Famiglia, raggi cosmici e altri guai.
Il 1961 fu un anno cruciale per la storia contemporanea. Gli Stati Uniti iniziarono il programma Apollo, come risposta al lancio, dall’altra parte della Cortina di Ferro, del primo uomo nello spazio, Yuri Gagarin. L’uomo lasciava la culla della Terra per avviarsi verso lo spazio. Ma anche le arti erano in pieno fermento: era l’anno in cui i Beatles tennero il loro primo concerto, Dino Risi girava nell’estate di quell’anno il suo capolavoro, Il sorpasso, mentre la letteratura perdeva uno dei suoi più grandi interpreti, Ernest Hemingway.
Quello stesso anno, un giovane fumettista nutrito proprio dalle letture del grande scrittore di Oak Park, insieme al miglior disegnatore della sua generazione, avrebbero dato alle stampe un’opera destinata a cambiare la storia del fumetto. È il novembre del 1961 quando il mondo conosce per la prima volta i Fantastici Quattro.
Parlare della strana famiglia allargata degli Storm-Richards vuol dire parlare di una delle sinergie di maggior successo della storia: l’incontro tra due personalità come quella di Stan Lee e di Jack Kirby riesce a dare la svolta alla storia del fumetto, presentando qualcosa di completamente nuovo.
Chi conosce la storia del Comic americano sa bene quanto fosse in crisi la Marvel in quel momento storico: la DC Comics dominava il mercato grazie agli eroi della Silver Age, al suo eccezionale Flash sceneggiato da Fox e Kanigher e disegnato da Infantino, ed era pronta a sferrare il colpo di grazia alla concorrenza grazie alla Justice League.
Ma la storia prese una piega diversa: la troppa sicurezza di un dirigente della DC fece giungere alle orecchie di Martin Goodman, editor in chief della Marvel, la notizia della nuova testata prima della sua uscita, dandogli la possibilità di intervenire. E Goodman chiamò a rapporto Stan Lee, imponendogli di creare qualcosa di nuovo, qualcosa capace di parlare al grande pubblico.
Più facile a dirsi che a farsi. Sono ancora gli anni in cui il fumetto gode non solo di scarsa considerazione, ma è addirittura tacciato di essere causa degli scompensi emotivi dei giovani. Per capirne il motivo è necessario tornare al 1954, quando lo psicologo Fredric Wertham diede alle stampe il suo Seduction of the innocent, un feroce atto di accusa contro i fumetti. Secondo l’autore i fumetti di supereroi erano un veicolo per immagini violente e tendenti all’omosessualità, volte a traviare i giovani che leggevano le avventure dei supereroi per far loro imitare quelle azioni. Ma non si fermava qui, arrivando a sostenere che tutti gli atti di violenza giovanile erano, in buona sostanza, imputabili al fumetto.
Per quanto oggi molte delle tesi di Wertham siano state screditate, all’epoca lo psicologo era una voce autorevole e la società americana recepì in maniera molto forte il suo messaggio. Poco importava la scarsa documentazione in diverse parti del libro, basato più sugli aneddoti che sulla ricerca. Il governo degli Stati Uniti convocò lo psicologo a testimoniare davanti a una Commissione Senatoriale per la delinquenza giovanile, cosa che permise di dare alle sue idee una cassa di risonanza importante. Wertham riaffermò le sue teorie e, nonostante la Commissione non si fosse pronunciata contro il fumetto, invitò gli editori a mitigare i contenuti delle proprie storie. Contestualmente le vendite dei fumetti calarono, facendo subire al comic una ferita da cui non si sarebbe ripreso prima di qualche anno.
Allo stesso tempo il governo statunitense varò il Comics Code Authority, ovvero l’istituto volto a sovraintendere la censura nel fumetto.
Lee era chiamato all’impresa della sua vita, a scrivere qualcosa che potesse davvero cambiare la sua carriera e dargli la possibilità di lasciare un segno nella storia del fumetto. E, almeno inizialmente, The Man non sembrava in grado di trovare una soluzione. Parlare di qualcosa di nuovo, sbalordire i lettori e tenerli incollati alle pagine, ma senza mai uscire dalle rigide linee del CCA.
Alla fine, spronato dalla moglie, la sua scelta fu quella di giocarsi il tutto per tutto: scrivere qualcosa che avrebbe voluto leggere davvero, di personaggi che fossero diversi dal solito. Bizzarri, scontrosi, imperfetti, persino disadattati: in una parola umani, i primi supereroi con superproblemi. Ma lo avrebbe fatto toccando al cuore la società a stelle e strisce. Avrebbe parlato di famiglia, uno dei valori in cui l’opinione pubblica americana si riconosceva.
Lee scrisse una traccia per la sceneggiatura e la passò a Jack Kirby. Il Re non ci mise molto a creare i personaggi: Reed Richards, ovvero Mister Fantastic, il genio costretto a convivere con il perenne senso di colpa per quanto accaduto ai suoi cari; Susan Storm, la Ragazza (e poi Donna) Invisibile; Johnny Storm, la seconda Torcia Umana; e per finire Benjamin Grimm, l’adorabile Cosa dagli Occhi Blu, un supereroe diverso da qualsiasi altro visto prima, un mostro che al suo interno nasconde un dolore e una solitudine senza precedenti nel mondo del fumetto. Erano nati i Fantastici Quattro.
Il quartetto, il primo supergruppo dell’universo Marvel del Dopoguerra, era un gruppo di eroi atipico già per il modo in cui furono concepiti. Gli anni erano quelli delle esplorazioni spaziali come abbiamo visto, e la mitologia dei supereroi non poteva che risentirne. In questo il contributo di Kirby nel dare al quartetto il tratto fantascientifico ed emozionante dei pionieri dello spazio profondo fu determinante. Il Re attinse a piene mani da una sua precedente creazione, i Challengers of Unknown, per uno dei concetti fondamentali dell’opera. Il cambiamento: esclusivamente mentale per il primo gruppo di esploratori, ma anche fisico per quanto riguardava invece i Fantastici Quattro. Un cambiamento che in un modo o nell’altro sembra rispecchiare in tutto e per tutto i caratteri dei personaggi, incarnazioni diverse della società americana dell’epoca.
Reed diventa un uomo fluido come l’acqua, forse un contrappasso per la sua mentalità, tanto aperta ed elastica in campo scientifico, quanto conservatrice e rigida nei rapporti umani. Susan ottiene la capacità di rendersi invisibile, così come l’ha resa la società e così come lei si è sempre sentita. Johnny è la fiamma, una testa calda nel pieno ardore della gioventù, un ardore che altri non esitano a etichettare come incoscienza. E infine Ben, visto da tutti come un mostro, eppure desideroso solo di essere accettato e amato, pronto a tutto pur di proteggere coloro che vorrebbero vederlo sparire. Perché Benjamin Grimm non è altro che Kirby in persona, sia nel carattere che nella missione: la Cosa è il fumettista, disposto a donare infiniti mondi ai propri lettori, eppure odiato per questo dalla società.
Sin dal loro esordio i Fantastici Quattro si distinsero dagli altri eroi per l’intimità e gli stretti rapporti personali che legavano i loro membri. Una famiglia prima che un gruppo di eroi, disfunzionale, allargata e strana, ma saldamente unita da quell’affetto che dovrebbe essere sempre presente tra persone che condividono lo stesso tetto.
Quella di trovare soluzioni collettive a problemi individuali fu da sempre uno dei tratti distintivi del Quartetto. Perché i problemi di Ben sono anche quelli di Johnny, di Sue e di Reed, una forza che va ben al di là di quanto visto fino a quel momento nella Justice League e completamente differente da ciò che mostreranno i Vendicatori.
In quasi sessant’anni di storie ciò che da sempre ha contraddistinto i Quattro è stato un senso di affetto ben diverso dal cameratismo presente negli altri eroi. Era qualcosa di familiare sia per i personaggi che per i lettori. E il pubblico gradì il concetto: vedeva situazioni presenti nella vita di tutti giorni trasposte in un contesto fumettistico e apprezzava. Certo, qualche volta c’era uno dei congegni di Reed che impazziva, altre volte un supercattivo attaccava il Baxter Building, oppure un compagno di Università divenuto dittatore di uno stato Europeo faceva visita alla famiglia. Ma intanto c’era da ritirare la posta, bisognava fare la spesa, portare a termine una gravidanza difficile (non sempre a lieto fine), prendere i bambini a scuola o i biglietti per una partita di baseball. C’era la vita di tutti i giorni, così vicina al popolo americano, quella normalità tanto amata. A rafforzare questa sensazione c’è il fatto che il Quartetto non indossa alcuna maschera e non ha identità segrete: nella lotta contro i villain così come nella vita di tutti i giorni, Ben, Sue, Reed e Johnny sono sempre se stessi, nel bene e nel male.
Una normalità che è fatta anche dallo scorrere del tempo. Il Quartetto è forse uno dei pochissimi gruppi di eroi per cui il passare degli anni sembra avere qualche effetto. I membri dei Fantastici Quattro e i loro congiunti crescono, invecchiano e maturano, cambiando nel tempo il loro aspetto e alcuni tratti del loro carattere, come successo per Franklin e Valeria, i figli di Reed e Sue.
Un tratto che si è conservato intatto nel corso degli anni, nei quali abbiamo visto una delle eroine più potenti dell’universo Marvel cullare i propri bambini, un mostro di pietra arancione e un fiammifero volante farsi scherzi a vicenda come due fratelli, un padre che dopo essersi tolto il camice gioca con il proprio figlio. La quotidianità, seppur filtrata in un contesto fantascientifico, è da sempre stato il tratto distintivo e la vera forza dei Fantastici Quattro. Qualcosa capace, oggi come allora, di parlare al popolo americano, di essere accettato. Una specie di “cavallo di Troia” con cui Lee e Kirby sono riusciti a superare il muro di diffidenza che l’opinione pubblica aveva costruito per proteggersi dal fumetto.
Oggi, complici i continui insuccessi cinematografici, tendiamo a dimenticare quale sia stata l’importanza del Quartetto nella storia del fumetto. Eppure tutto quello che ha avuto di buono e grande la Marvel è nato dai Fantastici Quattro.
Supereroi con superproblemi. Ma, prima ancora, con problemi di vita quotidiana, vicini all’uomo comune, vicine ai ragazzi che avrebbero letto quelle pagine e che, forse, avrebbero rivisto i propri genitori in Reed e Sue, uno zio molto amato in Ben, un fratello in Johnny. Un concetto, quello di avvicinarsi alla gente nelle tematiche, che avrebbe accompagnato per tutta la vita i Quattro, tra fortune e sfortune, segnando la loro personalità e rendendoli immediatamente riconoscibili agli occhi del grande pubblico.