Partiamo dalle basi: cos’è il cinema d’autore?
Se facessimo questa domanda a chi invade le sale del Belpaese, la percentuale di persone in grado di fornire una risposta soddisfacente sarebbe probabilmente molto bassa. Ma anche girandola a critici e giornalisti di settore, non avremmo la certezza di un esito assai diverso.
Il problema è che espressioni quali “cinema d’essai”, o “di genere” o il sovracitato cinema d’autore rientrano troppo spesso nel nostro lessico con modalità che in gergo potremmo definire “a casaccio”.
Ci riempiamo la bocca di termini che conosciamo appena, ed il trend culturale del nostro paese non ci impone di crearci lo scrupolo di approfondire un po’ più nel dettaglio gli spunti di questi vaghi argomenti di discussione.
Dobbiamo ammettere tuttavia che definire il “cinema d’autore” con un’espressione non è facile, anzi è praticamente impossibile.
Ciò che possiamo fare è semplicemente provare ad effettuare una distinzione tra quello che rientra nei confini del “commerciale” e i prodotti che ne prendono le distanze.
In assoluto è importante capire che l’anticommercialità (passatemi il termine) non è per forza di cose sinonimo di qualità, ed anzi troppo spesso ci scontriamo con pellicole autoriali che facciamo veramente fatica a digerire, o al contrario abbiamo magari a che fare con blockbuster sorprendentemente ben congeniati.
Dunque: abbiamo capito di che si tratta?
Spesso la soluzione è davanti ai nostri occhi, e allora giocando con le parole che compongono la sua definizione, annaspando e con un leggero balbettio, possiamo sostenere che si tratti di un tipo di cinema legato al proprio autore, che ne rispecchi le peculiarità, e che sia “impegnato”.
E’ necessario pertanto che il filmaker abbia sviluppato nel corso degli anni una propria etichetta virtuale, un modo di fare cinema che sia solamente il suo e che lo distanzi dagli altri autori, ma soprattutto che le sue fatiche cerchino di veicolare un messaggio, non necessariamente positivo o morale, che ci aiuti però a decifrare il suo stile.
Detto questo, la risposta alla domanda “esiste ancora il cinema d’autore?” non può essere che un sì.
Non morirà mai; o almeno è quello che ci auguriamo.
Esistono registi poliedrici, in grado di cambiare genere e metodiche, rendendo le loro pellicole irriconoscibili, ma possiamo contare una lunga schiera di autori ancora attivi, che portano la bandiera della categoria.
IL CINEMA D’AUTORE OGGI
”Ho capito! Provo a dare la soluzione!” – “Woody Allen?”
Esatto, lettore, hai indovinato. Il Maestro Allen è senz’altro uno di quelli che – vista anche la sua longeva carriera – ha radicato la propria essenza filmica e in qualche modo ha anche stravolto il concetto d’essai, elevando le sue produzioni autoriali al consumo di massa, pur restando fedeli al motivo per cui sono state concepite.
Le sue pellicole cambiano, evolvono, spesso sono molte diverse l’una con l’altra, ma può bastare un guizzo, quella giusta dose di humour pungente o sarcastico, quello scorrere della narrazione tra filosofia e magia, o più semplicemente quella caratterizzazione così autentica dei suoi personaggi, che chiunque può riuscire a dire “sì: questo è un film di Woody Allen”.
Da uno stile all’altro, ecco che un altro dei padri fondatori dell’attuale cinema d’autore non può che esser Tarantino.
Per lui il film è lavoro nel senso attivo del termine. Ama seguire tutto, dalla bozza del soggetto, fino ai dettagli della post-produzione. Non lascia nulla al caso, o peggio ancora alla mercé degli altri; e quando lo fa è perché è come se fosse ugualmente presente.
Quentin Tarantino è uno che sperimenta, si diverte, incastra i personaggi in un universo da lui creato e li sposta avanti e indietro, giocandoci come fosse un gigantesco cubo di rubik. Eccede con la violenza ed il pulp, ma lo fa sempre quando deve, e se facessimo le analisi al sangue esce dai suoi film, avrebbe sempre gli stessi valori.
E in Italia? Proviamo a tenere il passo, un po’ a stento.
Non abbiamo più Rossellini o Fellini, ma non vuol dire che – nonostante le difficoltà del cinema italiano – non ci siano prodotti autoriali.
Abbiamo Salvatores, con le sue innovazioni; Sorrentino, con le inquietanti analisi dei suoi personaggi; Moretti, con la sua critica irriverente ma acuta della società; e tanti altri.
Di sicuro avevamo Caligari.
Rispetto al passato, risulta chiaro un fattore: per ampliare la cassa di risonanza occorre commercializzarsi, ed il male non è l’atto in sé, bensì la necessità che questo avvenga.
I già citati Fellini e Rossellini (tanto per dirne un paio) non avevano bisogno di alcun calcolo sulla base di nulla, e l’unica esigenza era costituita dalla volontà di rispettare la propria idea di cinema e quella che il pubblico si aspettava di trovare in loro; cosicché il successo si estendeva oltre i confini nostrani senza alcuna preoccupazione a monte.
Allo stato attuale il nostro cinema d’autore vive invece le stesse problematiche del suo antagonista più dozzinale, per cui eccezion fatta per la scena indie italica (che comunque tende sempre a commercializzarsi non appena possibile), ecco che i cineasti tricolori ricorrono ad espedienti salvavita.
Sorrentino ad esempio, pur mantenendo la sua autorialità, si è reso conto della rilevanza di essere internazionale, e così fa sempre più spesso uso di interpreti importati, ed importanti.
Questo è un complesso meccanismo che accomuna il nostro cinema d’essai all’ordinario, forse facendogli perdere un po’ della sua autenticità.
E’ un problema che coinvolge la totalità della produzione per il grande schermo italiano, e non gli permette di uscire dalla voragine in cui si è inabissato.
Il cinema d’autore quindi esiste e continuerà a stringere i denti, ma di sicuro ad Hollywood è più facile realizzare un certo tipo di lavoro.
L’ambiguità di questa definizione è probabilmente destinata a rimanere tale, ma noi dobbiamo sentirci in dovere di difenderla, perché è l’essenza di questa arte e soprattutto della professione o dell’hobby che le da’ vita.
Il cinema d’autore esiste, e sarà il vostro senso critico a tracciarne i confini.