Il gioco preferito di Alberto Angela

Dopo aver ripreso le redini di una IP nata e morta in seno a Crytek, Ubisoft è stata capace di dare a Far Cry il lustro che merita, trasferendo lo sviluppo dal team tedesco agli stessi studios interni artefici dei vari Assassin’s Creed (su tutti l’arcinoto Ubisoft Montréal). E lo ha fatto dapprima con un terzo capitolo francamente riuscitissimo, poi con un quarto capitolo forse sottotono ma comunque ricchissimo di ottimi spunti e imbastito su di un gameplay accattivante e divertente. Tra le due uscite, la società si è poi cimentata nel DLC Blood Dragon, che con i suoi colori al neon saturi di testosterone di Kurt Russell ha dato al brand una linfa ancor più nuova e intrigante, ridando anche lustro allo spinoso territorio dei DLC.

Far Cry, insomma, vive con Ubisoft una nuova giovinezza, complice una fanbase esponenzialmente amplificata ed anche la volontà, per noi evidente, di utilizzare la serie per provare a fare qualcosa di diverso rispetto alla concorrenza delle avventure in prima persona. Ci approcciamo allora a Primal ricchi di buoni propositi, glissando per un’attimo sull’associazione mentale che ne consegue ad uno dei momenti più brutti del cinema (10.000 A.C. un film brutto, ma brutto brutto) e lasciandoci catturare dal coraggio di ambientare un gioco ai tempi del mesolitico. Un vero e proprio unicum nell’offerta videoludica odierna e, proprio per questo, un qualcosa assolutamente da sperimentare.

Ambientato nel 10.000 a.c., Far Cry Primal racconta del viaggio di Takkar, un esule della pressoché scomparsa tribù dei Wenja trovatosi a far i conti con la solitudine e la recente morte dei pochi membri del suo clan nel corso di una battuta di caccia che ci farà anche da tutorial. Intenzionato a raggiungere Oros, luogo mitico in cui, pare, siano dispersi altri esuli della sua tribù, Takkar diverrà ben presto il capo del suo ricostruito clan, dovendo fare i conti con altre due belligeranti tribù, gli Udam delle fredde terre del nord, protetti dal segreto di un veleno letale utilizzato in guerra, e gli Izila del sud, appena arrivati ad Oros e detentori del devastante potere del fuoco. Udam e Izila imperversano nella regione, facendosi guerra e mietendo vittime tra i pochi e disparuti Wenja che, proprio sotto Takkar, si impossesseranno infine delle zone dell’ovest, ricostituendo la propria cultura e la propria presenza sul territorio. In soldoni, Far Cry Primal comincia e finisce in queste poche righe, presentando al giocatore non una trama definita e bilanciata, bensì un corollario di storie, il cui completamento, salvo che nei primissimi passi, sarà affidato all’estro del giocatore, che potrà affrontarle in un ordine assolutamente disordinato.

Si tratta di uno di quei casi in cui il gioco non è al servizio della storia, ma piuttosto il contrario, proponendo al giocatore un’avventura completamente open world in cui i limiti sono imposti non dai gadget, dalla trama o da chissà cosa, ma dal puro spirito di sopravvivenza e dal desiderio di scoperta. Con Takkar potrete esplorare sin da subito tutto il mondo di gioco, senza limite alcuno, se non la capacità, data dall’equipaggiamento e dalle abilità, del vostro personaggio. La ricostruzione del villaggio wenja, unita alle continue necessità di procacciarsi materiali utili tanto alla costruzione quanto al potenziamento del nostro limitato, ma efficiente, arsenale bellico saranno la vera e propria spina dorsale dell’esperienza, contribuendo anche in modo netto a dare l’impressione di essere realmente alle prese con le necessità di una tribù primitiva e in simbiosi con la natura.

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Calare il giocatore in un ambiente vivo e vivido, in cui è persino sottintesa una precisa catena di comando del mondo animale, ha evidentemente impedito al team di creare una trama con precisi capo e coda, pur non impedendo la costruzione di un gruppo di attori digitali affascinante e solido. Il mondo di Takkar è duro, primitivo, rozzo, sin troppo drastico nello stabilire la linea che c’è tra la vita e la morte. E così i personaggi, pur seguendo quel lavoro di caratterizzazione così affascinante che tanto ci è caro dalla comparsa dell’indimenticabile Vaas Montenegro, si propongono in modo inedito, grazie soprattutto alle loro capacità di linguaggio e gesticolazione. La lingua di Oros è semplice e gutturale, per lo più accompagnata da una spiccata gesticolazione. Ubisoft, in tal senso, ha creato un apposto linguaggio “cavernicolo”, sicché potremo seguire il gioco solo per mezzo di sottotitoli, una trovata sinceramente azzeccata e logica, che dà l’impressione di seguire, seppur con meno concitazione, un “Apocalypto” a caso. E così, radunando pian piano i nostri wenja, aggiungeremo alle nostre file alcuni personaggi, 7 per la precisione, fondamentali per l’economia del gioco e assegnatari di un determinato numero di missioni che, oltre a far progredire i racconti del succitato corollario di eventi, ci permetteranno anche di migliorare il nostro arsenale e le nostre abilità.

Ogni missione andrà a rendersi disponibile sulla mappa, andando ad aggiungersi alle già numerose quest secondarie che si presenteranno con l’aumentare della popolazione (e spesso legate a necessità concrete degli abitanti del villaggio), alle missioni di caccia, ed anche ad un eccezionale numero di semplici eventi randomici, rendendo il mondo di gioco ricchissimo di cose da fare, e con una varietà capace di tenerci attenti per 20 ore buone se non di più. Le missioni, il mondo che ci circonda, ed una mappa enorme (e la cui estensione è amplificata dalla quasi costante necessità di viaggiare a piedi) rendono l’esperienza coinvolgente e intrigante, complice un level design ispirato e intelligente che, dato il contesto storico, sposa le necessità belliche dei nostri nemici con quello che è lo scenario naturale, intramezzando capanne e baracche a laghi, fiumi, e dedali sotterranei, il tutto calato in modo perfetto con un sistema giorno/notte che oltre a rendere la sopravvivenza più ostica, permette anche un avvicendarsi della fauna secondo i cicli di caccia delle oltre 20 creature abitanti in Oros.

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La scommessa del viaggio nel tempo è dunque vinta sotto il punto di vista meramente scenografico e concettuale, costituendo, come detto nelle premesse, un’ottima variazione al tema delle esperienze in prima persona (o, per dirla in modo gretto, degli FPS) anche se, purtroppo, siamo ben lontani da un gioco perfetto ed esente da difetti. Se dal punto di vista tecnico abbiamo poche incertezze, costituite per lo più da qualche texture in bassa definizione (poca roba se si considera la profondità dell’orizzonte, la ricchezza della natura e il framerate granitico!) dal punto di vista del gameplay ci sono un paio di magagne che, purtroppo, ledono non poco l’esperienza di gioco, specialmente nel tempo della nostra avventura che va dall’inizio alla metà del gioco. Il problema risiede fondamentalmente in tre concetti: il combattimento corpo a corpo, l’intelligenza artificiale e la difficoltà del gioco. Il punto è che a dispetto delle premesse, Takkar si dimostra portatore di un ottimo arsenale, utile più o meno per tutte le situazioni e per quanto sia irrealistico credere che nel 10.000 a.c. l’uomo fosse capace di creare una bomba pirotecnica, diciamo che sospendiamo piacevolmente l’incredulità partendo all’assalto sulla nostra tigre dai denti a sciabola.

Orbene, se le armi a distanza fanno il loro sporco lavoro più che bene, il problema risiede nella clava, che nella sua doppia versione (una e due mani) costituisce l’unico esponente del combattimento ravvicinato. In questi frangenti – che corrispondono poi a buona parte del gioco, o almeno fino all’ottenimento delle faretre per portare con sé più lance e frecce – il gioco mostra tutta la sua debolezza, con la telecamera e lo stesso motore di gioco che si dimostrano incapaci di restare al servizio di un’azione chiara e pulita. Combattere con la clava, specialmente in situazioni in cui i nemici non sono tutti a vista, è un’esperienza da mal di mare, minata anche da un feedback delle collisioni semplicemente inesistente, e ciò rappresenta sicuramente il peggior passo mosso dal team di sviluppo.

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Realisticamente, combattere con la clava vuol dire premere forsennatamente il tasto d’attacco, nella speranza di colpire qualcosa o qualcuno il ché, se con i nemici umani è ancora possibile, diventa una vera impresa quando occorre respingere bestie particolarmente agili e aggressive. Se si considera poi che il sistema di gioco ci costringe a procacciaci risorse per costruire in autonomia le varie armi, e che queste stesse armi possono essere trasportate in numero limitato, è evidente che nelle prime ore del gioco la clava si dimostrerà, ben più che in una situazione, l’unico strumento per far strage dei nemici e per difendersi dagli animali, facendo sì che il gioco metta spesso in evidenza la sua componente meno riuscita. Perché la radice del problema è come si è tentato di sposare le necessità del setting ai canoni del genere, con quello che è un risultato non sempre efficiente.

La situazione, come detto, si andrà progressivamente mitigando, aprendosi però ad un altro problema: quello dell’intelligenza artificiale. Sarà che è il mesolitico, ma i nemici di Fra Cry Primal sono davvero stupidi e l’unico vero pericolo può essere rappresentato dal loro numero o dalla nostra scarsa preparazione ed anche nelle fasi avanzate, in cui essi saranno più coriacei e meglio organizzati, la situazione cambierà di poco, grazie proprio all’avanzamento del nostro personaggio tali da renderci una vera e proprie ecatombe preistorica. Nel gioco è infine possibile addestrare animali, tra cui ben 3 bestie leggendarie particolarmente efficienti nel dispensare morte. Purtroppo però anche le bestie soffrono di quella “crasi” di cui si accennava al capitolo precedente specialmente quando si tenterà di cavalcare alcune di esse. Il sistema di controllo, malamente mutuato dal sistema di guida in prima persona degli episodi 3 e 4, si sposa malissimo con gli orsi o le tigri cavalcabili, risultando così goffo e impacciato da preferirsi il più lento muoversi a piedi. Volendo comunque soprassedere, il punto è che conquistate le prime bestie più temibili, come pantere, tigri ma anche solo i comunissimi lupi, cominceremo ad avere dalla nostra un alleato particolarmente utile per tenere in scacco gli avversari. Ciò, unito ad un altro utile alleato, il gufo, ci permetterà anche di mapparli dall’alto o persino di attaccarli con bombe volanti sin troppo efficaci.

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Insomma, arrivati alle fasi finali, in cui avremo fior fiori di armi e la bestia più rara e potente, i nemici – salvo rarissimi casi – si dimostreranno del tutto incapaci di ostacolarci, costituendo spesso un grattacapo di poco conto, solo occasionalmente ostico. Ne consegue, come intuirete, che la curva di difficoltà andrà progressivamente calando dalla metà del gioco in poi, lasciando al giocatore il solo gusto del viaggio e della scoperta in quella che è una mappa immensa e appagante e questo, nonostante tutto, è un peccato perché le prime ore di gioco, disseminate di pericoli e battute di caccia, trasformano Far Cry Primal in un open world con un certo gusto per la sopravvivenza, riuscendo a riprendere quello che era lo spirito dell’originale ed indimenticabile Far Cry. A questo punto vi ritroverete ad un bivio in cui da un lato ci sarà una delle atmosfere meglio riuscite degli ultimi anni sul panorama videoludico, dall’altro un gioco ancora ricco di avamposti, missioni ed eventi randomici, ma quasi del tutto privi del fascino e forse, per questo, più incline a mettere alla vostra attenzione tutti quei difetti che nelle prime ore avevate glissato e che ora vi sembreranno un tantinello più fastidiosi.