Bleach, l’ex colonna portante di Shōnen Jump di cui non si parla mai
e si pensa a manga shōnen, e in particolare al sottocategoria battle, la rivista di riferimento per eccellenza non può che essere Weekly Shōnen Jump: da essa sono uscite la maggioranza delle serie più influenti e famose, come One Piece e Naruto. Assieme a queste, un altro manga andava a comporre quello che era il tridente delle serie battle shōnen del primo decennio duemila: Bleach. Simile sotto molti punti di vista alle altre due componenti delle “Big 3” di Shōnen Jump, il successo dell’opera magna di Tite Kubo non è però minimamente comparabile né in vendite né in popolarità o fama postuma. Dopo quindici lunghi anni di pubblicazione, Bleach sembra essere scomparso dalle menti di molti. Coloro che che lo ricordano, lo fanno con nomignoli infelici: “il peggiore degli shōnen migliori”. Se a una prima occhiata questo strapiombo di disparità sembra immotivato, scavando più a fondo si scopre un percorso di serializzazione accidentato e pieno di imprevisti senza i quali, probabilmente, Bleach sarebbe diventato qualcosa di molto diverso.
Bleach: cos’è stato e come lo conosciamo oggi
Tite Kubo iniziò a disegnare manga da giovanissimo, spinto sin da bimbo da una genuina passione per questo media. Approdò su Shōnen Jump durante gli anni del liceo con Zombie Powder, che conobbe un percorso di pubblicazione travagliato e che venne prematuramente interrotto a causa dell’improvviso crollo emotivo dell’autore, non abituato ai ritmi di serializzazione settimanale richiesti dalla rivista. Purtroppo, un presagio di futuri problemi che rivedremo nella sua opera più famosa.
I natali di Bleach sono infelici, ma famosi: la serie, che veniva inizialmente sempre rifiutata da Shōnen Jump per le troppe somiglianze con Yu degli Spettri, divenne un successo istantaneo dopo che l’autore ricevette una lettera da Akira Toriyama, il padre di Dragon Ball. Iniziò così la pubblicazione, che proseguì per quindici anni dal 2001 al 2016. La serie ricevette anche una trasposizione animata da più di 300 episodi, che però si interrompe ben prima del finale del manga.
L’aspetto grafico è uno degli elementi più apprezzati di Bleach: il tratto di Kubo ha reso questa serie unica e riconoscibile e il suo character design è sempre stato variegato, includendo nel suo cast – praticamente infinito – personaggi di diverse nazionalità, aspetto ed espressione. L’autore ha sempre prestato molta attenzione a questo lato dello storytelling visivo, prediligendo creare personaggi con dualismi che sfuggivano a un primo sguardo, in modo da sorprendere il lettore sempre e comunque. Lo sforzo di Kubo si è spinto al punto di donare ad ognuno un personale e peculiare guardaroba, curando anche i character design necessitati dalla serie animata e disegnandone anche per i personaggi filler. Per non parlare poi dell’atmosfera del manga: a volte grezza nei combattimenti, a volte sofisticata in alcuni momenti di worldbuilding – per non dire vagamente asettica, con il contrasto di nero e bianco perfettamente misurato. In ogni caso, Bleach è sempre stata pervasa da una sottile atmosfera intrisa di malinconia e poeticità che si fa fatica ad attribuire a un manga di scazzottate indirizzato ai ragazzi.
In questo manga sono presenti moltissime ispirazioni e riferimenti culturali, sia proprie del paese natio di Kubo che internazionali. I riferimenti religiosi si sprecano: l’autore attinge da più religioni sia con l’iconografia di alcuni suoi personaggi che con le citazioni musicali, che rimandano al cristianesimo e al folklore giapponese. E poi ci sono i continui riferimenti linguistici a inglese, tedesco e spagnolo, quasi a voler rendere il mondo di Bleach interconnesso globalmente, forse un’involontaria anticipazione di quello che vedremo in Burn the Witch.
Gli inciampi, i fallimenti e gli ostacoli
Le premesse erano buone, eppure sappiamo tutti com’è andata. Bleach è la meno ricordata tra le serie battle shōnen della rivista e il pubblico generale non sembra ritenerla allo stesso livello delle colleghe One Piece e Naruto. O almeno, così sembra a noi occidentali: in Giappone il brand gode ancora di una discreta nomea che a livello di merchandise e investimenti lo porta ancora a fatturare.
È innegabile, però, che la serie abbia subito svariati inciampi. Bleach non ha mai venduto come le altri due grandi serie della rivista, sia per un problema di marketing fallace operato da Weekly Shōnen Jump, sia per un semplice fattore di popolarità e digeribilità da parte del pubblico. Di certo non hanno aiutato i ritmi pressanti della serializzazione settimanale dell’editoria dei manga: avevano già destabilizzato l’autore ai tempi della sua prima opera e lo faranno di nuovo, unendosi anche ai suoi problemi di salute. Tutto questo lo porterà, involontariamente, a trasporre la propria stanchezza sulla carta e a farla avvertire ai propri lettori. Nonostante lo scolorimento della serie fosse stato avvertito un po’ da tutti, Kubo ignorò un’ottima possibilità di chiudere la serie, talmente ghiotta che quasi tutti i lettori pensarono (e alcuni ritengono ancora) fosse il vero finale. D’altronde, vedendo Ichigo salutare struggentemente Rukia per l’ultima volta, dandole un malinconico addio perché, senza poteri non potrà più vederla, sfido chiunque a non sentirsi preso in giro quando si scopre che la serie continuerà ancora per molto, molto tempo.
Molti ritengono che non far concludere Bleach con la saga di Aizen sia stata la decisione peggiore per la serie, presa solo per continuare a mungere una serie di successo. Scelta oculata o avventata che fu, il risultato lo vedremo anni dopo quando l’autore arrivò ad un punto di non ritorno e la sua malattia non lo costrinse a scegliere se mandare la serie in un hiatus perenne – lasciandola senza finale – o chiudere tutto come meglio poteva. Kubo scelse la seconda, concludendo la serie in velocità e dandogli un finale che non piacque a molti.
Premesse sprecate, occasioni mancate e poco coraggio: il salto della fede che mai fu
A dispetto di ciò che molti pensano, Bleach aveva il potenziale per essere un’opera sovversiva e con molto più mordente rispetto a ciò che ha finito per essere. Purtroppo, Kubo non ha mai digerito la pubblicazione settimanale, che ha pesato sulla sua salute fisica e mentale, e i suoi capitoli da venti pagine, che gli risultavano restrittive. Questo si nota particolarmente quando si prendono in considerazione le varie novel che Kubo ha fatto uscire negli anni e che trattano in maniera più approfondita segreti e misteri della serie che, purtroppo, su Weekly Shōnen Jump non hanno ricevuto lo spazio per essere raccontati. Non è solo questo a suggerire che, forse, a Kubo avrebbe giovato un cambio di rivista, magari un mensile. In alcuni punti del manga, ad esempio con la trama dei Fullbring, l’autore fa trasparire la volontà di dare a Bleach un’impostazione meno da shōnen, che lo restringeva con la gabbia dei suoi stilemi. Vedendo i risultati di Burn the Witch (la sua nuova serie), c’è da chiedersi cosa sarebbe potuta diventare questa serie, se gli fossero stati concessi il giusto respiro e ritmo.
Sono molti, inoltre, i momenti di trama che sembravano preannunciare una svolta molto più cupa e drammatica per la serie. Vengono toccati temi come il genocidio o i regimi militari totalitaristi, per non parlare dei riferimenti al nazismo sparsi qua e là per la serie o ancora, le amare battaglie che facevano perdere al protagonista Ichigo la propria umanità. Tutto questo, però, troppo di sfuggita.
Weekly Shōnen Jump non era la rivista adatta (o forse non era pronta) per farsi portatrice di quello che poteva essere il messaggio della serie, se solo Kubo fosse andato fino in fondo. Certo è che, se Bleach si fosse davvero concluso con il sacrificio e la morte di Ichigo e il “reset” del mondo come lo conosciamo, nonostante i suoi oggettivi difetti, non si avrebbe troppa difficoltà a paragonarlo a L’Attacco dei Giganti per “cattiveria” e nichilismo. Di sicuro, sarebbe stato perfettamente a suo agio in questa era moderna del manga shōnen, dove temi e ambientazioni sono generalmente più horror, più cupe, figlie di un filone generato proprio da AOT.
Il fallimento plateale di Bleach con il suo finale sembra aver scoraggiato i nuovi autori di shonen a intraprendere la via delle trame a lungo respiro, come fecero a loro tempo le Big 3. Le serie che siedono sull’attuale vetta di Weekly Shonen Jump al momento sono manga come Boku no Hero Academia, Jujutsu Kaisen e Demon Slayer, serie che vedranno (o hanno già visto) la propria conclusione in tempi relativamente brevi o “normali”. Si sceglie un palco più ristretto, una narrazione meno complicata e più lineare. La nuova generazione di mangaka, insomma, sembra aver realizzato che forse è il caso di maneggiare trame e mondi più semplici, in modo da cavalcare in fretta l’onda del successo senza avere ricadute fisiche o mentali per il troppo lavoro o le sabbie mobili in cui fin troppo spesso gli autori di serie interminabili incappano.
Il ventennale ha soffiato via la polvere: è tempo di rifiorire
Nonostante tutte le opportunità mancate, gli inciampi e il finale non proprio popolare, il futuro di Bleach non sembra comunque così grigio. Oltre alla discreta fama che è riuscito a mantenere in Giappone, la nuova opera di Burn the Witch ha riscosso ottime reazioni da pubblico e critica, ed ha per giunta riacceso l’interesse verso l’opera magna di Tite Kubo grazie agli aperti riferimenti ad essa. Questa nuova serie sembra a tutti gli effetti ambientata nello stesso universo narrativo di Bleach, mettendo però sul palcoscenico la controparte occidentale della Soul Society. Visti i ritmi di pubblicazione di questa serie – decisamente più clementi – mi auguro che Kubo riesca a usare Burn the Witch non solo come valvola di sfogo per il suo estro, ma anche come scusa per “svecchiare” Bleach e risolvere alcuni dei misteri lasciati irrisolti nella serie principale. Magari – perché no? – potremmo addirittura sperare in alcuni cameo.
Inoltre, su Amazon Prime Video sono arrivate le prime cinque stagioni dell’anime doppiate in italiano, riscuotendo un tale successo il doppiaggio è stato rinnovato per tutte le stagioni (a breve infatti saranno aggiunte la sesta e la settima). Hanno avuto un grande seguito, poi, le raccolte firme che chiedevano di riprendere la pubblicazione del manga, denotando un sopito ma non assente interesse del pubblico. Insomma, il solco che Bleach ha lasciato è indubbiamente meno profondo se confrontato con quello di colossi come Dragon Ball, One Piece o Naruto, ma c’è.
Un’altra testimonianza dell’impronta lasciata da questa ex colonna portante di Weekly Shōnen Jump è il fatto che non solo sia rimasta nei cuori di molti fan, ma abbia anche ispirato autori contemporanei nella stesura delle loro opere, come per esempio Gege Akutami, l’autore di Jujutsu Kaisen, che ha citato Bleach come una delle sue ispirazioni artistiche maggiori e si è anche confrontato in un’intervista con Tite Kubo. La ciliegina sulla torta è sicuramente la mostra sul manga che sta avendo luogo in questo periodo in Giappone per commemorare il ventennale e inaugurare le nuove stagioni dell’anime, che adatteranno l’ultimo arco narrativo del manga. La Guerra dei Mille Anni sta finalmente per arrivare anche sugli schermi dei fan, e chissà che non ne attiri una nuova generazione.