In quel di Etna Comics 2018, Stay Nerd ha avuto il grandissimo onore di fare quattro chiacchiere con J.M. DeMatteis, giornalista e scrittore multimediale, ma soprattutto di fumetti, di fama mondiale, autore di alcune run celeberrime come le ragnesche “Ultima caccia di Kraven” e “Il bambino dentro”. Volete sapere com’è andata? Bene, allora seguiteci nel resoconto della nostra intervista!
Hai iniziato come critico musicale, prima che cambiasse tutto con l’uscita di “Go to Heaven”, dei Grateful Dead.
Già, prim’ancora di essere un critico musicale ero un musicista: ho suonato in delle band per anni, scrivevo canzoni, cantavo, quindi il giornalismo musicale è stato un’evoluzione naturale. Sai com’è, quando tra amici ci si siede e ci si scambia le opinioni? Io adoro esprimere la mia, se un film non mi piace ti dirò in cento modi diversi perché non mi piace! Ma se la tua opinione viene pubblicata in un pezzo, magari da una rivista con un grande audience come Rolling Stone, beh, è percepita diversamente. Se siamo due amici che discutono, è divertente, ma nessuna opinione viene presa davvero seriamente. Perciò, faccio questa recensione dell’album dei Grateful Dead, la scrivo in modo irriverente, critico e un po’ sarcastico, senza pensarci due volte. Ebbene, mi arriva questo pacco di lettere dei fan del gruppo che ne erano stati sconvolti, ma non arrabbiati, quasi tristi, come se avessi giudicato le loro madri. Allora ho capito di non voler essere una persona che influenza in questo modo le persone. Amo ancora la critica, soprattutto quando è intelligente e profonda, mi piace anche se riguarda le mie opere. Ma, da creativo, al giudicare il lavoro degli altri ho preferito che gli altri giudicassero il mio. E da allora non credo di aver scritto una sola altra recensione!
Dopo la nostra recensione del film Batman V Superman, molto aspra e severa, sono piovute persino minacce di morte! È inquietante a volte come si supera il confine tra il giornalismo e la vita delle persone.
Già, e ti dirò, ora è cambiato tutto, con l’arrivo di internet. Se la mia recensione dei Grateful Dead fosse uscita ora, le persone mi avrebbero scritto sui social network, e sui social network si è notevolmente meno cordiali che scrivendo una lettera. Su internet non si pensa, prima di postare, lo si fa con la prima cosa che ti viene in mente. Non si percepisce la persona dall’altra parte dello schermo.
Nel 1984 hai scritto un ciclo di Namor, con Budiansky, con il Sub-Mariner ridotto a vagabondo sulla Terra. Hai detto di essere fiero della storia, ma allo stesso tempo ne eri molto critico. Sei sempre molto critico sul tuo lavoro, o si è trattata di una parentesi isolata?
Quando scrivi una storia, non si tratta di essere critici o meno, perché sei coinvolto nella trama e con i personaggi. Semmai pensi a come una frase o un evento possano funzionare ai fini del racconto. Poi, dopo qualche tempo, cominci a recuperare un po’ di oggettività, capisci meglio cosa funzionasse e cosa no. In generale, però, cerco di non esprimere troppo, pubblicamente, queste autocritiche. Certe volte capita che pensi di aver totalmente sbagliato una storia, rileggendola anni dopo, e poi arriva un lettore che mi dice che quella è la sua storia preferita. E non mi piacerebbe cercare di convincerlo che la sua storia preferita, cui è affezionato, è spazzatura! Perciò, immagino di aver espresso qualche dubbio su quella run di Sub-Mariner, e diciamo che non ero convinto dell’andamento generale della storia, ma mi piaceva molto l’elemento, mai esplorato, di rendere Namor, forse la persona più arrogante del Pianeta Terra, un senzatetto. Che poi è quel che cerco un po’ in tutti i personaggi, un aspetto sempre poco approfondito: cosa succede se la tua posizione privilegiata ti viene portata via e sei costretto a vagabondare senza più nulla? È la cosa che mi ha più interessato, aldilà dei dubbi sulla trama, ma devo dire anche che lavorare con Bob Budiansky è stato, come sempre, un piacere e un onore.
Hai firmato la celeberrima Ultima Caccia di Kraven, su Spider-Man, ma anche la serie Justice League International, con Keith Giffen, che ti è valsa un Eisner Award come “Best Humor Publication”. Che tipo di persona e scrittore sei, dato che spazi da toni tanto dark a brillanti e umoristici con apparente nonchalance?
Riguardando alla mia carriera, ho sempre cercato di fare molte cose diverse: storie di supereroi, con drammi psicologici; lavori personali, che affrontano la spiritualità; opere autobiografiche, come Brooklyn Dreams; la commedia con Keith Giffen. Ho fatto tante cose diverse ed è ciò che mi tiene motivato. Se avessi scritto solo di supereroi, per quanto li ami, sarei saltato giù da una finestra. Si sarebbe trattato di ripetermi, e io odio la ripetizione. Mi piace trovare sempre nuove sfide e affrontarle. E questo è un modo di rispondere. L’altro è che, tutti noi, non siamo solo una cosa O l’altra, si può essere molto seri e molto divertenti, entrambe le cose. A volte, il culmine della tragedia è il momento in cui si scherza di più, è la vita. I personaggi di Justice League International spesso sembrano molto più reali di tanti altri, perché scherzano come farebbe un gruppo di amici al bar il sabato sera. Perciò, ogni storia che ho scritto esplora un aspetto diverso della mia psiche, ma sono sempre io. Anzi, probabilmente, troveresti temi ricorrenti nei miei lavori, ma espressi ogni volta in maniera diversa.
Questo è il motivo per cui hai scelto personaggi a dir poco marginali e “perdenti”, come G’nort?
È ciò che ha reso la serie così appassionante. Quelli come lui erano personaggi di cui importava poco a tutti, perciò eravamo liberi di farne ciò che volevamo. Se avessimo avuto Flash, Wonder Woman e Superman nel team, non avremmo potuto fare la metà delle cose che abbiamo fatto con Justice League International!
Ma dal vostro lavoro è cambiato lo status di quei personaggi: Blue Beetle, ad esempio, è ora il personaggio preferito di molti, inserito nei cartoon, nei videogame. Devi esserne orgoglioso!
Decisamente! Ho amato lavorarci con Keith Giffen, anzi, lavoriamo ancora insieme spessissimo e piace da morire a entrambi. Lui si occupa della trama, poi me la consegna e il mio compito è quello di far parlare tra loro i personaggi. È una delle collaborazioni più interessanti che abbia mai provato. Aggiungo strati e livelli di psicologia e humour alle sue storie, che sono sempre solidissime. E la cosa più bella è che non abbiamo problemi di ego. Posso prendere la sua trama e piegarla, sorprenderlo, e lui lo adora. Altri protesterebbero, ma lui no, anche perché così può fare lo stesso con quello che io gli restituisco, sorprendermi a sua volta. Ci passiamo la palla a vicenda, avanti e indietro, e ogni volta non sappiamo cosa succederà. Metà delle volte, con Justice League International, non avevo idea di quel che sarebbe successo negli episodi successivi fino all’ultimo momento. È la cosa divertente del nostro lavoro insieme, è un gioco, siamo come due bambini che giocano nella sabbia.