Un articolo vietato ai minori
Leggiamo “favola” e pensiamo a un racconto per bambini. Certo, anche, ma – spesso e volentieri – non solo. Un esempio su tutti è Favola di New York di Victor LaValle, recentemente pubblicato in Italia da Fazi Editore. In questo libro (bello corposo) il titolo quasi disneyano trae in inganno.
La vicenda di Apollo Kagwe, le cui origini sono esplorate sin dall’incontro tra i suoi due genitori nella New York del 1968, ha – sì – dei momenti lieti, ma anche e soprattutto avvenimenti cupi, pericolosi e drammatici. Favolistico è il suo ruolo da eroe, favolistica la presenza e la scomparsa di figure-chiave della sua storia (dal padre, alla moglie, al consesso di streghe che irrompe nella seconda metà del romanzo), ma tremendamente reale, quasi cronachistico, sono il suo lutto, la sua rabbia e la sua voglia di giustizia.
Dalla favola LaValle mutua un’atmosfera illusoria dove ogni luogo e ogni personaggio nascondono un segreto. Squarciando il velo di Maya della pseudo-realtà, Apollo dovrà fare i conti con una città molto più reale, le cui radici affondano in un sottosuolo fantastico e minaccioso.
Il contesto in cui LaValle muove le sue pedine è tuttavia estremamente riconoscibile: abbiamo, per esempio, un uso narrativamente strutturale della tecnologia e dei mezzi di comunicazione (il nemico, manco a dirlo, si muove sui social network), oltre che una familiarità assoluta con il paesaggio urbano in cui la favola è ambientata. Favola di New York è un urban fantasy che rinnova il genere interrogandosi su come – ad esempio – lo smartphone può assolvere all’antico ruolo di bacchetta magica e come internet fa le veci di medium e veggenti.
A suo modo LaValle, però, è più favolistico – o, meglio, fiabesco – di tanta letteratura che da alcuni secoli a questa parte ha soppiantato lo scopo e lo stile primario della fiaba. Dalle atmosfere cupe dei fratelli Grimm ai racconti esemplari di Perrault, molte delle storie per bambini così come le conosciamo sono nate in realtà sotto tutt’altra stella. Ma procediamo con ordine.
La Favola di New York recupera le atmosfere dark della fiaba tradizionale
Infanticidio, abbandono di minori, maternità negata. Sembrerebbero temi degni della peggiore cronaca nera eppure sono (anche) le solide basi che hanno alimentato l’immaginario terroristico dei racconti per l’infanzia. Spesso si tende a dimenticare, infatti, l’obiettivo didattico ed educativo insito in queste fiabe: diversi secoli fa, quando la pedagogia era più un’intuizione empirica che una raffinata scienza sociale, l’arma più in voga per la formazione era la paura.
Prendiamo Hänsel e Gretel, i famosi fratellini dei Grimm. La loro storia, oltre a essere intrisa di tinte cringe e horror, ha le sue radici in tristi abitudini (altrettanto preoccupanti) diffuse nel medioevo, quindi circa ottocento anni prima della prima edizione della fiaba, risalente al 1812. Questo non ci deve stupire: il lavoro dei Grimm era di raccolta e di rielaborazione di racconti orali, che giravano nelle terre germaniche da secoli.
Detto questo, riflettiamo sul fatto che una delle fiabe più famose al mondo basa il suo impianto narrativo sull’abbandono volontario dei due ragazzini da parte di una matrigna spietata e di un padre ignavo. I due fratellini hanno la sola colpa di aver bisogno di mangiare: è per via della povertà della famiglia che sono allontanati e lasciati al loro destino (e questo era purtroppo molto diffuso nel medioevo). Una volta nel bosco, soli ed esposti ad ogni genere di pericolo, incappano in una strega antropofaga. Dalla padella alla brace.
Per difendersi i protagonisti sono costretti a uccidere la strega, macchiandosi così di omicidio (peccato mortale secondo il Cristianesimo, che nel Medioevo aveva sicuramente un certo peso). Dato che ormai la frittata era fatta, i due chiudono la loro avventura anche col furto del tesoro della vecchia morta: solo così, solo perché portatori di ricchezza, i bambini sono riaccolti in famiglia.
Si capirà bene che i toni e i contenuti di questo racconto erano piuttosto hardcore e avevano il preciso scopo di mettere a zittire ogni istinto di ribellione dei piccoli uditori: al di fuori del contesto domestico, privilegiato e protetto, tramavano nell’ombra pericoli inimmaginabili, per il loro corpo e per la loro anima.
Omicidi e violenza nelle favole per bambini
Se dei fratelli Grimm si conoscevano già le scelte un po’ truci, il ben più gentile Charles Perrault non è – in realtà – da meno. Una delle fiabe più celebri e allo stesso tempo più terrificanti dello scrittore francese è Barbablù, che riprende a sua volta una serie di leggende piuttosto diramata, che trova le sue origini in alcuni spunti storici. Per chi non lo sapesse, Barbablù era un uxoricida. Anzi, Barbablu era un uxoricida seriale e, dato che con ogni probabilità si sposava con lo scopo per uccidere le proprie mogli, era una specie di antesignano dei serial killer.
Dietro alla storia del terribile gentiluomo che squartava le proprie consorti c’è un fatto di cronaca antica, che ruota attorno alla condotta criminale di Gilles de Rais, barone, capitano dell’esercito e compagno d’arme niente di meno che di Giovanna D’Arco. Di lui si racconta non solo che avesse inclinazioni pedofile – ai danni di bambini provenienti da famiglie povere – ma che, una volta soddisfatto sessualmente, il nobile usasse ammazzare le sue vittime. Questa storia agghiacciante fu ripresa da Perrault che scelse di edulcorare la vicenda mettendo al posto dei minori, delle fanciulle. Bene ma non benissimo.
Anche in questo caso tutto il sangue e la paura instillata dal terribile orco antagonista era giustificata con l’intento educativo e, in particolare, col monito del non eccedere in curiosità, perché ficcare il naso nelle faccende altrui si sarebbe potuto rivelare fatale. What?
Tutte le varianti della fiaba, infatti, ruotano attorno al divieto imposto alla protagonista femminile (l’ultima moglie di Barbablù) di non aprire una porta del palazzo del neo-marito. Insomma, fai tutto quello che ti pare ma nei limiti consentiti, il che equivale a non essere liberi per niente. Quasi che le fanciulle sgozzate dal villain se lo fossero meritate, la punizione – decisamente eccessiva – del mostro ricade anche qui sul piccolo, terrorizzato, uditore che si guarderà bene dal disobbedire alla mamma, al papà, alla nonna e – se femmina – al futuro marito.
Un altro esempio, recentemente ripreso da molta opinione pubblica per via della sua prossima trasposizione cinematografica, è quello della Sirenetta di Hans Christian Andersen. A differenza della sua versione disneyana più famosa, la fiaba originale racconta, sì, della giovane e bella figlia del Re del Mare, ma anche della sua tristissima fine. Oltre alla scomparsa della protagonista – non una vera e propria morte, ma una specie di condanna nella condizione di spirito per un tot numero di anni – le storia si compone di altri dettagli truculenti.
La trasformazione della Sirenetta in umana, per esempio, non è del tutto indolore: ogni passo mosso con le sue gambe nuove di zecca avrebbe provocato in lei dei dolori lancinanti, come lame che le trafiggevano la carne. Anche qui il senso del sacrificio e la punizione della disobbedienza è centrale nel ruolo moralizzatore della storia: senza un po’ di sano terrore, che infanzia sarebbe?
E poi arrivò la Disney
Non deve stupire quanto le fiabe originali siano differenti dalle versioni che conosciamo. Ricordiamo, su tutti, che il lungometraggio di esordio di Walt Disney – Biancaneve e i sette nani – era a sua volta tratto da una celebre fiaba dei fratelli Grimm. Anche in questo caso il gusto della storia originale sta nei dettagli cringe e nel compiacimento del racconto di punizioni e disgrazie. Però, Disney e tutta la sua progenie si accorsero immediatamente che l’appendice horror delle fiabe non poteva sopravvivere nel passaggio allo schermo.
Nel tempo la Walt Disney Co. si è arrogata implicitamente il monopolio sull’immaginario fiabesco, dettando la linea su come le principesse, le streghe e gli animali del bosco dovessero essere raccontati alle nuove generazioni. Disney pensò bene che un media potente come il cinema dovesse assumersi una responsabilità nuova, quella di convertire il tono minatorio dei racconti per l’infanzia in un linguaggio conciliante. Il Guai a te se disobbedisci, divenne Con un po’ di zucchero la pillola va giù, l’omicidio punitivo si è trasformato nel più rassicurante E vissero tutti felici e contenti.
L’operazione Disney, oltre ad addolcire il messaggio e i toni originali di queste storie, congela definitivamente il flusso vitale in cui navigano le fiabe. Certo, già l’operazione di Perrault, dei Grimm e di Andersen cristallizzava i racconti orali in forma scritta, ma l’impatto culturale di questo passaggio non bloccò del tutto la libera interpretazione di chi usava i libri come spunto per rielaborazioni simultanee e personalizzate.
Un approccio del tutto nuovo e diverso sta invece nella visione passiva e unilaterale del prodotto audiovisivo: la Biancaneve del 1937, quella col fiocco rosso in testa, la voce cristallina e il gonnellone giallo è quella e resta quella e su questo non ci piove. La fiaba, nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, è immortalata: bella, immobile e inerme come la principessa sotto la teca di cristallo.