L’eredità di Naruto, il lascito di un manga epocale e il destino del suo creatore
L’eredità di Naruto. È un po’ difficile dire quale sia realmente, soprattutto perché il finale del manga è relativamente fresco (10 novembre 2014). Quella di Naruto, in fondo, è la storia che ha accompagnato un’intera generazione, quella dei ragazzi nati grossomodo a cavallo tra la fine del secolo e l’inizio del nuovo, che nei caldi pomeriggi del 2006 tornavano a casa da scuola e trovavano in televisione le puntate della serie anime (e i suoi filler).
Del resto, se possiamo dire che esiste una generazione Gundam, una generazione Devilman e una generazione Dragon Ball, lo dobbiamo alla tv (e a Italia Uno), esattamente come esiste la generazione MTV.
In ogni caso, stiamo parlando di storie, di prodotti culturali (definizione che non vuole sminuirli, anzi) di “massa” capaci di intercettare gli appetiti di legioni di ragazzi e di seguirli nell’infanzia, nell’adolescenza e a volte perfino (in realtà sempre più spesso) nella vita adulta.
L’impatto di questi racconti, di queste lunghe narrazioni seriali, era tale che a scuola, tra i banchi, bastava menzionare la puntata del giorno prima per trovare altri fan sfegati con cui condividere l’emozione di aver ammirato il Team 7 sconfiggere Zabusa, Naruto fare il suo primo Rasengan e Sasuke abbandonare Konoha per perseguire il suo sogno di vendetta. Oppure, bastava giocare in giardino durante l’intervallo o ai giardinetti nel pomeriggio, lanciarsi nella Naruto Run e scovare intorno altri aspiranti Ninja. E, tutto questo, ha avuto forti effetti di omologazione, di empatia, oltre che bizzarre invasioni all’Area 51, come sapete.
Negli ultimi tempi, le cose sono un po’ cambiate, praticamente sotto ogni punto di vista.
Esistono sempre meno grandi narrazioni condivise capaci di avere un impatto, per così dire, generazionale. E quelle poche cose che ne avrebbero le potenzialità, spesso sono riproposizioni platinate di vecchi capolavori, come i live action.La mia non vuole essere una riflessione alla “si stava meglio quando si stava peggio”, sia chiaro. Quindi, non mi sentirete lanciare filippiche al sapore dei tempi che furono, signora mia, solo l’accettazione che sì le cose sono diverse rispetto ad allora e questo non è necessariamente un male. Che poi diciamo “allora”, ma intendiamo 10 anni fa, al massimo.
Un tempo, qui era tutta Foresta della Morte
Forse oggi è vero che i bambini non si ritrovano più ai giardinetti a parlare di Goku che si è trasformato in Super Sayan o di C18 e del come cavolo ha fatto Crillin a sposarsela (a differenza dei trentenni che a queste cose ci pensano ancora). Hanno altre narrazioni condivise con al centro molto probabilmente l’ultima storia dell’influencer di turno, non che in questo ci sia niente di male.
Di sicuro, non parlano di Naruto e della sua eredità, anche perché probabilmente Naruto di queste grandi narrazioni è stata l’ultima. L’ultima capace di fungere da rito iniziatico per i bambini che ora sono diventati adulti, per quei ragazzini che nelle vicissitudini del pischello più scapestrato di Konoha vedevano nientemeno che un riflesso di loro stessi.
E in fondo, avevano ragione: nel piccolo Naruto della prima puntata, odiato, maltrattato e abbandonato apparentemente senza nessun motivo, era impossibile non riconoscersi. Chi non ha mai sentito su di sé, almeno una volta, almeno per un istante, la sensazione di essere fuori dal gruppo (che allora era la classe), incapace di uniformarsi, incapace di essere come gli altri, incapace di sentirsi parte di qualcosa, bistrattato e senza un perché?
Senza contare poi che, agli inizi, Naruto era scarso, un ninja totalmente incapace e nonostante ciò aveva il sogno di diventare Hokage, come se quel bambino con i piedi piatti ai giardinetti dichiarasse al mondo che voleva vincere la Champions League.
Eppure, con l’impegno e la forza di volontà, da signor nessuno, via via è diventato sempre più forte grazie alla sua determinazione e alla sua cocciutaggine. Questo è un altro dei lasciti dell’eredità di Naruto, non nuovo ma a differenza di tanti altri più forte, più emotivamente coinvolgente. Era davvero l’insegnamento cardine, educativo, di un grande manga di massa, forse l’ultimo. Con questo, non voglio certo dire che non esistono più i grandi manga o le grandi serie anime da essi derivati. Anzi, ce ne sono ancora diversi e davvero belli, come L’attacco dei giganti, My Hero Academia, per non parlare poi dell’onnipresente One Piece, che probabilmente sarà così longevo da diventare l’unico manga ad averci accompagnato dalla culla alla tomba, mettendo una bella tappa ai buchi del welfare.
Ma mi sembra, davvero, che non ne esistano più capaci di catalizzare in quel modo l’attenzione dei ragazzini come Naruto. E, per questo, credo che sia importante cercare di metterne a fuoco l’eredità.
Un finale… Borutto? (spoiler)
Rubiamo un attimo l’espressione coniata da Sio e Nick Lorro nel loro Podcast Power Pizza a proposito del manga di Boruto (su cui torneremo più avanti), per menzionare la più spinosa delle questioni riguardo al suo padre spirituale: il finale. L’eredità di Naruto, infatti, trova una sua sublimazione non solo nell’inizio dell’opera, di come ci ha accompagnato in 15 anni di pubblicazione, ma soprattutto nella fine.
Per chi ha seguito pedissequamente le vicende del ninja Biondo senza pause, capitolo dopo capitolo, è evidente come ad un certo punto Kishimoto abbia cominciato a perdere la bussola. Lasciando perdere un attimo i cambiamenti che hanno contraddistinto la serie negli anni, dal disegno ai testi, è indubbio come ad un certo punto abbia intrapreso una fase calante che ha proseguito fino al tragicomico exploit conclusivo.
Anzi, addirittura la cosa era talmente di dominio pubblico che iniziarono a girare delle inquietanti leggende metropolitane, tipo che Kishimoto ormai era così incapace di disegnare da aver delegato la gran parte del lavoro ai suoi assistenti e che, per questo, non vediamo Jiraya ritornare durante la Quarta Guerra Ninja.
Ora, non vogliamo dilungarci e riesumare l’affaire del finale, non solo perché in fondo è meglio lasciarlo lì dov’è ma anche perché ne abbiamo già parlato profusamente all’epoca, qui per la precisione.
Quello che ci interessa è rispolverarlo quel poco che basta per riflettere dopo tutto questo tempo sulla questione dell’eredità di Naruto e, soprattutto, sul presente e sul futuro del suo creatore, Masashi Kishimoto. Due cose che sono strettamente collegate perché, se dopo la Saga di Pain, ritenuta all’unanimità la vetta del manga, c’è stato il declino è proprio nel finale che si è concretizzato quello che molti non esitano a definire un vero e proprio tracollo. Anzi, credo che sia addirittura possibile rintracciare l’esatto momento si è sentito distintamente il rumore della caduta.
Nel volume 68 assistiamo, infatti, allo scontro finale tra l’esercito dei ninja e Obito Jinchuuriki e fino a quel momento il manga veleggiava su buonissimi livelli.
I nostri sconfiggono Obito che prima di tutto non muore e continua a campare con uno stratagemma fuffa; Madara all’improvviso ritorna ad essere il badass che è sempre stato e ammazza tutti diventando a sua volta Jinchuuriki, cosa che ci permette di vedere l’ultimo grande momento della serie nel volume 69 nonché lo scontro più epico (quello con Gai); poi Naruto resuscita nel 70 e diventa onnipotente salvando Gai dalla morte (chissà perché, Kishimoto sul finale non riusciva più ad ammazzare nessuno); arriva Kaguya che frega Madara (lo stesso Madara invincibile fino a pochi secondi prima) come se fosse l’ultimo degli idioti.
Quindi sì, mi sento di poter dire che il finale è davvero brutto. E la ciliegina della torta è il confronto tra Naruto e Sasuke: anche se la battaglia non è poi così male visivamente parlando, quello che davvero stona è come finisce e l’antefatto.
E poi, dopo non abbiamo nessuna conseguenza, o almeno nessuna vera conseguenza: Naruto il braccio lo recupera subito, Sasuke sembra che non l’abbia mai perso per come combatte, il finale tarallucci e vino giunge al termine mazzate apocalittiche per futili motivi ed è completamente improponibile. Per quanto Kishimoto cerchi di dargli un senso, di inquadrarlo in una prospettiva ricca e riprendendo il consueto messaggio pacifista, che vorrebbe essere l’eredità di Naruto, appare tutto raffazzonato e artificioso.
Per non parlare, poi, del capitolo conclusivo, un vero schiaffo in faccia ai personaggi e a quello che hanno fatto per 15 di pubblicazione. Naruto che diventa un burocrate, Sasuke che dopo aver perso il Clan ed essersene fatto uno tutto suo va in giro a “comprare le sigarette”, Sakura che finisce a fare la casalinga, Konoha in quattro e quattro trasformata in una metropoli ultra-futuristica. Li sentite i muggiti in lontananza?
Sbolognare il Rasengan bollente ai figli
E va bene. Sipario, nonostante tutto. E più lo rileggo, più mi convinco che questo finale assurdo sia una conseguenza del fatto che Kishimoto lo aveva già in testa da tanto tempo e che ha cercato di arrivarci in ogni modo, anche se la storia era andata da un’altra parte. Tutto questo, a dirla tutta, fa pensare che ad un certo punto il mangaka si sia imbattuto in una crisi professionale da cui faticava ad uscire. Cosa che, tra l’altro, spiegherebbe questi suoi 5 anni di pausa.
A metterci una pezza al finale, per fortuna, ci ha pensato Boruto: Naruto the movie, tant’è che questa pellicola non solo crea le fondamenta per le future avventure di Boruto ma sublima quelle del padre.
Mi viene quasi da dire che si tratta del finale perfetto, un finale vero e coraggioso, perché misconosce l’ultimo capitolo e la sua sindrome da “vissero felici e contenti” mostrandoci il volto umano dei personaggi e le gioie e i dolori della loro vita adulta.
Infatti, il film compie un’operazione prodigiosa che si innesta perfettamente su quello che è la filosofia del manga, riprendendone i temi sotto una veste nuova e mostrandoci che, per quanto Naruto sia cambiato e invecchiato (letteralmente), quello che batte è ancora il solito vecchio cuore del bricconcello amante dei ramen e delle tecniche erotiche.
Se Kishimoto verso la fine avevano fatto soffrire i fan nel buio totale della sua crisi, con questa pellicola ha dimostrato che si trattava solo del momento peggiore prima dell’alba. Ha gettato la maschera del mangaka che stava inevitabilmente perdendo colpi, forse a causa della vecchiaia o per gli insostenibili ritmi di lavoro, per annunciare che si stava ritagliando su misura il nuovo ruolo, l’ulteriore evoluzione della sua carriera: quello di showrunner.
La nuova dimensione di Masashi Kishimoto
Del resto, aveva già fatto vedere degli sprazzi nella realizzazione di Naruto: La via dei ninja, nono film dedicato al personaggio oltre che uno dei migliori, non a caso supervisionato direttamente da Kishimoto. Ha bissato in The Last: Naruto the movie, anche questo un successo incredibile battuto solo dal già citato Boruto.
In tutti questi progetti, oltre che ad intervenire attivamente sulla storia ha agito da vero e proprio produttore esecutivo, coordinando e supervisionando i lavori e se, come si dice, che tre indizi fanno una prova allora possiamo dire che davvero stava preparando la sua futura dimensione dopo l’addio al manga. Non solo: stava anche istruendo a dovere i suoi successori.Insieme a lui, su Boruto: Naruto the movie c’era infatti, oltre oltre allo studio d’animazione Pierrot, Ukyo Kodachi, attuale sceneggiatore del manga di Boruto e demiurgo della serie anime.
Prima, Kodachi, a confermare il suo progressivo inserimento nel mondo di Naruto, ne aveva raccolto l’eredità scrivendo Gaara Hiden, il quinto libro delle light novel dedicate ad approfondire i retroscena della serie dopo la sua conclusione. Da qui a Boruto, il passo è stato breve, con Kishimoto a supervisionare il tutto, a preparare il terreno realizzando diverse mini, ad occuparsi dei character design e offrendo spunti per la storia.
Sulla vita di questo spin-off bicefalo del figlio di Naruto non diremo oltre. Vi basti sapere che la serie animata ha confermato presto tutti i dubbi che avevamo espresso qui in tempi non sospetti e che il manga, dopo un discreto inizio, ha preso una deriva farlocca e assurda di stampo simil-fantascientifico. Eppure, può contare per quanto riguarda l’apporto visivo su Mikio Ikemoto, uno degli assistenti di Kishimoto, dunque l’ennesimo dei suoi successori, che aveva preso in mano la assai pesante eredità di Naruto. Mikio Ikemoto non è stato certo l’unico a proseguire la propria carriera sotto l’ala protettiva del maestro. L’ultimo, in ordine di tempo, è Akira Okubo, anche lui coinvolto in Boruto: Naruto the movie e ora arruolato da Kishimoto nel suo nuovo progetto: Samurai 8.
Dai ninja ai Samurai
Samurai 8, dopo anni di rumors, ritardi e dubbi, ha finalmente cominciato la pubblicazione sulle pagine di Shonen Jump, la stessa rivista che è stata la casa di Naruto, a maggio di quest’anno. Da quello che risulta, per chi ha avuto modo di leggere le scan disponibili in rete, si tratta di un manga di ambientazione prettamente fantascientifica, da sempre uno dei grandi amori di Kishimoto (che agli inizi propose proprio una storia di fantascienza rifiutata dalla redazione).
Anche qui, Kishimoto si è riservato un ruolo di regia: si occupa della storia, del character design, degli storyboard e delle locandine lasciando i disegni a Okuto. Cosa questa insolita per i mangaka in senso classico e anzi molto più da fumettista americano. Ma non lasciatevi ingannare, la sua mano si vede eccome e riprende il marchio di fabbrica della casa: la passione per la cultura giapponese.
Infatti, Samurai 8, come intuibile dal titolo, reinterpreta le leggende e i miti dei Samurai del Sol Levante adattandoli in un nuovo contesto futuristico, un po’ come aveva fatto sempre con Naruto che pescava a piene mani dalla storia dei ninja.
Samurai 8: The Tale of Hachimaru (questo il titolo completo), è la storia di Hachimaru, un giovane debole e malato che non può uscire di casa senza un sistema di supporto che lo protegge. Ha un padre che si prende cura di lui e lo tratta come se fosse costantemente in pericolo, un cane robotico di nome Hayataro e vive in un mondo dove esistono i Samurai, la magia e gli dei. Non a caso, il suo sogno è quello di diventare proprio un Samurai. La vita di Hachimaru cambia drasticamente quando conosce Daruma, un androide con le sembianze di un gatto che si dichiara un guerriero e decide di prenderlo come suo allievo.
Non c’è ancora molto da dire su questa nuova opera, tant’è che sono usciti al momento solo 17 capitoli anche se Kishimoto ha dichiarato di avere, per adesso, idee per arrivare almeno fino a dieci volumi. Una cosa, però, si può dire e si innesta proprio su quanto dicevamo riguardo alla nuova dimensione di Kishimoto, alla sua evoluzione.
https://www.youtube.com/watch?v=2bCnFBOXIr0
Ad esempio, vediamo che al centro c’è il rapporto tra Hachimaru e la figura paterna, cosa completamente assente in Naruto perché Kushina e Minato muoiono subito (e non è che ci siano in giro poi tanti altri genitori, a pensarci). Questa novità è, più prosaicamente, diretta conseguenza del fatto che il papà del ninja biondo è diventato papà per davvero. Dunque, ci si può aspettare una storia più personale e intima.
Per il resto, ad una prima impressione Hachimaru e Naruto sembrano avere diverse cose in comune. Entrambi hanno dei limiti forti e un sogno, apparentemente, reso impossibile proprio da questi limiti. Ma abbiamo il sospetto che questo non fermerà il giovane eroe esordiente.
Del resto, Kishimoto è il primo ad aver capito qual è la vera eredità di Naruto: che è attraverso difetti veri, tangibili e realistici, che i lettori possono riconoscersi nei personaggi e crescere insieme a loro.