Ad Etna Comics 2019 era presente anche Gualtiero Cannarsi, il dialoghista di praticamente tutti i film Studio Ghibli e del primo adattamento di Evangelion. In questi anni, Cannarsi ha ricevuto spesso critiche riguardo il suo modus operandi, perciò abbiamo chiesto di esprimere il suo punto di vista a riguardo in questa intervista, che potrete trovare a breve anche in podcast su Spreaker (dove trovate già altre interviste, come quella fatta a Yuriko Tiger)!
Cominciamo con “l’elefante nella stanza” e cioè l’adattamento di Evangelion e di quel che è stato detto in questi mesi. Parlaci del lavoro svolto anni fa sul primo doppiaggio di Evangelion e di quello in arrivo su Netflix.
Penso che di recente sia stata diffusa, su questo argomento, una lettera della Dynamic Italia in merito a questo genere di responsabilità creative. Mi hanno anche fatto una lunga intervista ma essenzialmente quando facemmo Evangelion, cominciai ad occuparmene ancora prima che si iniziasse a doppiarla: questo prodotto venne acquisito perché a me piaceva davvero molto Nadia e il mistero della pietra azzurra e avevo stressato così tanto l’anima al direttore che decisero di prendere anche Evangelion. Io riscrissi i primissimi copioni perché si basavano su traduzioni molto lacunose e volevamo che fossero il più fedeli possibile all’originale. Ero molto giovane, circa 20 anni, e seguii in sala doppiaggio ogni momento di incisione. In particolare, si ottenne un risultato che non mi lasciò soddisfatto e, data appunto la mia giovane età, non sapevo spiegare il perché.
Passai tutta l’estate successiva a elaborare cosa fosse sbagliato e perché, scrissi una relazione piuttosto lunga e quando la consegnai mi dissero:”Ok, facciamo come dici tu”. A due personaggi vennero riscritti tutti i dialoghi e cambiate le voci, molte parti vennero rifatte secondo le mie indicazioni (e ancora ricordo a memoria tutto ciò che chiesi) e infine mi diedero ragione. Da allora, il modo di lavorare dell’azienda cambiò, mostrarono interesse nel voler mandare me o qualcun altro in sala doppiaggio per seguire e rendere l’adattamento il più fedele possibile. Noi volevamo fare ciò che ritenevamo più giusto, perché il doppiaggio italiano non faceva questo tipo di lavoro: il doppiaggio italiano reinventa le cose e noi volevamo semmai reinterpretare rimanendo in linea con l’originale.
Il lavoro che svolsi all’epoca, come ho già detto, è rozzo e un po’ stentato, frutto di un’inesperienza della quale mi rendo conto e che quindi mi porta solo a sperare di poterlo correggere, come è giusto che sia quando si crede di aver commesso un errore. Non perché me ne vergogni, semplicemente è un mio giudizio sul mio precedente lavoro.
L’ipotesi che potessi rioccuparti di Evangelion per questa uscita su Netflix, infatti, ha sollevato numerose polemiche, in particolare sui social. Tu come ti senti riguardo queste “insurrezioni” nate sui social network?
Non penso che mi riguardino. Sono un essere umano, mentre il web cos’è? Per me non è carne né sangue, quindi non riesco a pensare che possa contare più delle persone reali. Non ho nessuna considerazione del web e dei social, perché talvolta ho la sensazione che questo mondo sia una cosa che, per meccanismo psicologico, tira fuori il peggio delle persone. E io sono interessato al meglio, quindi prendo questo genere di cose con molto distacco.
Infatti, il motivo che ci ha spinto a farti quest’intervista è, rispetto alle critiche che ti vengono mosse, un discorso sull’adattamento, che è una delle cose che viene ignorata di più. Una di queste critiche afferma che i tuoi dialoghi sono molto letterali, che ogni tanto sembrano anacronistici (cosa che, tuttavia, può dipendere anche dalla loro ambientazione). Volevamo comprendere in questo senso il tuo punto di vista.
Il discorso è abbastanza articolato. Il fatto che traduzione e adattamento siano stati divisi è un’anomalia del mondo del doppiaggio e degli audiovisivi. Nel caso di un fumetto o un libro, di norma non c’è questa divisione. Quando si tratta di doppiare, però, il testo che viene fatto recitare consta anche di una componente tecnica che non fa parte delle competenze di chi traduceva. Queste due metà di un processo unico si sono quindi separate. L’inglese è sempre più diffuso e quindi questi due aspetti si sono di nuovo riavvicinati, ma nel caso di lingue come giapponese, cinese o coreano non è accaduto. Io mastico del giapponese ma non è sufficiente per tradurre da zero, infatti mi avvalgo sempre del supporto di vari traduttori molto capaci, con i quali posso dialogare e indagare nel profondo i loro lavori. Per quanto riguarda le scelte di registro linguistico e di resa nell’adattamento italiano di opere di matrice giapponese, il concetto fondamentale è quello di priorità ontologica: quando fai traduzioni o adattamenti, cos’è la cosa più importante?
Ci sono varie modalità ma io risponderei innanzitutto che il contenuto debba essere lo stesso dell’originale. In secondo luogo, la versione tradotta e adattata deve rispettare lo stile, il ritmo, la drammaticità delle caratterizzazioni e così via. L’ultima cosa di cui mi interesso in assoluto è il lip sync, quello è l’ultimo dei miei pensieri. Tutto ciò per me è importante perché, secondo me, prima di occuparti di come viene detta una cosa, devi interessarti di cosa viene detto. Dire una cosa bene ma sbagliata non è una vittoria. Perciò è semplicemente un discorso di gerarchia.
Vorrei portare un paio di esempi a riguardo, per farvi capire quanto alcune istanze su questo argomento siano quantomeno presuntuose.
Una di queste è il fatto che, secondo il pubblico italiano, “essendo film d’animazione, i film di Hayao Miyazaki sono facili da capire, anche per i bambini”. Questo non è assolutamente vero. Nei suoi film, ci sono parole che pure i giapponesi non capiscono e vanno a cercare online su Yahoo Answer (mezzo ancora molto utilizzato in Giappone per chiedere cose, quasi fosse la nostra Wikipedia, ndr).
Ne La città incantata (ci avete fatto caso che non c’è nessuna città in quel film?), c’è una scena in cui Chihiro, la protagonista, pesta una specie di vermicello uscito da Haku nella sua forma di drago. Naturalmente è viscido e fa schifo, allora Kamaji le dice:”Engacho! Engacho!”. Questa è un’espressione che richiama una sorta di gesto scaramantico che facevano i bambini giapponesi negli anni ‘60: quando toccavano qualcosa di sporco, per allontanare a “sfortuna”, univano le dita delle mani e un altro di loro “spaccava” il legame delle dita e, simbolicamente, con la sporcizia e l’impurità. Nel Making of del film, si vede Miyazaki che spiega questa cosa alla doppiatrice di Chihiro (la cui età era come quella della protagonista, 10 anni) che non capiva assolutamente da dove venisse fuori. Nonostante anche il direttore del doppiaggio fece notare che nessuna bambina dei giorni nostri otrebbe capire tale riferimento, a Miyazaki non importò niente e non la cambiò.
Anche in Mononoke Hime avviene una cosa simile: Ashitaka deve abbandonare il proprio villaggio ma non può essere salutato da nessuno. Kaya però viola questa legge e lo chiama Ani-sama. La parola ani in giapponese, da sola, è un modo molto rispettoso per chiamare qualcuno “fratello”. Se a questa viene aggiunto il suffisso –sama, il risultato è ancora più altisonante (io l’ho reso come “sommo fratello”). Pure in questo caso, nel Making of, Miyazaki interviene a spiegare come stanno le cose ai doppiatori giapponesi confusi: Ashitaka e Kaya non sono fratello e sorella ma promessi sposi; in quel villaggio, però, tutti si chiamano con appellativi come zio, nonna, ecc. Il doppiatore di Ashitaka comprende e annuisce, mentre la doppiatrice di Kaya è ancora più confusa e stranita. E anche in questo caso, a Miyazaki non interessa essere comprensibile a tutti.
O ancora: il commento di Nausicaa della Valle del Vento è stato fatto da Hideaki Anno e Nakayama, il vice-regista del film. Anche loro due scambiano due battute su come Miyazaki utilizzi un linguaggio particolare, arrivando alla conclusione che questo è un dettaglio che dà un sapore particolare alle sue opere.
Quello che voglio dire, quindi, è che quei giudizi si fondano su delle presunzioni che non hanno fondamento, visti gli esempi che vi ho dato. Inoltre, subentra il concetto di quarta parete: nella loro realtà narrativa, i personaggi non parlano italiano. In Mononoke Hime, indicativamente, parlano il giapponese dell’epoca Muromachi (1335-1573), il che vuol dire che anche l’italiano che sentiamo è un “finto” italiano che traduce un’altra lingua. Per un gioco fittizio, i personaggi non diventano italiani che parlano l’italiano, rimangono giapponesi che si esprimono in italiano. Non deve sembrare realistico, perché non lo è, dato che lo scopo è mettere la lingua al servizio della traduzione e dell’adattamento affinché questo riesca a veicolare quanto più possibile del contenuto originale. Quindi io personalmente userò tutti gli strumenti che ho per cercare di fare ciò, con sfumature, lessico, esperienza del traduttore usati per ottenere la resa migliore.