Piango io, piangi tu. Come i Bambini.
Avete presente quando, guardando una situazione di panico, un bambino comincia a piangere? Ecco, poiché non siamo scienziati, né tanto meno gente acculturata, diciamo che con questo semplice esempio vi abbiamo appena spiegato il concetto di “contagio emotivo”. Che roba è? Si tratta, fondamentalmente, di una reazione empatica, grazie al quale un’emozione vissuta indirettamente si imprime nella nostra testa scatenando una reazione simile. Che poi sia gioia, dolore, lacrime o una semplice risata, è un’altra storia. Ora, sino ad oggi si sapeva che il contagio emotivo è una dinamica fondamentalmente infantile, e non a caso vi abbiamo proposto l’esempio di cui sopra, ma come si potrebbe instaurare tale dinamica in un adulto?
Non sappiamo se la domanda sia stata proprio questa (e probabilmente no), fatto sta che una ricerca recente ha dimostrato come attraverso Facebook si possa in qualche modo ottenere un effetto di “contagio emotivo” tra gli utenti. Come? Attraverso i post. Lo studio, condotto su oltre 600 mila poveri sfortunati ha evidenziato, infatti, come attraverso i post “si possano indurre le persone a provare delle emozioni a loro insaputa”. Una roba che, detta così, sa quasi di un fantascientifico controllo della mente e che, in effetti, non è molto lontana dalla verità. Il punto è capire se Facebook, in qualche modo, modificando il nostro quotidiano “news feed” riesce a manipolarci, e per fare ciò il team di ricerca, guidato da Adam Kramer, ha manipolato i news feed (ossia le bacheche) di due gruppi di studi. Al primo hanno filtrato i contenuti ritenuti “positivi”, esponendo i soggetti ad una maggioranza di notizie “negative”, al secondo gruppo hanno invece proposto l’iter inverso. I contenuti sono stati arbitrariamente selezionati e scelti da un software, il “Linguistic Inquiry and Word Count” che, attraverso la definizione e la ricerca di alcune parole chiave, ha analizzato oltre 122 milioni di parole presenti in circa tre milioni di post.
Il risultato è stato strabiliante, in primis si è verificato che “omettere contenuti emozionali ha ridotto la quantità di parole successivamente prodotte”, e ciò si è verificato a prescindere che i contenuti fossero positivi o negativi. La ricerca, in pratica, ci dice che fruendo esclusivamente di un solo tipo di “emozioni”, anche la nostra capacità di esprimere le altre se ne va a farsi benedire, e la cosa si manifesta attraverso l’uso di un determinato tipo di parole. Questo, tuttavia, non è un dato nuovo, perché una meccanica simile è alla base del concetto di “viralità” per cui si è studiato che diventa “virale”, solo un contenuto con un ampio spettro emotivo, tale che genera una risposta “di copia” che permette il propagarsi autonomo di quel contenuto nell’etere. Contenuti poveri di emozioni generano invece un effetto opposto, veicolando in qualche modo anche le emozioni degli utenti che ne fruiscono. Dulcis in fundo, come detto, si verifica il succitato “contagio emotivo” per cui “per le persone a cui sono stati ridotti i contenuti positivi, si è vista una maggiore percentuale nell’uso di parole negative e una minore di parole positive. Viceversa quando ad essere ridotti sono stati i contenuti negativi”.
Che significa? Vuol dire che la fruizione di Facebook e la messa in rete, direttamente sulle nostre bacheche, di una determinata fetta di contenuti riesce a veicolare il nostro comportamento sociale, la nostra percezione della socializzazione, ed il modo in cui socializziamo. Questo dato potrebbe essere preso sottogamba, perché gli effetti, per stessa ammissione dei ricercatori, sono stati esigui e perché, comunque, non parliamo di “cause”, ma piuttosto di semplici correlazioni. Molto più che ipotesi, ovviamente, ma non ci meraviglia che un’ampia fetta di detrattori abbia visto questa ricerca come un cumulo di fandonie. Noi, invece, vorremmo rifletterci un attimo su. Cos’è Facebook se non la più complessa rete sociale mai creatasi nella storia dell’umanità? La complessità e la natura di questo nuovo sistema comunicativo non è una cosa da considerare con semplicità, né fruirne in modo idiota, perché a ben vedere non esiste un esempio storico simile che permetta un paragone. Si deve poi ragionare non sui singoli, ma sull’aggregazione (che è poi un processo alla base del social network) e su quanto anche i “piccoli effetti” possono in qualche modo ripercuotersi sull’aggregato, a maggior ragione se il rapporto temporale tra causa/effetto e tra stimolo/reazione è immediato come avviene su Facebook. È inoltre un dato di fatto che le persone che usano Facebook tendono a non avere il controllo di ciò che fanno (o quanto meno le idee chiare su cosa e come lo stanno facendo), tendendo piuttosto a seguire “il flow”, tant’è che spesso si parla di “like frenzy”, in quelle persone che utilizzano il tasto “mi piace” mi modo compulsivo, senza poi nutrire un interesse reale per i contenuti di cui fruiscono. Che l’utente sia, poi, mediamente idiota è stato anche ampiamente dimostrato per ciò che concerne la privacy, che molti hanno scioccamente – e bellamente – mandato a quel paese spiattellando dati e quant’altro sul social network. Si è già fatto l’errore, più e più volte, di considerare le pagine di Facebook come un mero sollazzo, senza forse capire cosa esso sia realmente diventato. Questa ricerca, dal nostro punto di vista, dovrebbe farci riflettere ancora di più. Il veicolo delle emozioni, il loro direzionamento, e la loro eventuale soppressione, non deve per forza di cosa aprire spiragli dispotici e cospirazionisti. Più realisticamente immaginate cosa potrebbe succedere in campo politico o pubblicitario se non avessimo più il controllo delle nostre emozioni, o se qualcuno capisse come veicolare il nostro bisogno di socialità. È un attimo prima che vi giriate dall’altra parte additando il tutto come una marea di cazzate… eppure quanti “attimi” avete già impiegato condividendo e cliccando il tasto “mi piace”?