Durante Etna Comics 2018 abbiamo avuto il grande piacere di scambiare quattro chiacchiere con Andrea Accardi, fumettista italiano che sbocciò professionalmente parecchi anni in Granata Press, dando vita ad una grande carriera che l’ha portato a lavorare, tra le varie, per Bonelli.
Ecco come è andata l’intervista.
Partiamo dagli inizi della tua carriera. Quanto è stata formativa l’esperienza in Granata Press e i primi passi che hai mosso nel mondo del fumetto?
Quell’esperienza è stata fondamentale, perché io sono nato a Palermo e in quell’epoca non c’erano scuole. L’unico modo per imparare a disegnare era frequentare un istituto d’arte, ma purtroppo i consigli dei miei genitori mi hanno portato a fare il classico. Mi sono trasferito a Bologna, perché sapevo c’era una new wave di disegnatori, c’era questo gruppo Valvoline che orbitava da quelle parti e quando sono arrivato mi sono iscritto subito all’Accademia. Ora in Accademia c’è il corso di fumetto e ci sono insegnati affermati, ma a quell’epoca non c’era granché e così ho fatto un normale corso di decorazione, tuttavia lì ho avuto la fortuna di conoscere dei ragazzi che lavoravano con il lettering e che sarebbero poi diventati i famosi Kappa Boys, ovvero Barbara Rossi e Andrea Baricorti. Loro mi hanno presentato a loro volta Luigi Bernardi e Roberto Ghiddi, che lavoravano in Granata e stavano cercando dei ragazzi che facessero lettering.
Il primo che ho fatto è stato assurdo, perché realizzarlo come si faceva all’epoca era snervante e complicato. Si lavorava su delle pellicole dove c’era stampato il fumetto che serviva per la stampa, e su quella pellicola lavoravamo con dei rapidi, ma ogni volta che sbagliavi dovevi cancellare e rifare tutto oppure grattare via con la lametta. Insomma, il primo fu un disastro e quasi volevano licenziarmi. Ma Roberto Ghiddi, che era l’art director, ha voluto che restassi e io ho continuato a lavorare come suo aiutante. Facevo lettering e lavori di grafica manuale, e devo dire che questa esperienza mi ha formato sia da un punto di vista lavorativo che personale, perché questo lavoro meticoloso mi ha costretto a pensare a quanto dovevo stare sul tavolo da disegno. È stata un’ottima scuola.
Proprio perchè adesso c’è più attenzione alle scuole del fumetto, ti piacerebbe essere dall’altra parte?
In realtà ho lavorato come insegnante alla Scuola di Reggio Emilia qualche anno fa. È stata un’ottima esperienza, ma mi sono reso conto che il gap generazionale tra me e i ragazzi che si iscrivono è una cosa che comincio a sentire davvero tanto. Le opere che leggo e che mi piacciono sono completamente diverse da quelle che leggono loro. Ovviamente non è un male questo, anzi.
Però leggi The Walking Dead, Saga, fumetti molto “moderni”.
Sì è vero, però spesso mi sono reso conto che leggevano cose di cui io non ero nemmeno a conoscenza. Questo mi ha creato un po’ di panico, così mi sono voluto prendere una pausa. Il lavoro dell’insegnate è bellissimo ma devi esserci portato. Io sono un insegnante troppo buono e non so se sia un bene per i ragazzi.
Parliamo del Giappone, verso cui hai una sorta di fascinazione. Hai lavorato sia a Lupin che con Recchioni a Chanbara.
Ciò nasce dal fatto che io ho subito l’invasione dei giapponesi degli anni ’80, e quindi tutto il mio immaginario deriva da quello stile. Se per alcuni anni il mio stile manga si vedeva proprio nei disegni, con le storie di Recchioni l’interesse si è spostato verso quella parte del Giappone che avevo esplorato poco o nulla, ovvero quella della tradizione storica e ciò per me è stata una vera scoperta. Infatti non credo sia un caso il fatto che nel frattempo il mio stile mutava. Non l’ho fatto volutamente, è venuto fuori così.
Come è stato il lavoro di documentazione?
È stato, ed è, la parte più interessante ma quella prende più tempo. Sono partito dalle cose più banali, quindi le stampe giapponesi dei più famosi incisori e disegnatori e attraverso quelle ho cominciato a cercare dei disegnatori più moderni, anche se non troppo, ovvero quelli che hanno lavorato a cavallo tra l’800 e il 900, pertanto con uno stile simile al nostro art nouveu. Qui ho scoperto un mondo. È un lavoro di ricerca continua, sia dal punto di vista delle illustrazioni e disegni ma anche da quello cinematografico, che mi ha aiutato davvero tanto. Anche lì sono partito da quelli che conoscono tutti, come Kurosawa e pian piano ho allargato il bacino di interesse con registi che in Italia non sono molto noti.
E Kitano?
Sì, in quel periodo era uscito Zatoichi, e ovviamente ho usato molto di quelle immagini per costruire il primo episodio di Chanbara. Ma grazie a Kitano ho scoperto che il personaggio di Zatoichi è davvero antico e ci hanno fatto tantissimi film. Me li sono recuperati tutti, o quantomeno tutti quelli che potevo, scoprendo attori incredibili del cinema giapponese che qui non sono conosciuti, come Shintaro Katsu, per dirne uno.
Sei andato a guardare anche le ibridazioni americane, come il Ronin di Miller o Samurai Jack?
Le conosco perché le ho seguite per un determinato periodo di tempo, ma sono andato a cercare solo cose che potevano darmi informazioni esatte. Che poi non è del tutto vero perché anche i giapponesi si prendono delle libertà, ma se lo fanno loro per me va bene (ride n.d.R.).
Ho guardato anche tantissimi fumetti molto più vecchi di Vagabond, tra cui tutta la saga di Kamui di Sampei Shirato o i lavori di Takao Saitō. Ogni cosa mi rimandava ad un altra ed è stato un lavoro bellissimo, ma davvero molto lungo.
Hai lavorato anche con Recchioni su John Doe…
Sì, è stato il mio primo rapporto con Roberto.
Noi abbiamo un rapporto molto particolare con John Doe, perché siamo grandi amici di De Cubellis e sponsorizziamo un premio alla memoria di Lorenzo Bartoli all’ARF. Colgo l’occasione per chiederti anche un ricordo su Lorenzo, visto che l’ARF si è concluso da poco.
Il mio rammarico è che durante il lavoro su John Doe ho sempre lavorato solo con Roberto, quindi con Lorenzo non ho avuto rapporti professionali. Però l’ho conosciuto e l’ho sempre visto come una figura mitica, e mi è dispiaciuto davvero tanto quando è scomparso, perché era una persona proprio buona.
Hai esplorato stili e generi molto diversi. Quale periodo storico ti piacerebbe affrontare, ora o nel prossimo futuro?
Mi piacerebbe affrontare il periodo storico delle Guerre Puniche. In realtà mi sto già documentando a riguardo.
Come è stato il lavoro su Lupin?
Un sogno che si è avverato. All’inizio quasi non ci credevo! Anche lì però purtroppo non ho lavorato con Monkey Punch, perché i rapporti erano sempre tra me, Andrea Baricorti e Massimiliano De Giovanni. Comunque è stato fantastico. Per me Lupin ha costituito un vero e proprio salto generazionale dalle serie animate per bambini a quelle un po’ più per adulti.
Ti piacerebbe lavorarci ancora?
Assolutamente sì. Non so se riuscirei ad avere la stessa spontaneità nel disegno, perché quando l’ho fatta ero proprio in uno stato di grazia. Mi sembrava tutto facile.
Devo farti una domanda un po’ banalotta, ma è una questione affettiva: qual è il tuo personaggio preferito della serie di Lupin? O quello che ti piace di più disegnare.
Ti dovrei dire Goemon, ma in realtà è Fujiko. Io credo che tutte le donne che disegno guardino sempre alle sinuosità, agli occhi e ai capelli di Fujiko. È il mio modello.
Visto che hai trattato Lupin e sei un figlio della nippofilia anni ’70 e ’80, a questo punto mi devo togliere lo sfizio: quale alta grandissima icona vorresti disegnare?
Beh, senz’altro qualcosa di Go Nagai, magari Devilman.
Hai visto Cry Baby?
Certo. L’ho trovata davvero bella! Molto più bella dell’ultimo film della trilogia.
Forse Devilman ha bisogno di un segno così sporco e graffiato.
Sì, e anche di essere un po’ più grottesco e sopra le righe, e quell’anime lì ci è riuscito. Ma sono riusciti anche a toccare delle corde emozionali a livello profondo, intimo. Quella di Devilman è una storia ancestrale della lotta tra il bene e il male, e questa serie è stata incredibile in tal senso.
È vero. Poi i movimenti velocissimi e i colori così mescolati, che l’immagine è quasi intellegibile però tu capisci cosa sta succedendo.
È verissimo. Poi i mostri, soprattutto quelli di contorno, erano davvero assurdi, quasi macchiettistici eppure riuscivano a comunicare la diversità di questi esseri.
A me piacerebbe davvero vederti disegnare dei robottoni.
Magari. Sarebbe bello disegnare Goldrake e Mazinga.
Io non li ho mai amati particolarmente. Il mio preferito era Jeeg, e poi Daitarn 3.
Daitarn 3 forse è stato uno dei pochi robottoni quadrati che mi piacciono, insieme a Danguarnd Ace. I robot di Go Nagai sono rotondi, poi arrivano quelli poligonali e Daitarn invece è uno dei pochi che mi fa impazzire.
Daitarn è un po’ un punto di arrivo e di inizio per il nuovo sviluppo dell’animazione robotica. Non solo perde quelle caratteristiche di seriosità che avevano le storie di Jeeg o Mazinga, ma soprattutto si tratta di un robot espressivo.
Sì, muove la labbra. Hai ragione, è una cosa fantastica.
Ma anche i personaggi di contorno, come Haran Banjo, sono bellissimi.
Con quei capelli… Questa cosa dei capelli di quei personaggi lì mi faceva impazzire. In quel periodo io cominciavo a crescere ed a guardare un po’ la new wave, la moda, i punk. Quei capelli erano tirati su, come fossero delle creste. Ci trovavo sempre dei punti di contemporaneità.