L’eterno ritorno e i social network
Se anche voi ricordate di aver visto in prima TV su Italia Uno l’ultimo episodio di Dawson’s Creek (e ancora oggi avete problemi ad accettare la morte di Jen), molto probabilmente siete stati tra gli orgogliosi possessori di un profilo Myspace, Netlog, e del pacchianissimo blog MSN. Se sapete di cosa sto parlando, dunque, saprete anche che un social media non è per sempre e che l’illusorio monopolio decennale di Mr. Zuckerberg è destinato, prima o poi, ad andare perduto nel tempo, come lacrime nella pioggia.
Il profilo è mio e lo gestisco io
Non è certo un segreto, infatti, che Facebook stia diventando rapidamente un paese per vecchi, mentre gli under 25 si spostano in massa su Snapchat, social a prova di genitori (almeno per il momento), e Instagram, considerato più intuitivo e immediato. Proprio dopo i recenti cambi di algoritmo operati su quest’ultimo social, che ha rimosso la possibilità di visualizzare il news feed in maniera cronologica, l’app Vero ha scalato rapidamente le classifiche di download per iOS e Android, salendo alle luci della ribalta ben tre anni dopo il suo lancio.
Nata nel 2015 da un’idea del miliardario libanese Ayman Hariri, figlio dell’ex primo ministro libanese, Vero si distingue dagli altri social per la totale mancanza di pubblicità e, quindi, almeno momentaneamente, di guadagni. Un simile approccio, come si legge nel loro manifesto, è sostenibile grazie a “un servizio basato sugli abbonamenti, che ci permette di mantenere Vero libero dalla pubblicità e di concentrarci totalmente sul fornire la migliore esperienza social possibile, anziché provare a cercare nuovi metodi per monetizzare le abitudini dei nostri utenti o far passare loro più tempo sulla nostra app con notifiche a trabocchetto.”
Con buona pace dei menagrami da tastiera, in questo caso è messo in chiaro che “i nostri utenti sono nostri clienti, non il prodotto che vendiamo agli inserzionisti.”
In social media we trust
Con una grafica minimale, da episodio di Black Mirror, Vero si presenta come un’alternativa pura e non alienante di Facebook, recuperando il concetto di cerchie (dagli amici stretti ai semplici seguaci) dello sfortunato Google+, permettendo la condivisione di immagini, audio, link, libri, film e luoghi, promettendo di non interferire con il flusso di informazioni provenienti dai contatti (se mai questo flusso inizierà a scorrere). Nei pochi giorni in cui l’app è diventata un trend, il primo milione di utenti, quelli con un abbonamento gratis a vita, si sono registrati, ma apparentemente l’offerta è stata estesa anche ai ritardatari, con una tattica di marketing che ricorda i saldi che terminano domenica su più di mille divani in pronta consegna. Non ci sono dubbi, infatti che la rinascita di Vero sia stata studiata bene, promuovendolo su Instagram con hashtag dedicato in un momento di rottura degli utenti con la piattaforma, ma anche puntando al fianco debole dell’universo social zuckerberghiano: se Facebook & Co. sono sempre più vicini a perdere la fiducia dei propri utenti, infastiditi dalla mancanza di controllo sul proprio feed e dal dilagare di fake news e post sponsorizzati, il team di Vero punta all’autenticità, promuovendo un social network “in cui puoi essere te stesso. Da qui il nome, Vero, che significa verità.”
Questione di vita o di media
Nonostante le premesse e il fascino di “ricominciare da zero”, tuttavia, ci sembra prematuro ipotizzare una trasmigrazione di massa su Vero, almeno nell’immediato: l’app, ancora in beta, mostra evidenti problemi di stabilità, mentre i precedenti di social network che avrebbero dovuto fare le scarpe a Facebook e sono invece finiti nel dimenticatoio non scarseggiano. Nel 2014, quando il mondo fu costretto a rinunciare ai nickname e utilizzare il vero nome per continuare a usare la piattaforma di Zuckerberg, il social Ello ebbe i suoi quindici minuti di celebrità; nel 2016 è stata la volta di Peach e nel 2017 potreste aver sentito parlare di Mastodon, tutte operazioni che promettevano di trattare l’utente come una persona e non come un prodotto, ma che gli utenti hanno abbandonato appena scemato l’entusiasmo iniziale, per tornare nelle confortevoli braccia di un social che, negli anni, ha sostituito i volantini pubblicitari, gli annunci di lavoro, le diapositive delle vacanze, il corteggiamento al bar, il quotidiano sotto il braccio.
Facebook è diventata la bestia dai mille denti e dai centomila occhi, e nonostante la precarietà della sua egemonia e la fallacia dei suoi meccanismi, non basteranno verità e autenticità per scardinarla dal suo trono. Arriverà, ne siamo certi, un giorno in cui Facebook diventerà un cimitero metaforico e non, ma non è questo il giorno. Sono proprio i difetti della piattaforma a permetterle di non morire: la corsa alla social media strategy di grandi, medie, piccole e inesistenti aziende, l’illusione che Facebook, come l’America un secolo fa, sia la terra delle opportunità e del successo, la brama di confermare le proprie opinioni e offendere chiunque la pensi diversamente, calpestando fino allo sfinimento la propria filter bubble quelle poche volte che potrebbe essere instaurato un dialogo costruttivo.
Non abbiamo bisogno di un social network migliore, abbiamo bisogno di tornare a usare internet per scoprire il mondo e non per confermare le proprie idee. Perché forse, con buona pace di Vero e del suo claim “less social media, more social life”, quello che l’utente vuole da un social media non è una vita sociale, ma un surrogato patinato a dimensione di smartphone.