Emily in Paris sceglie frivolezza e leziosità
Che Emily in Paris fosse nato dalla mente dello stesso creatore di Sex and the City è stato praticamente urlato ovunque. In fondo è uno dei massimi motivi di richiamo per la serie originale Netflix, che tenta così di porre insieme una serie di icone impossibili da non stereotipare fin dal principio, proprio però in funzione di una veicolazione del pubblico e del genere a cui il prodotto streaming doveva andare a riferirsi, facendo il possibile per assicurarsi un posto nell’immaginario della figura femminile all’interno della serialità contemporanea.
C’è Parigi, palcoscenico prediletto e romantico per la protagonista americana, che si abbevererà della cultura francese e delle sue mille contraddizioni, dalla grande apertura all’amore, ma anche all’incredibile territorialità che contraddistingue i suoi cittadini. C’è Lily Collins, viso da principessa e phisique du role per una giovane influencer catapultata nell’Europa dei suoi sogni, delle fantasie di realizzazione, ma soprattutto pervasa e sprizzante di una sua intrinseca joie de vivre. C’è, poi, il ragazzo della porta accanto, anzi, del piano di sotto, che oltre ad essere bello e promettente è anche un eccellente cuoco e un vicino impeccabile.
I cliché ci sono proprio tutti ed è esattamente quello che ci si aspetta dalla serie Netflix, ma se la prevedibilità è la marca da bollo stessa della serie, è il suo rendere inspiegabilmente – e forse anche abilmente? – tutto ancora più semplicistico a decretare la tenuta dell’operazione della piattaforma online.
Perché Emily Cooper non è Carrie Bradshaw
Che Emily in Paris non sarebbe stata affatto copia di Sex and the City era già desiderio espresso dall’ideatore Darren Star, quanto della sua protagonista – e produttrice – Lily Collins. Emily non è Carry Bradshaw e questo è piuttosto chiaro. Il personaggio della serie Netflix è bensì il prodotto di Sex and the City, è la ragazza che da adolescente guardava Gossip Girl sognando i cerchietti e gli accessori di Blair Waltorf e Serena van Der Woodsen, che probabilmente aveva il poster di Audrey Hepburn attaccato in cameretta e indossava il suo tubino vero e l’esorbitante cappello per le sue feste in maschera, è una giovane studentessa di marketing nata e cresciuta nell’era della digitalizzazione e che dei social ha fatto la sua seconda realtà, tramutando poi lo svago in lavoro.
È tutto ciò che sognava di essere e lo è diventata per farsi protagonista di una serie che, d’altra parte, vorrebbe che lo spettatore si immedesimasse e aspirasse all’inedita avventura personale e amorosa del personaggio, non considerando che, a differenza delle proprie eroine, la sua Emily ne risulta solamente il contenitore ben più cheap e vistosamente sfocato.
Quando, allora, si finisce per ritornare al confronto – inesistente, è chiaro, ma inevitabile – con la Carrie Bradshaw modello di vita, è impossibile associarle tale corrispettivo contemporaneo e soprattutto aspettarsi che alla Emily di Emily in Paris, nelle condizioni della sua prima stagione, possa venirle assegnato il posto d’onore al seguito dell’eredità e del patrimonio lasciato dalla scrittrice americana di finzione.
È in cosa differenzia le due (anche qui) icone a rappresentare un abisso che si squarcia nel collegamento che vorrebbe vederle unite: Carrie Bradshaw, ambiziosa, maliziosa, così quadrata nella sua incertezza su chi si è e come si poteva essere donna sociale e lavorativa negli anni Novanta, ha uno spessore che manca totalmente alla frivolezza di una Emily Cooper che, troppe volte, sembra macchietta di se stessa, tutte moine e smorfie che se in una giornalista di New York erano il surplus di un personaggio completo, nel suo caso denotano solamente una vacuità che non può andare – e forse, primariamente, non vuole andare – da nessuna parte.
Se si vuole guardare Emily in Paris è meglio farlo con leggerezza
È dunque solamente accettandone la totale assenza di carisma e la spensieratezza portata ai limiti dell’eccesso che si può fare di Emily in Paris una visione rinfrescante, una commediola fatta serie tv che della romance cerca di fare il proprio punto forte, soprattutto battendo su punti assodati da tempo e su un’irrealtà di situazioni e protagonisti che la rendono una favoletta vezzosa e priva di qualsiasi pretenziosità.
Anche le location, gli outfit, i personaggi di contorno risultano meno chic se tolti dal contesto ed osservati con occhio più critico e meno indulgente, dovendone accettare una partecipazione totale dal momento in cui si sceglie di addentrarsi per le strade parigine, abbandonandosi così a una candidezza fanciullesca e evanescente.
Peccato, in particolar modo, per quello che invece Emily in Paris avrebbe potuto realmente rappresentare: la figura dell’influencer tanto più significativa e ancora veramente poco capita in questi anni in cui è proprio l’interesse per un mestiere semi-sconosciuto e molto incompreso che sarebbe stato in grado di suscitare l’adeguato piglio per appassionarsi alla storia, mostrando anche di questo solamente la superficie, non addentrandosi in dinamiche che mettono in conto il conflitto tra ciò che ormai è vecchio e il nuovo che prova ad avanzare, per una possibilità che risulta anche questa alla fine della serie friabile, ma carica di un potenziale che è un vero dispiacere veder sgretolarsi così.
Torre Eiffel a ciondolo, ménage à trois sentimentali e entusiasmo sovraccaricato alle stelle, Emily in Paris è il prodotto per chi non sa rinunciare alla leggerezza dichiarata, che svaga lo spirito e non impegna il coinvolgimento.
Una serie a cui non mancava niente per farsi faro di una generazione di prodotti irriverenti nella loro leziosità, ma che intraprende completamente la via opposta, tra corse in barca sulla superficie della Senna e baci rubati in boutique d’alta moda, dove gli stereotipi francesini si riconfermano in maniera globale, ma rimangono anche quelli materiale tralasciato, volendo ridere un po’ di tutto, sognare un po’ di tutto, ma non concretizzando assolutamente nulla.