Sanpei e l’età d’oro del piccolo schermo
In attesa che Star Comics mantenga la promessa fatta ai fan questa estate, dando alle stampe la Tribute Edition completa di Sanpei: Il ragazzo pescatore (conosciuto in Italia come Sampei) – interrotta bruscamente nel 2004 – con l’ingresso nell’anno nuovo, vogliamo cogliere l’occasione per una breve analisi dell’opera più nota dell’eterno fanciullo di Akita Takao Yaguchi.
Per chi ha avuto la fortuna di assaporare appieno l’età d’oro degli anime televisivi durante la propria infanzia, quando robottoni, maghette e ladri gentiluomini regnavano indiscussi nelle fasce pomeridiane delle emittenti del Bel paese – non da ultimo grazie alle loro memorabili sigle, apprezzate anche all’estero –, Sanpei rappresenta uno dei capostipiti del genere shōnen, caratterizzato da un pedagogismo e cameratismo a volte esasperati, ma nondimeno in grado di coinvolgere grazie alla spontaneità dei propri personaggi e alla gradita prevedibilità della narrazione, le cui altalene, tra sudate vittorie e sconfitte amare, regala sempre un invito a non arrendersi per nulla al mondo. Allo stesso tempo, considerando il periodo storico in cui il manga originale – di cui a oggi non esiste ancora un’edizione italiana – vide la luce, in un mercato che a breve sarebbe stato invaso da serie sportive memorabili come Capitan Tsubasa, Touch! e Attacker you! – il nostro Mila e Shiro –, Sanpei viene spesso ascritto per associazione al genere spokon, del quale figura sicuramente come esponente ma con alcune sensibili differenze.
La vocazione ambientalista di Yaguchi
In primo luogo, per quanto non si possa dire che il nostro giovane pescatore manchi di “determinazione” (konjō, da cui –kon nella crasi spokon) nel perseguire la scalata nella sua specialità, essa si accompagna a uno sguardo apertamente ambientalista sull’ecosistema – acquatico e non – in cui si consuma il rito agonistico della pesca, cosa che costituisce l’inconfondibile marchio di fabbrica di Yaguchi.
In altre parole, diversamente dalla maggior parte dei manga sportivi suoi contemporanei, dove il confronto coinvolge esclusivamente sfidanti umani, con il campo da gioco a simboleggiare una moderna arena gladiatoria – forse altrettanto spietata ma in linea coi princìpi etici del dopoguerra –, in Sanpei la natura, ovvero la cornice entro cui si gioca la competizione di turno, rappresenta il pilastro portante della dialettica posta a fondamento dell’intera saga.
Il nostro eroe affronta infatti una sfida anzitutto contro se stesso, nel tentativo di superare i propri limiti e dimostrarsi all’altezza della situazione, e quindi contro il suo avversario diretto che è la preda da catturare: per quanto possano fare capolino antagonisti umani – come il rivale/maestro Pyoshin –, il tema centrale resta dunque quello dello scontro tra uomo e natura, la quale merita il medesimo rispetto che si riserverebbe a un proprio simile. Nello specifico, come evidenziato dall’attenzione di Yaguchi per gli scorci paesaggistici e gli inquilini di boschi, fiumi e montagne, tale rispetto si concreta nella preservazione dell’equilibrio esistente, cercando magari di fermare quanti vorrebbero approfittarsene, privando uno stagno dei suoi pesci più belli o sversando rifiuti tossici in un corso d’acqua.
Ferma restando questa considerazione sull’importanza della natura quale primo sfidante del protagonista – praticamente un unicum al momento del debutto del manga sulla rivista Weekly Shōnen Magazine nel 1973, fatta eccezione per alcuni racconti comici che intendevano parodiare proprio le prime storie a fumetti pubblicate da Yaguchi sul tema, Sanpei si scopre comunque “di genere” sotto diversi aspetti, da cui appunto la definizione di spokon che ne abbiamo dato in apertura.
Sanpei e il rapporto col genere spokon
In primo luogo, l’attenzione per i dettagli tecnici, sia dal punto di vista delle illustrazioni che dei testi, è tipicamente spokon. La molla che spinge Sanpei a lasciare il suo villaggio nel Tōhoku per girare in lungo e in largo il Giappone non è infatti tanto la smania di catturare ogni specie ittica esistente, quanto di impiegare la tecnica migliore per ciascuna di esse: da qui la minuzia con cui l’autore descrive le particolarità dell’esemplare da far abboccare, sulla base delle conoscenze scientifiche allora disponibili – eccezion fatta per un paio di avversari “mitici” come il takitarō, il famigerato “pesce fantasma”, per la cui descrizione si è affidato al repertorio di leggende popolari della prefettura di Yamagata –, accompagnandole a descrizioni altrettanto dettagliate dell’attrezzatura da impiegare, talvolta facendo riferimento a pratiche ancora poca diffuse nell’Arcipelago, come la pesca con la mosca artificiale o le canne in fibra di vetro.
Intromettendosi nella narrazione con dei veri e propri specchietti a margine, in cui si forniscono al lettore informazioni specialistiche che sarebbe forse fuori luogo inserire nei balloon dei personaggi, Yaguchi trasforma così ogni avventura in un’occasione di approfondimento, arrivando a definire uno dei capisaldi del genere da lì in avanti: la verosimiglianza delle situazioni descritte, da cui deve trasparire la profonda conoscenza e passione di chi scrive per lo sport in questione, in modo da trasmetterla al pubblico e fornire degli esempi concreti delle avversità che gli atleti devono affrontare su base quotidiana, nella speranza di stimolare ulteriormente i processi emulativi (in positivo, s’intende).
In secondo luogo, si riscontra la consueta celebrazione del sacrificio e del miglioramento individuali, con la disciplina sportiva a fungere da veicolo di riscatto sociale o mezzo di redenzione. Volendo risalire alle origini di tale concezione, è parere diffuso che essa derivi sostanzialmente da due matrici: da un lato, la tradizione dell’etica militare del bushidō, la cui codificazione formale è in realtà più tarda di quanto si tenda a pensare, rintracciabile in alcune compilazioni codicistiche dei primi del Seicento (tardo periodo Sengoku), secondo la quale all’allenamento fisico deve corrispondere un’adeguata preparazione spirituale, conseguendo il doppio scopo di perfezionare la propria tecnica e favorire l’ascesa del gruppo di appartenenza – pur nel rispetto dell’avversario, a maggior ragione se più forte in quanto esempio da imitare-; dall’altro, vi sono i princìpi democratico-egualitari di origine statunitense, che negli anni in cui Yaguchi inchiostrava le pagine di Sanpei erano stati innestati di fresco dall’occupante, arrivando a ridefinire i rapporti interpersonali e sociali.
Memore della mentalità classista e remissiva che aveva portato l’opinione pubblica a sostenere acriticamente una guerra senza possibilità di vittoria, a ostilità concluse il quartier generale dello SCAP aveva appunto investito molto sulla revisione dei testi scolastici e sulle attività extracurricolari – baseball e sport di squadra in testa –, nella speranza di ridefinire completamente l’assetto valoriale delle nuove leve, insegnando loro che, per quanto tragica la situazione di partenza – quale di fatto era quella del Giappone appena uscito dal conflitto –, chiunque poteva raggiungere i propri obiettivi, impegnandosi e aiutando il prossimo. A seguire, tale intuizione si dimostrò vincente: il successo del Giappone, sia a livello di nazionale che di paese ospitante, ai Giochi Olimpici di Tokyo del ’64 dimostrò al mondo che la generazione cresciuta tra le macerie del vecchio Impero era dinamica, collaborativa e pronta a mettersi in gioco, non solo per una questione di soddisfazione personale, ma anche nella consapevolezza che le sorti della nazione dipendevano dagli sforzi di ciascuno.
E fu proprio sull’onda lunga di quelle fortunate olimpiadi che gli spokon di Ikki Kajiwara (Tommy la Stella dei Giants, L’Uomo Tigre), Tatsuo Yoshida (Speed Racer, Judo Boy) e Mitsuru Adachi (Nine) riuscirono a conquistare il cuore dei giovanissimi, desiderosi di seguire l’esempio dei loro “fratelli e sorelle maggiori” che in TV avevano fatto sognare la nazione, spesso rilasciando interviste moraleggianti a competizione conclusa, con cui si invitava a fare tutti la propria parte per un futuro migliore.
Inutile dirlo, una buona parte del successo del genere sportivo si deve al ruolo di apripista svolto dallo stesso Yaguchi, nonostante l’età avanzata rispetto ad altri colleghi: aveva infatti “ben” 26 anni quando decise di affiancare la professione di fumettista a quella di bancario, debuttando sulla stessa rivista (i.e. Garō) che l’aveva folgorato con le storie di Sanpei Shirato.
In questo senso, la disposizione d’animo del personaggio di Ippei, nonno del protagonista, parla chiaro: distrutto dall’incidente che lo ha privato della nuora e della nipotina, aveva in un primo momento pensato di interrare lo stagno che le aveva fatte annegare, impendendo a Sanpei di avvicinarsi alle tradizioni di famiglia; tuttavia, in linea con gli ideali della nuova gioventù giapponese, egli decide infine di iniziare il nipote alla pesca e di crescerlo nella consapevolezza sia dei pericoli sia delle meraviglie di questo sport, affidandogli il compito di riportare la prosperità in casa Mihira. Una proiezione fin troppo ideale per un vecchio pescatore, certo, ma che segnala l’apertura mentale di Yaguchi e la fiducia che egli stesso riponeva nel manga quale medium pedagogico.
Cosa aspettarsi dalla nuova Tribute Edition
La Tribute Edition programmata per i tipi Star Comics coprirà l’intero arco narrativo di Tsurikichi Sanpei: Heiseiban (2002 – 2010), la rivisitazione aggiornata cui Takao Yaguchi ha dedicato gli ultimi anni della sua carriera. Suddivisa in dodici tankōbon nell’edizione originale, la serie – rimasta purtroppo incompiuta, a causa dei problemi di salute che dal 2004 in poi hanno rallentato l’attività del mangaka – narra le avventure di Sanpei riportandole ai giorni nostri, ma senza smorzarne l’entusiasmo giovanile: nonostante viva ormai nell’era Heisei (1989 – 2019), tra telefoni cellulari, canne da pesca all’avanguardia e outfit meno spartani, Sanpei e i suoi compagni di ventura appaiono invecchiati giusto di qualche anno, pronti a mettersi sulle tracce di un fantomatico drago assopito sotto la superficie di un lago. Più che una rielaborazione critica dell’opera, pare trattarsi dunque di un inno nostalgico a un certo modo di intendere il manga e la gioventù, nonché di guardare al futuro: esattamente la dose di ottimismo di cui abbiamo bisogno in questo periodo.