Durante la Gamescom abbiamo intervistato l’ESL su alcuni dei temi dell’eSport, come la sua accessibilità e il suo valore culturale
o sport è una delle più grandi conquiste delle culture umane. Che lo si guardi in senso antropologico o sociale, l’attività fisica cooperativa e competitiva ha da sempre rappresentato momenti fondamentali nello sviluppo dell’essere umano, sia dal punto di vista sociologico che individuale. Una delle mille nature del videogioco è proprio quella sportiva: mentre qualche appassionato lotta per il riconoscimento del medium come mezzo espressivo, milioni di altre soggettività partecipano ad eventi e-sportivi a tema videoludico. Negli ultimi anni, c’è chi ha cercato di trasformare in impresa quella che è un’abitudine consolidata da decenni: sono nate leghe, tornei, campionati, brand, marchi e chi più ne ha più ne metta. Questo processo, unito al sempreverde “gli eSport non sono veri sport”, è diventato il centro di uno dei dibattiti più accesi del settore. Nell’intervista a Patrick Perkins, Product Marketing & Gaming di Qualcomm, e Kevin Rosenblatt, General Manager Mobile di ESL Gaming, abbiamo cercato qualche risposta a queste domande.
Perché scegliere di investire sull’eSport mobile? Perché ora, perché con un lancio come quello di SnapDragon?
Kevin Rosenblatt: È da anni che nel mondo dell’eSport si discute del futuro del mobile. Certo, il settore, lato gaming, cresce a cifre astronomiche, nettamente superiori a quelle del PC e delle console, ma ci si è sempre chiesti se invece sia sostenibile un ambiente realmente competitivo su queste piattaforme. Molti pensano che sia impossibile, ma noi crediamo che si sbagliano: crediamo nel mobile come luogo competitivo, e ci sembra anzi l’unico che permette il passaggio da “zero to hero” (dalla partita a casa tua fino ai grandi stage globali) a chiunque, al di là di limiti di hardware e di tempo. Il mobile gaming ti permette di competere e “grindare” anche mentre sei fuori, non richiede ore a disposizione per un semplice match, e ha bisogno solo del piccolo oggetto che hai in tasca, non di centinaia di euro dedicata a una sola macchina.
Uno dei problemi più ricorrenti che si incontrano nel cercare di comunicare l’eSport è quello dell’interfaccia. È difficilissimo riuscire a seguire ciò che accade su schermo, quando non si gioca al gioco in esame. Non solo, spesso anche chi gioca assiduamente ai videogiochi non ha gli strumenti per seguire con trasporto il gioco specifico. Avete qualche idea per risolvere questo genere di problemi?
Kevin Rosenblatt: da tempo ragioniamo su come risolvere questo problema, che è un innegabile limite all’evoluzione del settore. Ciò di cui ci siamo resi conto con le nostre ricerche è che una larga parte del pubblico oggi guarda ciò che segue su dispositivi mobile, e non solo nell’eSport: quanto detto vale per tutto, dai film alle notizie. Di conseguenza stiamo ragionando su come integrare la visione degli eSport in modalità meno “tradizionali”, come nelle classiche otto ore di broadcast tipiche del settore. Investendo sulle piattaforme social, sugli influencer e su un maggiore dinamismo delle pubblicazioni, pensiamo di poter ottenere un buon risultato.
Inoltre, su alcuni eSport abbiamo creato tre diversi livelli di competizione, e abbiamo ideato dei contenuti diversi per ogni singola divisione, in modo tale che il più “basso” di questi offre una complessità minima per chi inizia la sua avventura in questo mondo, mentre quello più “elevato” propone interfacce e contenuti molto profondi, adatti a chi conosce benissimo tutti i sistemi e le regole del gioco che sta giocando.
In questo settore spesso si dice che i casters, i commentatori e gli analisti, possano essere una delle strade più facilmente percorribili verso la comprensione del singolo gioco.
Kevin Rosenblatt: i casters sono sicuramente un’alternativa, ma la brevità del tempo dedicato è talmente risicata che le strategie più adatte sono quelle di una presenza massiccia sui social, unite a una capillare presenza online.
Patrick Perkins: c’è anche da dire che il mobile gaming è così accessibile che piuttosto che aver bisogno di apprendere in modo indiretto, chi gioca può subito scaricare quel che vede e provare direttamente. Prendi quel che sta accadendo con Brawl Star proprio qui, alla Gamescom: entro nella Hall 6, vedo questo schermo gigante con questo gioco stupendo e dico “woa, lo scarico e vedo come funziona!”.
Seguendo scene competitive “professionali” a livello internazionale, mi rendo conto del divario che esiste tra il mercato italiano e quello internazionali. Cosa pensate serva per diffondere certe realtà?
Kevin Rosenblatt: domanda interessantissima perché mi permette di dirti una cosa: analizzando i dati, abbiamo scoperto che oltre il 18% di chi gioca alcuni dei nostri giochi a livello “championship” è italiano. Un numero eccezionale, ma che assume un significato più grande se inserito nel quadro europeo: di solito, il Vecchio Continente ha delle performance inferiori ai classici mercati trainanti, come quello asiatico e quello nord americano. Nel caso del mobile gaming, ci troviamo invece di fronte a numeri diversi e promettenti.
I problemi del settore sono tanti, ma l’elefante nella stanza è sempre lo stesso: come possiamo considerare competitivo e bilanciato un ambiente posseduto comunque da una sola azienda? Se io, atleta, investo anni nel migliorare il mio personaggio X, cosa accade se azienda Y decide che vuole cambiarlo per migliorarne l’uso nella player base più ampia?
Kevin Rosenblatt: devo contestare le tue premesse, in questo caso. Non direi che si ha sempre una situazione di possesso delle regole dell’azienda, ma che ci troviamo di fronte a uno spettro: esistono casi nei quali chi possiede un brand viene da noi e chiede “cosa posso fare per creare un ecosistema competitivo ed equilibrato?”. Ecco, in quei casi si crea un rapporto dove la gestione di eventi come i Mondiali è affidata all’azienda stessa, mentre per tornei nazionali e/o regionali viene ideato un contesto competitivo ad hoc, in collaborazione con le organizzazioni. È un processo iterativo, si bilancia nel tempo.
Uno dei modi per spingere tutti i publisher verso la creazione di un ente “collettivo” potrebbe essere il riconoscimento da parte del comitato olimpico. È qualcosa che pensate sia importante?
Kevin Rosenblatt: sarebbe una grande cosa a livello generale: io penso che gli e-sportivi siano atleti, quindi per me sarebbe solo la conseguenza naturale del percorso dell’eSport. Non penso però sia necessario: se accadrà, bene, ma ci vuole del tempo.
Perché Snapdragon ha deciso, oggi, di investire su un progetto simile?
Patrick Perkins: come dico sempre ai miei colleghi, non esiste modo migliore di mostrare la tecnologia che col gaming. Ci sono opzioni, potenza di calcolo, grafica, memoria, tutto quello che serve per dimostrare a un pubblico interessanto le qualità del tuo prodotto. Per un esportivo la tecnologia è un po’ come le scarpe da corso per il corridore: milgiore è l’equipaggiamento, migliore sarà la tua performance. Snapadragon punta a offrire il meglio possibile a questi atleti, e al contempo mostrare cosa i nostri hardware sono capaci di fare.
Seguo alcuni esport, e noto che molti stanno cercando di riprodurre lo sport non solo nei tecnicismi, nei broadcast e negli investimenti, ma anche in quell’elemento identitario e culturale che oggi attività come il calcio o il basket rappresentano per milioni di persone. Questo è ulteriormente vero per l’Europa, dove in alcuni paesi la squadra calcistica della propria zona è a tutti gli effetti simbolo della propria cultura (si pensi alle squadre basche o catalane). È un risultato realmente raggiungibile?
Kevin Rosenblatt: sono totalmente d’accordo con te, queste sono cose che non si possono costruire in un pomeriggio e che richiedono anni e anni. Il nostro obiettivo successivo è quello di scatenare questo genere di sentimento, riuscire a far connettere chi segue l’eSport con qualcosa che lo fa sentire come tu hai descritto. Il caso dei mondiali ce lo conferma: anche se non segui l’eSport di riferimento, quando c’è il team o il giocatore della tua nazione segui le cose in modo diverso.
Grazie mille per le risposte!
Kevin e Patrick: grazie a te per le domande!
Sono necessarie alcune precisazioni per comprendere il contesto di quest’intervista. In primis c’è da dire che la barriera d’ingresso dell’hardware su mobile è in effetti molto più bassa di quella delle console o del pc, ma bisogna anche sottolineare che a livelli elevati le differenze di costo delle piattaforme aumentano vertiginosamente. Se quindi ai livelli più bassi (in termini di performance tecnica) della competizione possiamo trovarci di fronte a un’effettiva parità delle barriere d’ingresso, a livelli più alti chi ha un potere d’acquisto di molto maggiore (tablet e cellulari di ultimissima generazione superano il migliaio di euro) avrà un vantaggio competitivo altrettanto ampio. Come dice Patrick Perkins: “migliore la tecnologia, migliore la performance”.
Inoltre, bisogna sempre chiedersi se questa “libertà di accesso” sia effettivamente relativa alla comprensione capillare del gioco, o se in qualche modo quest’ultimo non venga ridimensionato e impoverito pur di estenderne il consumo a più soggetti possibili: è davvero un processo inclusivo, o è più che altro un’integrazione all’interno di un brand? In tal senso, la riflessione sul “saltare l’intermediario” sembra rilevante: nello sport la condivisione dell’esperienza di chi allena, di chi studia e di analizza è fondamentale, perché tramite di essa si accorcia il tempo necessario per comprendere a fondo lo sport che si sta praticando. Davvero è più semplice “provare direttamente”, in un’ottica competitiva? Solo il tempo ce lo dirà. Lo scambio avuto con Patrick e Kevin rimane molto interessante, perché offre uno squarcio su una realtà complessa e in divenire.
Intervista a cura di Claudio Cugliandro.