The Expanse è una serie rivoluzionaria, ma non è facile rendersene conto; colpa del maledetto politicamente corretto?
ono Angela Bernardoni e forse vi ricordate di me per articoli come Perché non state guardando The Expanse? e Avete bisogno di un altro buon motivo per guardare The Expanse? e sono qui oggi per completare la trilogia di articoli dedicati all’apologia della miglior serie di fantascienza degli ultimi anni.
Della travagliata storia di questa serie ne abbiamo già parlato: tratta dall’omonima serie di romanzi scritta da Ty Frank e Daniel Abraham sotto lo pseudonimo di James S.A. Corey, The Expanse fa il suo esordio nel 2015 su SyFy, canale via cavo statunitense che decide però di cancellarla dopo appena tre stagioni. Salvata in extremis dall’unico fan della serie abbastanza ricco da poter effettivamente intervenire – “Jeffrey, Jeffrey Bezos” – le avventure della Rocinante si spostano su Amazon Prime Video, dove la serie giunge a conclusione – con sei stagioni contro i nove romanzi che compongono la saga – quest’anno.
Per come la vedo io, nessuna storia finisce mai veramente: anche nei romanzi vittoriani in cui l’ultimo capitolo è dedicato a tirare le fila della vita di tutte le persone coinvolte nelle vicende – chi sposa chi, che fine fa quel personaggio comparso per mezzo capitolo e mai più nominato, quando come e perché muore il cattivo di turno, dove va a vivere la protagonista e quanti figli partorirà la cugina sposata con l’ufficiale – restano comunque delle storie non raccontate, dei punti di ombra in cui la narrazione non si avventura. È così per ogni storia, ed è così perché le storie sono una versione confezionata della vita – le storie danno una struttura visibile alla vita, ma nessuna vita potrà mai essere raccontata nella sua integralità, e le storie questo lo sanno bene.
Neanche le storie di The Expanse finiscono con la fine della serie, ma questo non è necessariamente un male (e non solo perché questo potrebbe farvi venire voglia di leggere i romanzi); l’universo in cui si muovono Holden, Naomi, Amos, Camina, Bobbie e tutte le altre personagge e personaggi che abbiamo incontrato in queste sei stagioni è complesso, reso pressoché infinito dall’anello multidimensionale che si apre nella terza stagione verso centinaia di nuovi mondi abitabili, ognuno con la sua potenziale storia da raccontare.
Una di queste storie – o almeno un assaggio di una storia che ha luogo mentre i governi della Terra e di Marte e i Belters si alleano contro la minaccia presentata da Marco Inaros – ci viene presentata nell’ultima stagione: si tratta della storia di una bambina che scopre il segreto della resurrezione e, ovviamente, è la storyline che segue quella protomolecola da cui tutto ha avuto inizio, approdata sul pianeta Laconia, incarnatasi in degli Strange Dogs. Le scene ambientate in questa nuova colonia umana sono poco più di un teaser di una serie che potremmo, chissà, vedere in futuro – se qualche altro multimiliardario volesse impiegare una piccola somma di denaro per trasporre gli ultimi tre romanzi della saga.
Se, dunque, la storia della protomolecola non ha una sua degna conclusione ma solo un nuovo inizio a cui assistiamo in parte, nel nostro sistema solare, da questa parte dell’anello, ogni cosa torna al suo posto – o meglio, trova un suo posto, dopo la sconfitta di Marco Inaros, villain delle ultime due stagioni, incarnazione della strumentalizzazione di battaglie giuste per fini egoistici. E non è un caso che a contrastare Inaros siano due famiglie per scelta (#foundfamily): la crew della Rocinante – nella formazione Holden, Naomi, Amos, Clarissa e Bobbie – e quella della Dewalt comandata da Camina Drummer.
E la sensibilità e la cura con cui viene presentata e approfondita la relazione poliamorosa che coinvolge l’equipaggio della Dewalt dimostra ancora una volta come The Expanse sia una narrazione che non si accontenta di sfruttare i trend del momento (sì, Foundation, sto parlando con te, con i tuoi superflui genderbending e quella muffosa idea di eroina forte e indipendente che sa tanto di girlbossing) ma che fa profondamente sua la visione di fantascienza espressa da Ursula Le Guin nella sua prefazione a La mano sinistra del buio, quando sostiene che la fantascienza non prevede; descrive.
The Expanse, nel raccontare una storia di personaggi complessi e indimenticabili, di guerre e vita e sopravvivenza e tribù e famiglie, descrive ciò che la nostra società sta vivendo come movimenti tellurici dell’opinione pubblica – nuove forme di relazione, diverse forme di autoaffermazione di genere, una maggiore attenzione a tutto ciò che contempla il prendersi cura delle altre e degli altri, del luogo in cui viviamo, delle persone che lo formano – senza il bisogno di fare grandi proclami, senza rivoluzioni, senza neanche far urlare i detrattori del maledetto politicamente corretto, probabilmente troppo impegnarsi a indignarsi per delle sciocchezze create a tavolino dal reparto marketing per percepire davvero quali sono le storie pericolose, quelle che minacciano lo status quo che tanto ci tengono a mantenere.
Da questo punto di vista, The Expanse è una serie estremamente pericolosa. Lo è nel suo mettere il concetto di pietās al servizio di una nuova visione di famiglia e di patria, lo è nel suo rifiuto di prendere le parti di una delle fazioni in gioco e di indicare con fermezza e certezza chi sia il nemico (l’unico vero nemico senza redenzione, Marco Inaros, lo è proprio a causa della totale assenza, in lui, di quei sentimenti che muovono tutti gli altri personaggi), lo fa esaltando la gentilezza, l’empatia, l’altruismo. Lo fa prendendo lo stereotipo testosteronico della space opera a cui ci hanno abituato gli scrittori e gli sceneggiatori del secolo scorso e trasformandolo in una storia di dolore, e speranza, dove i duri sono teneri, dove esiste il perdono, dove esiste l’umanità.
James Holden, che nelle prime stagioni sentiva di portare il peso dell’universo sulle spalle, in questo finale rinuncia a occupare un posto che sa di non occupare legittimamente: lasciando a Camina Drummer la presidenza della neonata Transport Union, Holden riconosce la validità delle istanze della Belt e, concetto fondamentale, passa il microfono – e il potere – nelle mani di chi ha il diritto di parlare, senza ergersi a eroe e difensore di quella che è a tutti gli effetti una minoranza davanti alla fisiologica alleanza tra Terra e Marte. Che questa possa rivelarsi, in futuro, una scelta più o meno corretta, non è importante: «l’universo non ci dice mai se abbiamo fatto bene o male. Ma è più importante provare ad aiutare le persone, che sapere che l’hai fatto. È più importante che la vita di qualcuno migliori di quanto lo sia per te sentirti bene per questo» nell’ultimo dialogo tra Naomi e Holden si racchiude il messaggio più importante che una serie come questa, in un periodo come questo, potesse trasmettere; «forse un momento di gentilezza ha dato loro conforto o coraggio: Forse hai detto l’unica cosa che avevano bisogno di sentirsi dire. Non importa se non lo saprai mai. Devi solo provare». Forse anche voi, dopo aver guardato The Expanse, vi sentirete pronti per provare a migliorare il mondo con la gentilezza. Se non è rivoluzionario questo, non so proprio cosa possa esserlo.