House of Gucci è già tra noi
Se vi diciamo «Father, Son and House of Gucci» e masticate un po’ la contemporaneità fatta di web e continuo bombardamento mediatico, beh, sapete già chi pronuncia queste parole, dove e quando lo fa. Ecco, per aggiungere una chiacchierata attorno all’ultimo film diretto dal pimpante 84enne Ridley Scott, vogliamo partire proprio da qui.
House of Gucci esisterà dal prossimo 16 dicembre sugli schermi del cinema, ma House of Gucci esiste nell’incessante e instancabile ciarlare collettivo già da diversi mesi. Sono bastati pochi ma azzeccati ingredienti: una Joanne Angelina Germanotta, in arte Lady Gaga, frontwoman di un progetto dalla giostra di interpreti eccezionale (Adam Driver! Jared Leto! Al Pacino! Jeremy Irons!), un succoso caso a metà tra cronaca nera e glamour sul quale basarsi, i primi character poster e soprattutto un trailer.
Cultura dell’hype o cultura da mattatoio?
«Father, Son and House of Gucci», croce della Patrizia Reggiani di Lady Gaga sul cuore e l’apparentemente inutile e sfrontato utilizzo di un inglese maccheronico mescolato a intercalari in italiano. La cultura dell’hype ha fatto il resto. Eh già, proprio quella lì, declinata forse in forme meno spaventosamente dogmatiche di quelle che hanno consumato, rosicchiato e spolpato ogni millimetro delle informazioni così sagacemente dosate, ad esempio, nell’anno e mezzo precedente al prossimo rilascio del più-che-atteso Spider-Man: No Way Home.
Siamo però in questi dintorni. Basti pensare alla maniacale pratica di squartare frame per frame i trailer, così come avviene in particolare con i prodotti di estrazione supereroistica, arrivata a far generare discussione sopra l’espresso (nel film lo chiamano così, «I need an espresso», non «I need a coffee») che la Patrizia Reggiani aka Lady Gaga scucchiaia vistosamente. Ma da questo cucchiaino goccia o no l’espresso? Ma l’espresso c’è davvero in quella tazzina?
Il primo ad arrivare è, come sempre, il crociato Twitter, poi a valanga il rilancio su qualsiasi altro social e dell’editoria online, che in qualche maniera deve pur trovare il modo di campare nell’epoca degli algoritmi. Una delle tante, nuove attitudini che a ben guardare sono solo un meccanismo di difesa nei confronti della sempre più soverchiante mole di contenuto che ogni giorno ci è proposta davanti agli occhi.
Nuove forme di show business e il meme-icona
Se le finestre di sfruttamento economico e poi di consumo a tutto tondo di un prodotto audiovisivo sono sempre più compresse nell’arco non più di settimane, non più di giorni, ma addirittura di ore, il generare la discussione a posteriori è uno sforzo quasi impossibile. Un film, oggi, ha l’80% di possibilità di nascere morto. Una cifra messa qui a caso, è vero, ma che rende provocatoriamente l’idea. Insomma, quanto mai ora è tutto in mano al marketing, alla capacità di incastonare nel prima la discussione non tanto in vista del dopo, quanto dell’adesso. La pubblicità è il nuovo show business.
Tutto questo per dire cosa? Che House of Gucci esiste, ed è esistito, già da diverso tempo nella sua forma più compiuta che è quella veicolata dall’hype sghignazzante, che non è traducibile affatto in attesa, bensì nell’hic et nunc della chiacchiera 2.0. Da questo punto di vista House of Gucci è un’operazione ineccepibile: intercetta alla perfezione tutte quelle incoerenze che da una parte suscitano sberleffo da popcorn, dall’altra indignazione di facciata nell’epoca dei social. Nel mezzo s’è già creata quella che è LA carta vincente e icona del contemporaneo: il meme. «Father, Son and House of Gucci».
E quindi chi se ne frega di tutto quello che arriva nel merito del film, del comprendere se sotto il funereo decadentismo nel quale Scott ammanta un continuo presagio di sventura ci sia un’anima più camp o più kitsch. «È chic!» ci tengono a ripetere più volte gli stessi personaggi, quasi ad anticipare furbescamente queste domande che si arrovellano in testa, ma alle quali tutte le più sagaci risposte sono bruciate alla radice da chi, divertito come lo sono da morire Al Pacino e Jeremy Irons, prende per i fondelli dall’altra parte.
Una grossa, grassa grottesca chimera
Chi se ne frega dicono Scott e i suoi collaboratori Becky Johnston e Roberto Bentivegna, i quali curano la sceneggiatura a partire dal libro omonimo di Sara Gay Foden, che cambiano a piacere l’ordine di diversi addendi della storia dell’omicidio di Maurizio Gucci. Cambiano, e di molto, gli anni, cambia quanti figli ha uno, cambia quante figlie ha un altro. Cambia il tono di una faccendaccia crudele, cambia la prospettiva oggettiva (ce ne può essere realmente una nel filtro del cinema?) che qua è tutta negli occhi di una Reggiani esuberante, vistosa e arrogante nel corpo di una Lady Gaga perfetta e affilatissima, seppur distante anni luce dalla compostezza scostante dell’originale.
“Who cares? Ciao!” direbbero dentro House of Gucci, che mescola e rimpasta ogni coordinata di senso a partire dal linguaggio che non vuole essere replica del reale, ma replicabile nell’autoalimentato brusio, nella rottura di ogni scala misurabile come nella geniale e irritante interpretazione di Jared Leto che capisce tutto di cosa diamine è House of Gucci: una grottesca chimera.
Ma i freaks show sono vecchi quant’è vecchia l’attrazione dell’umano per le cose strane, fuori posto ed esasperate, e Ridley Scott in queste storie oscure che arrivano dallo stivale ne coglie il piglio del morboso. Però, a differenza di Tutti i soldi del mondo, qui dell’orrido ne fa cantico caricaturale e gli occhi della donna da quale guarda riflettono il simbolo del dollaro, fanno già cassa in un’operazione che concettualmente è all’estremo opposto dell’ottimo The Last Duel, uscito qualche settimana fa e che in comune mantiene il sempre gigante Adam Driver.
House of Gucci è l’House of Freaks, declinata nell’era del circo mediale dove i saltimbanco muovono lo scacco a chi li guarda ancor prima di guardarli, fanno azzuffare, cannibalizzare e idolatrare ancor prima che il sipario si alzi. Sempre che alzarlo sia ancora la parte che interessi davvero.