Everything Everywhere All at Once, il film fenomeno distribuito dalla A24 è un’opera trascinante
onosciamo tutti questa celebre frase di Alfred Hitchcock: il cinema è la vita senza le parti noiose. Forse per questo è così difficile imbattersi in film incentrati sulla quotidianità di un panettiere, di un elettricista, di un impiegato delle poste o di un carrozziere. Certe vite, la maggior parte, sono semplicemente così come appaiono: noiose. Sono fatte di ruotine monotone, di gesti che si ripetono uno dopo l’altro nello stesso identico modo.
Talvolta c’è uno scossone, un imprevisto che sconvolge l’ordine costituito di questi giorni tutti uguali, ma spesso è una bolletta non pagata perché mai arrivata nella cassetta delle lettere, oppure un taglio sulla mano mentre si affetta una carota da bollire e servire come contorno per cena. La vita sa essere terribilmente banale e il cinema per muoversi ha bisogno di conflitti forti. Al cinema, e a chi guarda il cinema, certe vite interessano sempre meno o non interessano affatto. Non è che di per sé non hanno valore, ma ne assumono di meno nel grande ordine degli eventi, si muovono ai margini di un centro che può essere quello del quartiere come quello dell’universo. Poco cambia.
Sono vite di periferia, un po’ come lo è quella di Evelyn Wang (Michelle Yeoh): gestisce una lavanderia automatica e affoga tra montagne di fatture che raccontano le tante occasioni perse lungo il percorso, non sopporta la placidezza di suo marito Waymond (l’ex bimbo prodigio Ke Huy Quan) e non sa proprio in che verso prendere la figlia Joy (Stephanie Hsu). Non è per niente la vita che si era immaginata quando ha lasciato la Cina diversi decenni prima direzione Stati Uniti, non ascoltando il monito di un padre (James Hong) che tra l’altro ora è piombato in casa.
E se il cinema a queste vite deve proprio accostarsi, di solito o sceglie il dramma o sceglie la commedia. Ogni tanto, però, anche in questi tempi in cui è messo spesso in discussione, il cinema sa imboccare vie inaspettate. E questo è il caso di Everything Everywhere All at Once, un’opera magniloquente, densa, irrefrenabile che è grande tanto quanto il modo in cui lo stesso titolo cerca di racchiudere al suo interno le infinite vie dell’esistenza. Lo scrive e dirige un duo navigato tra il mondo dei videoclip e l’assurdo, Daniel Kwan e Daniel Scheinert in arte Daniels, che già avevano messo il sigillo a un film per certi versi inclassificabile come Swiss Army Man. A questo giro, con il patrocinio in produzione di un altro importante duo, i Russo Brothers, sciolgono ogni briglia rimasta e si lasciano andare a un film di una creatività sconfinata.
Ci sono tre capitoli, l’Everything, l’Everywhere e l’All at Once che scandiscono i rintocchi di una giornata cruciale per i destini dei tre membri (il trio protagonista si intende con un’alchimia invidiabile) di una famiglia esacerbata da quella monotonia che per chi la vive è densa eccome di conflitti, anche in apparenza insormontabili. Ogni singolo istante di certe giornate porta a domandarsi “e se…?” E se avessi preso un tè invece del caffè stamattina? E se avessi risposto a quella chiamata? E se avessi accettato quel lavoro? E se avessi cambiato Paese? Il concetto di multiverso è al centro della discussione dell’intrattenimento contemporaneo, e seguendo questa logica la nostra vita è il perfetto esempio di what if? per una versione di noi stessi in chissà quale universo parallelo.
I Daniels prendono questo postulato e lo traslano nella vita della versione più grigia di Evelyn, proprio quella di periferia a cui tutto è andato per il lato più storto. Da qui i due registi partono per instaurare una schizofrenica girandola di improbabili eventi che collassano sull’esistenza di una donna che si ritrova per essere scelta come la predestinata per salvare le varie dimensioni del cosmo minacciate dall’entità distruttrice del Jobu Tupaki.
Perché proprio lei? Perché non è brava in niente e quindi può essere brava in tutto, gli dicono le varie versioni dell’Alphaverse, l’universo un po’ spocchiosetto dei grandi eroi a cui ci hanno abituato i grandi blockbuster. Un mantello, quello del puro cinema d’intrattenimento, di cui Everything Everywhere All at Once pare vestirsi in superficie tramite la frenesia di un unico, lunghissimo scontro protratto per la quasi intera durata di un film dove si alternano improbabili villain come l’ispettrice delle entrate Deirdre (una formidabile Jamie Lee Curtis) e che si serve con ambizione di coreografie a suon di arti marziali (chi meglio della Yeoh?) e del digitale lì pronto a puntellare quando occorre.
Ma Everything Everywhere All at Once scava più a fondo, perché è in realtà la configurazione più compiuta dell’anti-blockbuster, ovvero di un’opera così visivamente ricca, così traboccante di trovate ludiche da renderle irripetibili a parole, di cui si serve però per raccontare in maniera energica dei desideri reconditi della mediocrità della vita, alla quale restituisce una dignità senza precedenti.
Il film dei Daniels, consapevole e cinefilo nell’utilizzo irresistibile che fa di forme ed estetiche che passano anche per due mondi distanti come quelli Ratatouille e Wong Kar-wai, colpisce e si fa instant cult perché sovverte la retorica del quotidiano restituendogli un decoro raccontato così come oggi siamo abituati a veder raccontate le grandi storie, parlando con invidiabile lucidità del senso di esistenzialismo e di quell’invitante buco nero che è il nichilismo.
Ed è così netto, così trascinante il modo in cui ricaccia indietro tutte le più negative tentazioni senza cedere mai alla commiserazione da rendersi in qualche maniera anche un feel good movie capace di somministrare prima il malessere e poi l’antidoto, che magari ha proprio l’aspetto del ritorno in famiglia che dice molto ed è caratteristico anche della peculiare, e a volte limbica, condizione asiatico-americana.
Everything Everywhere All at Once è una miscela esplosiva, un carico di tritolo fatto brillare in uno spettacolo pirotecnico di toni, senso e sensazioni, un genio variopinto e ispiratissimo messo con immenso amore al servizio di tutti gli abitanti di periferia di un multiverso che troppo spesso fa sentire soli e irrealizzati.