo esiste, ma appena dopo la seconda puntata risulta difficile dire se siano solo suggestioni dovute alla conoscenza dell’allegoria presente nell’opera originale o una vera e propria chiave di lettura dell’intera vicenda, senza la quale sarebbe difficile riuscire a portare avanti questa serie per un’intera stagione.
Figuriamoci per un rinnovo.
Cosa ci è piaciuto?
Lo svolgimento invita fortemente lo spettatore a cercare due diverse interpretazioni della vicenda, come accadeva nell’opera originale. Alcuni membri del cast risultano all’altezza, Vincent D’Onofrio su tutti, che già nelle sue interpretazioni recenti (Daredevil) ha mostrato quanto sia capace di reggere il ruolo del manovratore dietro le quinte.
Cosa non ci è piaciuto?
Tante, troppe cose sanno di vecchio, e non certo per colpa dell’opera originale. È difficile scrollarci di dosso l’idea di assistere a una brutta copia di Game of Thrones, un tentativo da parte della NBC di dotarsi del proprio serial fantasy di stampo contemporaneo. Se Vincent D’Onofrio convince, l’interpretazione di Oliver Jackson-Cohen, per esempio, ci appare poco naturale.
Continueremo a guardarlo?
Ottima domanda: anche qui vale la teoria delle due chiavi di lettura. Se fosse solo per le storyline proposte, per esempio scoprire come evolverà il rapporto tra il Mago e le Streghe, la risposta sarebbe no. Tuttavia il desiderio di capire se l’ipotesi di una seconda chiave di lettura all’interno della serie sia corretta, ci spinge a continuare la visione. Almeno per un po’.