Durante questa edizione di Etna Comics, in quel di Catania, noi di Stay Nerd abbiamo avuto il grande piacere di sederci a fare quattro chiacchiere con Marco D’Amore, noto ai più come il Ciro Di Marzio di Gomorra – La serie. Spaziando dalle sue origini professionali fino a discussioni riguardanti l’attuale situazione del grande e piccolo schermo italiano, l’attore ha risposto con estrema professionalità a tutte le nostre domande.
Marco D’Amore: nipote d’arte, di Ciro Capezzone. Questo ha influenzato la tua scelta di diventare attore? Se sì, in che modo?
Devo dire che ad influenzare la mia scelta, qualora in certe scelte possano esserci delle influenze, è stato un po’ tutto il clima che c’era in casa, perché mio nonno – pur essendo un semplice impiegato – ha raccolto delle esperienze professionali molto importanti, ha lavorato con Nanni Loy, con Francesco Rosi, ha fatto compagnia con Nino Taranto, è stato speaker alla RAI dove ha fatto anche tanti sceneggiati, ma anche mio padre e mia madre hanno sempre avuto una grande passione per il cinema, la musica e il teatro, quindi ho avuto la fortuna di crescere in un ambiente fertile. Io però dico sempre che i miei genitori non mi hanno mai spinto in questa direzione, ma anzi mi hanno ostacolato, di modo che la mia scelta qualora fosse avvenuta sarebbe stata autentica, e io di questo li ringrazio ancora. Soprattutto guardando un po’ all’attualità e quanto invece oggi si spingano i ragazzi a fare i cantanti, i ballerini e gli attori, in un paese in cui si sentono tutti artisti, mentre a noi servono geometri, dirigenti, medici. Per fare questo mestiere bisogna essere in pochi.
Riguardo all’attualità, cosa ne pensi del fatto che recentemente le serie italiane, almeno quelle che ottengono più successo, abbiano tutte un’ambientazione criminale o comunque riguardino quel tipo di vita? Ci può essere un nesso, anche semplicemente di marketing oppure sociologico? Come si interfaccia con la realtà tutto ciò?
Secondo me c’è da sempre un desiderio, magari anche un po’ contorto, dell’umanità di interessarsi a fatti che hanno molto più a che fare con una sfera nera dell’animo umano. Spesso si sminuisce la questione e si parla di criminalità, ma a mio modesto avviso Gomorra è un affresco incredibile su quanto la natura umana possa spingersi negli abissi della malvagità.
Per esprimere meglio il mio pensiero voglio fare un esempio: io sono un grande amante del fantasy, non a caso sono qui oggi, molto più per osservare che per raccontare. Una delle serie più famose al mondo è Il Trono di Spade, che è una sequenza continua di violenza e sesso brutale, tutto questo inserito in un contesto di fantasy. Magari tu alla presentazione di un trailer immagini che quello possa essere un racconto per bambini, e invece è tutt’altro. Questo perché l’interessante della vita è quell’aspetto lì, per quanto ce lo vogliamo nascondere. Raccontare un fatto senza mettere al centro il conflitto diventa poco interessante.
Secondo me, spostando un po’ l’argomento, è il problema della commedia. La commedia è il grado zero della tragedia. Quando ridi di una persona che scivola su una buccia di banana, tu ridi di una persona che si è fatta male. Se togli alla commedia il cinismo, che l’ha fatta da padrone per trent’anni nel nostro paese, raccontando agli altri come si faceva la commedia, e la riempi invece di flatulenze e di battute misere, il tutto si svilisce. Nella commedia ci vuole il racconto di una fetta modesta dell’umanità, che ad un certo punto ti fa ridere e dire “quello non sono io”, ma poi alla fine del film ti ricredi.
In questo momento produzioni di serie TV e cinema si stanno avvicinando, non soltanto per qualità ma anche per budget, strutturazione, pianificazione, storytelling, ecc. Come pensi che questo stia cambiando il panorama delle serie televisive italiane? Perché questo è un processo che internazionalmente è già avvenuto e che sta avvenendo invece solo ora nel nostro paese.
Cambia innanzitutto perché cambia la fruizione. I dati sono eloquenti: la sala sta morendo, e lo dico anche con grande tristezza, essendo un cinefilo. I ragazzi oggi guardano tutto su PC, tablet e TV, e dunque il racconto si sposta su altri canali. Secondo me la grande intuizione della serie ha molto a che fare col romanzo. Prima l’unico modo per raccontare e per raccontarsi la vita era leggere un libro che durava anche 400 o 500 pagine, e nello sviluppo di questo racconto c’erano personaggi di cui magari seguivi la vita per 10 anni ed una marea infinita di ambientazioni, cosa che non è possibile nella sintesi di un film. Io mi auguro quello che ha raccontato Will Smith a Cannes, cioè che nasca una generazione che sappia scegliere e sappia capire che l’evento cinematografico è qualcosa di unico, perché ha a che fare con la biologia dei fenomeni; tu sei in una sala con delle persone che respirano con te, che all’unisono con te reagiscono a qualcosa. Mentre la televisione è un momento molto più privato che ti consente anche di staccarti dal racconto. Se sale la qualità secondo me si può amministrare con grande cura e con grande rispetto del pubblico tanto la sala, quanto il momento del racconto privato, e mi auguro che in questo Gomorra influenzi il futuro del cinema e della TV italiana, fungendo da spartiacque. Secondo me ci può essere un prima e un dopo Gomorra. Un prima in cui le produzioni pensavano solo a pagare il nome di grido e a fregarsene del prodotto, senza tenere conto dell’intelligenza del pubblico, e un poi grazie a Gomorra, che invece ha detto: i nomi non li vogliamo, noi vogliamo attori bravi, li vogliamo mettere al servizio di un racconto importante e anche sfidare in intelligenza il gusto del pubblico. Così è stato e mi sembra che il risultato sia abbastanza eloquente, quindi significa che è una formula buona.