Ci sono tanti classici della fantascienza che ancora oggi vengono letti nella traduzione di oltre cinquant’anni fa: forse sarebbe il momento di ritradurli?
L’epoca d’oro della fantascienza americana è stata tra gli anni ’30 e ’40 del Novecento, e in Italia il grande successo popolare del genere si è visto tra gli anni ’50 e ’70, per cui molti dei lettori attuali di fantascienza si sono formati su testi tradotti in quel periodo. Ma un lettore che iniziasse oggi lo stesso percorso di scoperta della fantascienza si troverebbe a leggere la stessa traduzione vecchia di cinquanta o settant’anni. È così impossibile pensare di tradurli di nuovo a partire dal testo originale?
Ritradurre è ritradire
Conosciamo già l’obiezione che verrà mossa da molti a questa proposta: che bisogno c’è di tradurre qualcosa che è già stato tradotto? Perché non concentrarsi invece a tradurre per la prima volta la miriade di testi che ancora non sono mai stati portati in Italia? Certamente è un’obiezione valida, e infatti abbiamo già parlato in precedenza di libri che non sono ancora stati tradotti e lo meriterebbero (e per alcuni di questi nel frattempo si è mosso qualcosa, quindi forse è stato di buon auspicio…). Ma in questo caso i termini del discorso sono diversi: ritradurre non significa far arrivare un’opera per la prima volta sul mercato, ma aggiornare la sua presenza e renderla più accessibile. Questo perché la traduzione non è mai un’operazione neutrale, e sottopone inevitabilmente il testo a un filtro.
“Tradurre è tradire” dicono gli addetti ai lavori, ed è vero: quando una traduttrice o un traduttore si mettono a lavorare su un testo da trasporre da una lingua all’altra, devono necessariamente operare dei compromessi. A volte perché certe espressioni idiomatiche non hanno equivalenti in italiano, altre perché certi riferimenti culturali non sarebbero colti, oppure la sintassi è differente e si perdono particolari costruzioni del testo, giochi di parole, e così via. Non è una questione di “qualità” della traduzione: anche il traduttore più abile è costretto a cedere, in certi casi; in altri, può al contrario arricchire e creare un nuovo livello di lettura più vicino ai lettori della sua lingua. Un esempio immediato ed efficace è la traduzione di Umberto Eco degli Esercizi di stile di Raymond Quenau, in cui i vari registri lessicali e i giochi enigmistici sono stati necessariamente riadattati in base alle intenzioni del testo, piuttosto che letteralmente.
Quando leggiamo una traduzione quindi, stiamo indirettamente leggendo un’opera attraverso la lente del traduttore. E ci sono tanti fattori che possono distorcere in una direzione o nell’altra questa lente: la cultura dominante dell’epoca, il mercato a cui il testo è proposto, la conoscenza personale del traduttore del testo o dell’autore su cui sta lavorando. Il tutto al netto dei meccanismi editoriali che portano spesso a lavorare alle traduzioni in tempi ristretti e modalità superficiale, perché c’è bisogno di passare in fretta al titolo successivo. Ne deriva che non esiste mai una “traduzione perfetta”, e che un testo degli anni Quaranta tradotto negli anni Sessanta oggi può apparire piuttosto distante dalla lingua corrente e dalla sensibilità attuale dei lettori.
Ma allora perché non ritraduciamo anche I promessi sposi? A parte il fatto che, da che esistono i testi “classici” esistono anche riassunti, parafrasi e commentari che aiutano a capirne meglio il contenuto e la forma, ma il punto è che una traduzione invecchia prima di un testo in lingua originale. Proprio perché I promessi sposi è scritto in italiano, per quanto arcaico possa apparire oggi, siamo comunque in grado di rapportarci a esso come “italiano arcaico”; una traduzione superata invece non ci avvicina al testo originale ma ce ne allontana ancora di più. D’altra parte, i classici stranieri sono sottoposti periodicamente a nuove traduzioni, e anzi ci sono edizioni preferite ad altre proprio in virtù della traduzione. E pure la Bibbia, ogni tot. anni, viene rinfrescata…
Tradurre la fantascienza
Se parliamo nello specifico della traduzione della fantascienza, ci riferiamo a un genere che per buona parte della sua storia ha prodotto preponderantemente testi in inglese (salvo rare eccezioni come Stanislaw Lem e i fratelli Strugatzki). L’inglese è una lingua che cinquant’anni fa poteva apparire ancora esotica, ma che oggi è diventata di uso quasi comune anche per chi non l’ha studiata. Le generazioni più giovani poi sono abituate a fruire anche di prodotti in lingua originale, per cui hanno sviluppato una notevole familiarità con l’inglese che domina film e serie tv. Questo può portare spesso a notare come alcuni testi tradotti decenni fa abbiano provato a trasporre termini che oggi utilizziamo senza particolari difficoltà, o a notare tentativi goffi di trasporre in modo letterale espressioni gergali, come bullshit che a volte si trova come “merda di toro” invece di un più corrente “stronzata”.
La difficoltà aggiuntiva della traduzione della fantascienza è che può contenere spesso termini tecnici e lessici specifici di discipline scientifiche, la cui traduzione non è così immediata, e anzi può essere quasi impossibile da ricavare se non si conosce il settore di cui si parla. Un classico errore risontrabile nelle vecchie traduzioni sono gli elementi chimici, con nitrogen che diventa “nitrogeno” invece di azoto e silicon che si trova come “silicone” invce di silicio. Ma una questione altrettanto delicata è quella dei neologismi, che nella fantascienza abbondano e anzi sono una parte importante del worldbuilding di una storia: in inglese è molto più facile costruire parole, perché basta aggiungere dei suffissi per sostantivizzare un verbo ed è naturale concatenare più parole per formarne una di senso più ampio. In italiano lo stesso gioco non funziona con altrettanta leggerezza, per cui neologismi come precog o star-dweller non possono essere trasposti in modo automatico.
A tutto ciò si aggiunge il fatto che mediamente la fantascienza non è una narrativa dalla forte componente “letteraria”: gli scrittori di fantascienza, e in particolare i Grandi Maestri della Golden Age, non indugiavano più di tanto in finezze lessicali e virtuosismi stilistici, ma scrivevano in modo funzionale, quasi neutro. Pertanto per loro la traduzione non va a demolire la complessità letteraria del testo, ma può aiutare invece a evidenziarne il contenuto. Tutto questo per dire che probabilmente, se esiste un genere di narrativa che può trarre beneficio da una traduzione aggiornata è proprio la fantascienza classica, che per sua storia e natura ci ha lasciato testi che da una parte soffrono di più dell’evoluzione del linguaggio, dall’altra non vengono compromessi troppo dall’adattamento in un’altra lingua.
Traduzioni in corso
Bisogna anche ammettere che dal punto di vista editoriale la ritraduzione non è quasi mai un buon investimento. Se un testo italiano esiste già, è evidente che sia più facile ed economico riproporre quello. E inoltre ogni volta che si prova a mettere le mani su un “classico” bisogna sempre scontrarsi con il fandom. Poco tempo fa la nuova traduzione di Ottavio Fatica de Il Signore degli Anelli ha scatenato l’ira degli appassionati (a ragione o torto non è importante, è bastato solo l’annuncio) e più di recente la nuova traduzione di Chiara Reali di La mano sinistra delle tenebre di Ursula Le Guin, che è diventato La mano sinistra del buio, ha ricevuto un trattamento simile. Quindi, forse è meglio lasciar perdere e tenersi le traduzioni che abbiamo già…Se non che, una ritraduzione è anche l’occasione per rilanciare titoli che sono scomparsi dai cataloghi per molto tempo. In Italia la fantascienza è piena di centinaia di libri che tutti adorano e consigliano di continuo, ma che non sono disponibili da decenni perché sono usciti solo su Urania una volta nel 1962 e ripubblicati in un allegato a Panorama nel 1988, per cui si trovano solo frugando nei banchini dell’usato. Un caso di questo tipo è La nube purpurea, romanzo di Matthew P. Shiel uscito per la prima volta in Italia nel 1967 e ripubblicato nel 2019 nella nuova traduzione di Davide De Boni.
Ma a ben guardare si possono trovare anche altri titoli che hanno avuto un trattamento simile. Per esempio le Cronache marziane di Ray Bradbury sono state ripubblicate nel 2016 con la nuova traduzione di Giuseppe Lippi. E la trilogia della Fondazione di Asimov uscirà in una nuova edizione per Oscar Vault tradotta da Vincenzo Latronico. Quindi l’idea di rimettere le mani ai classici, nonostante sia antieconomico e osteggiato dai fan hardcore (ma tanto quelli non li accontenti mai) non è del tutto estranea alle logiche editoriali.
Ritraduci questo!
E quindi ci permettiamo di segnalare alcuni titoli di autrici e autori di fantascienza che potrebbero giovarsi di una nuova traduzione, in certi casi come occasione di riproporre testi che da troppo tempo non si trovano e in altri con il puro intento di svecchiare traduzioni ormai superate. Un caso attualissimo sarebbe quello di Dune, che negli ultimi mesi ha calamitato su di sé l’attenzione del mondo intero grazie al monumentale progetto cinematografico di Denis Villeneuve. I vari prequel/sequel/midquel sono piuttosto recenti, ma il libro originale attualmente nel catalogo Fanucci insieme ai cinque seguiti scritti da Frank Herbert gira ancora nella traduzione del 1973. Rileggendolo oggi si percepisce una certa patina antica sul testo, con l’uso di pronomi come “ella” ormai usciti dal linguaggio comune, e grafie desuete come “lagrime”. Non aver approfittato del clamore del nuovo film per proporre una nuova traduzione è stata una grande occasione mancata.
Parlando di altri classici del genere che meriterebbero una revisione, possiamo pensare ad Arthur Clarke, che di recente ha visto una nuova edizione dei suoi racconti nella versione già pubblicata in precedenza. Ma forse il titolo che sarebbe interessante rivedere è proprio 2001 Odissea nello spazio, un classico intramontabile che è stato tradotto nel 1969 e non è stato più toccato da allora, perdendo la possibilità di aggiornare il linguaggio per un pubblico molto più abituato ai concetti dell’informatica e del viaggio spaziale. Se invece vogliamo avventurarci in un campo minato di neologismi e slang, potrebbe essere una sfida interessante quella di tentare una nuova traduzione di Arancia meccanica di Anthony Burgess, anche questa risalente alla fine degli anni 60. Ricostruire il nadsat tenendo maggiormente in considerazione la sua originale commistione con il russo (ma oggi potrebbe essere il cinese?) potrebbe essere un esperimento interessante, a meno che non si voglia direttamente attingere ai termini usati nel doppiaggio del film di Kubrick.
Per i titoli che invece potrebbero vedere una nuova traduzione che li porti a tornare disponibili sul mercato, ci ritroviamo con un vasto serbatoio di classici del planetary romance che sono stati amati da generazioni successive di lettori ma oggi sono quasi irreperibili: dal ciclo di Tschai di Jack Vance a John Carter di Egdar Rice Burroughs, queste avventure non hanno certo una lingua ricca e complicata, ma aggiornati con un lessico più attuale potrebbero catturare anche i nuovi lettori. La ritraduzione può anche diventare il modo di riportare all’attenzione del pubblico attuale autori ma soprattutto autrici che per le tematiche che affrontano oggi sarebbero maggiormente accolte e seguite rispetto all’epoca della loro prima pubblicazione, come Joanna Russ o Alice Sheldon (aka James Tiptree jr).
È evidente che questi sono solo una manciata di esempi e che andando a scavare nei vecchi cataloghi di Urania, Nord e Fanucci si possono trovare decine e decine di libri di fantascienza scomparsi che potrebbero tornare in vita grazie a una nuova traduzione. Ma al di là dei singoli titoli, la cosa importante è riconoscere il valore di una (buona) traduzione, e accogliere con spirito positivo i già troppo scarsi tentativi di ridare spazio a un libro con un’operazione così complessa e delicata.