Il miracolo giapponese da cui tutto è cominciato e il lato oscuro di una crescita economica senza limiti
l dopoguerra per il Giappone ha significato, già nei decenni immediatamente successivi, una forte crescita economica dovuta innanzitutto a misure politiche e sociali prese sotto la guida degli Stati Uniti. Lo scioglimento delle zaibatsu, cioè le grandi compagnie finanziarie che reggevano l’economia nazionale, fu uno dei punti di partenza delle numerose riforme del programma del generale MacArthur cominciato nel 1945, volte a permettere la rinascita di un Paese decisamente provato dalla guerra.
Tale sviluppo economico fu conseguito, infatti, grazie innanzitutto a una nuova Costituzione che imponeva la totale rinuncia alla guerra, il che significava ridestinare risorse umane e materie prime (ora importate a prezzi più contenuti) ad altri settori come quello metallurgico, quello elettronico e quello dei trasporti.
È sempre in questo periodo che venne a crearsi quello stile di vita lavorativo che conosciamo e osserviamo ancora oggi, soprattutto quando si parla di grandi aziende come Sony, Mitsubishi o Fujitsu, che furono tra le prime a proporre prodotti innovativi come le VHS, telefoni cellulari e computer: la vita di un impiegato era ed è dedicata ancora oggi al lavoro e all’azienda, fatto che ovviamente determinò la formazione di una mentalità volta esclusivamente al profitto.
Il guadagno e l’evoluzione tecnologica furono tuttavia così disordinate e quasi incontrollate che negli anni ’70, dal punto di vista sociale e demografico, vennero infine alla luce problematiche di varia natura che costrinsero il Giappone a rallentare e ridefinire questa crescita: Tokyo in primis cominciò a diventare la metropoli che conosciamo oggi, con ben 8 milioni di abitanti che iniziavano ad ammassarsi in abitazioni sempre più piccole e grattacieli vertiginosi; l’inquinamento divenne tale da far emergere malattie respiratorie e altri disturbi che spinsero il governo a emanare leggi sul controllo dell’inquinamento con sanzioni applicate sia a fabbriche che privati.
Il tutto, ovviamente, non poté fare altro che creare divari sociali che avrebbero trovato rappresentazione in fenomeni di ribellione culturali giovanili divenuti quasi di culto in Giappone come all’estero, soprattutto grazie alle opere che ne mettevano in scena l’indole violenta, provocatoria e sovversiva.
Bōsōzoku, la “tribù fuori controllo”
L’influenza americana sul Giappone postbellico ebbe un impatto, paradossalmente, proprio su coloro che ne rimasero tagliati fuori a livello economico: i cosiddetti bōsōzoku erano uno dei primi fenomeni di ribellione venuto a crearsi in Giappone e consistevano in gruppi di giovani tra i 16 e i 20 anni, che rassomigliavano quella gioventù americana del dopoguerra dai capelli pieni di grease e pettinati alla pompadour e a cui erano accomunati dal sentimento di disillusione ed emarginazione. Portavano con sé armi improvvisate, guidavano motociclette roboanti e creavano scompiglio con le loro azioni violente, volte al rifiuto dello standard che si stava formando in quegli anni – che prevedeva la costante e dura soppressione del “chiodo che sporge” – e dell’abbandono dello spirito giapponese che invece era parte del pensiero comune nel precedente periodo Meiji (1868 – 1912) e durante il periodo ultranazionalista della Seconda guerra mondiale.
Segni di questa eredità morale così sentita da parte delle gang erano l’utilizzo della bandiera del Sol levante, sventolante dalle loro moto o raffigurata sulle uniformi – ispirate a quelle indossate dalle classi operaie e complete di stivali militari, fasce hachimaki e slogan stampati o ricamati – e la convinzione di essere i successori morali dei samurai prima e dei kamikaze poi, simbolo dell’antica forza di un Giappone ormai occupato. A fare il paio vi erano le loro moto, facilmente riconoscibili perché pesantemente modificate con schienali per il sedile, manubri rialzati, telaio dipinto e fari enormi.
Insomma era impossibile non notarli e non sapere cosa facessero, tanto che vennero rappresentati spesso come l’archetipo del teppista in diversi media: dal cinema con il film classico Crazy Thunder Road ai manga di Akira e GTO. Ambientazioni e intenti diversi ma pur sempre con un richiamo alla realtà di quei decenni caotici.
Sukeban, delinquenti in gonnella
Tra i fenomeni di ribellione più interessanti del Giappone di quegli anni si aggiunsero ben presto anche i gruppi di ragazze delinquenti, che venivano di fatto escluse dalle gang di cui sopra (probabilmente perché alcuni bōsōzoku diventavano anche membri della yakuza, all’interno della quale le donne sono praticamente assenti).
Anche queste ragazze provenivano dalla classe operaia e, consapevoli di avere un futuro prestabilito dalla società che le voleva rendere delle perfette office lady o mogli casalinghe, si davano alla piccola criminalità formando bande identificabili tanto quanto la loro controparte maschile: i capelli erano tinti e cotonati; le uniformi scolastiche venivano modificate con disegni o kanji, arrotolando le maniche, accorciando la blusa alla marinaretta della divisa e tenendo invece le gonne lunghe fino alla caviglia (in opposizione alla minigonna che si stava diffondendo come nuovo capo fashion); completavano questo look iconico delle sneakers, mascherine, sigarette e armi di fortuna come rasoi e catene.
Le cosiddette sukeban erano in realtà le leader (la parola, infatti, si può far corrispondere all’inglese girl boss) di questi gruppi ben organizzati secondo una gerarchia che non ammetteva tradimenti o mancanza di rispetto per gli altri membri, pena punizioni corporali più o meno severe.
Questo codice di onore, così come il loro aspetto e le loro scorribande, ispirarono un intero filone di film chiamato Pinky Violence: la Toei cavalcò subito l’onda producendo i film più famosi sul tema come Girl Boss Guerrilla o Terrifying Girls’ High School, nei quali compaiono attrici che fecero carriera proprio in questo genere di film, su tutte Reiko Ike e Miki Sugimoto; e come per i bōsōzoku col passare degli anni sono diventate un trope in anime e manga (senza poi dimenticare anche la comparsa in Occidente col personaggio di Gogo yubari in Kill Bill Vol. 1).
Cosa rimane di loro
Le attività di questi gruppi hanno subito un calo, scomparendo quasi del tutto, con l’evoluzione del Paese ormai sempre più globalizzato. Tuttavia si possono osservare nei decenni successivi ulteriori fenomeni culturali nati non tanto come forma di ribellione quanto per necessità provocate dal mutamento della società: un esempio potrebbe essere la pratica dell’enjo kōsai diffusasi soprattutto negli anni ‘90, ovvero ragazze che si facevano pagare da uomini più grandi per la loro compagnia e favori sessuali e che spesso appartenevano a buone famiglie.
In Giappone rimangono dunque poche tracce di questi fenomeni di ribellione, soprattutto se si parla di materiali originali (nonostante fosse nata addirittura una rivista dedicata alle sukeban!), che documentino la vita all’interno di queste gang. Di sicuro la memoria delle loro azioni e delle loro figure minacciose rimane ancora nell’immaginario di molti: a volte sono ancora rintracciabili sparuti gruppi che si ritrovano per le strade dei quartieri che gli hanno dato casa, come reliquie di un tempo in cui la “gioventù bruciata” aveva ancora le energie per esserlo liberamente e senza paura dei giudizi altrui.