Uno sguardo approfondito al curioso fenomeno VTuber
Uno degli esperimenti più fortunati dell’industria dell’intrattenimento nipponica dell’ultimo decennio, le vtuber – spiegheremo poi il perché del femminile – rappresentano una realtà in continua crescita, in grado di attirare milioni di iscritti sui propri canali e di smuovere miliardi di yen in investimenti e acquisizioni. Ma cosa e chi si cela dietro queste streamer dalle sembianze kawaii appassionate di videogiochi? Si tratta davvero di un divertimento senza vittime e rispettoso della privacy, quantomeno rispetto al business delle idol in carne e ossa? Come vedremo, anche il mondo delle vtuber non è privo di contraddizioni e presenta delle implicazioni sociali non indifferenti, così come altre espressioni della Cool Japan Policy.
La prima vtuber e l’effetto Video Girl Ai
Nonostante diverse compagnie giapponesi si fossero attivate già a partire dal 2010 per creare un avatar 3D della propria mascotte, lo scopo di queste creazioni era puramente promozionale o divulgativo: al di là del classico atteggiamento infantile e servile da maid, esse non possedevano infatti tratti caratteriali distintivi e si limitavano a illustrare i prodotti dell’azienda, senza contare che non disponevano di strumenti specifici per interfacciarsi in tempo reale con gli utenti e reagire così ai loro input.
A intuire le potenzialità di questa nuova forma di contatto col pubblico fu la Activ8 Inc., start-up specializzata in 3D modeling nata nel 2016 con lo scopo precipuo di creare una youtuber virtuale in grado di attirare la fascia d’utenza degli young adults e degli adolescenti maschi, alla disperata ricerca di qualcosa di diverso dalle solite gamer che spuntavano un po’ ovunque su YT.
Fu così che vide la luce Kizuna Ai, la prima vtuber – fu lei stessa a coniare il termine – della storia, le cui caratteristiche hanno poi stabilito i canoni del genere tutto, ragion per cui è nota anche col nomignolo di oyabun – il “padrino” all’interno della piramide yakuza. In primo luogo, nonostante qualche anno fa la seiyū che le presta la voce – i.e. Nozomi Kasuga – sia venuta allo scoperto, Kizuna mantiene una sua identità fittizia, priva di coordinate appartenenti al mondo reale: nel suo video di debutto, affermava infatti di essere una intelligenza artificiale creata in laboratorio, desiderosa di entrare in contatto con gli esseri umani e di conoscerne la quotidianità.
Questo primo aspetto, da cui dipende in larga parte la relazione affettiva sviluppata dai fan, genera una sorta di “effetto Video Girl Ai”, dal titolo del manga omonimo (1989-1992) di Masakazu Katsura. Per chi ricorda il fumetto o quantomeno lo OAV a cura della Production I.G., il collegamento sorgerà spontaneo: Yota, liceale un po’ imbranato, ha appena scoperto che Moemi, la ragazza dei suoi sogni, sta ora insieme al suo migliore amico. Per tirarsi su di morale, noleggia una videocassetta al Gokuraku, un videostore trovato per caso sulla via di casa: una volta premuto play, dal videoregistratore fuoriesce una vera ragazza di nome Ai, che si propone di aiutarlo nella sua conquista amorosa, non fosse che, a causa di un difetto di riproduzione, lei stessa inizia ad affezionarsi a Yota. Benché intralciato dalla pur genuina attrazione per Moemi e dall’esercente del Gokuraku – che vorrebbe rimediare al particolare “difetto” del suo prodotto –, il goffo protagonista non potrà fare a meno di innamorarsi di Ai, i cui giorni al di qua dello schermo sono comunque contati.
L’opera si può interpretare su molti livelli, primo fra tutti quello della parodia: il manga, così come l’anime, sono infatti punteggiati di gag spinte e pervasi dal sottile erotismo tipico di Katsura, sì da creare un felice contrasto con le premesse shōjo della narrazione, in chiara antitesi rispetto ad altri titoli coevi di successo come Piccoli problemi di cuore o Rossana, che di lì a poco avrebbero monopolizzato il mercato televisivo – spingendo gli autori più libertini o iconoclasti verso quello home video.
Tuttavia, un’altra interpretazione valida è quella dell’esemplificazione dell’alienazione del maschio giapponese dall’altro sesso: se infatti si tralascia il tono faceto con cui si descrivono le disavventure di Yota, Video Girl Ai altro non è che la storia di un ragazzo che, pur consapevole del carattere illusorio e transitorio della sua relazione – Ai scomparirà tra qualche mese, tempo che il nastro della cassetta arrivi al termine –, preferisce la sicurezza garantita da un rapporto filtrato e subordinato – Ai è stata materialmente presa a noleggio e scopo della sua esistenza è servire l’acquirente – alle incertezze derivanti da un rapporto diretto e paritetico con Moemi, per la quale non sussiste alcun vincolo contrattuale che la obblighi ad assecondare il suo corteggiatore.
In questo senso, Kizuna per prima e le altre vtuber dopo di lei paiono offrire il medesimo servizio della ragazza uscita dal videoregistratore, ovvero provvedere un rapporto “sintetico” con il genere femminile, plasmato nell’aspetto dalle indagini di mercato sulle preferenze maschili e le cui modalità e interazioni sono decise dall’iscritto/tipper a distanza di sicurezza. Mancasse questa componente, sarebbe difficile spiegare il successo di Kizuna Ai, tanto più alla luce della qualità dei contenuti: gli argomenti trattati nel suo canale, che spaziano dai problemi di cuore alle piccole sfide della vita quotidiana, non presentano infatti alcun valore aggiunto rispetto ai video dei tanti opinionisti del Tubo, ed è qui che il fattore distrazione dell’avatar e della voce della doppiatrice entrano in gioco.
In particolare, la questione dell’associazione dell’avatar di Kizuna a una – e una sola – specifica voce ha segnato uno spartiacque nell’industria delle vtuber, portando alla luce uno dei tabù impliciti nel processo di fidelizzazione degli utenti. Dal punto di vista legale, infatti, l’avatar di una vtuber appartiene all’azienda proprietaria del software con cui esso è stato creato, che ne detiene quindi anche la proprietà intellettuale: in linea teorica, un medesimo modello 3D potrebbe pertanto essere associato a più doppiatrici, in modo da massimizzare la presenza online e la registrazione di contenuti con una sorta di modello “a rotazione”.
Tale esperimento, messo in atto proprio dalla Activ8 Inc. nel 2019, ha portato a una vera e propria rivolta tra i fan, esponendo in prima persona la seiyū originale, vittima di doxxing a causa del suo presunto ritiro dall’industria, e causato un’emorragia di collaboratori dalla stessa azienda, sulla quale è venuto a gravare l’imperdonabile precedente di aver inficiato la “purezza” dell’illusione di Kizuna Ai. Da ciò, si può desumere il particolare patto con lo spettatore stretto dalle vtuber, ovvero che la sospensione di incredulità non supera comunque la soglia della dissociazione della personalità: insomma, ci si lascia andare ben volentieri all’illusione che la propria intrattenitrice digitale esista realmente, a patto che i confini della sua persona restino definiti nel tempo – in altre parole, senza svelare che a manovrarla è la fredda mano di una corporazione.
Il duopolio Nijisanji – HoloLive: questioni etiche e politiche
Nonostante Kizuna Ai rappresenti un caposaldo imprescindibile dell’universo vtuber e della sottocultura che vi gravita attorno, il panorama contemporaneo è di fatto dominato da due altre grandi società: la Nijisanji, guidata da Riku Tazumi – fondatore della start-up Ichikara da cui il business è partito nel 2017 –, e la HoloLive, presieduta da Tanigo Motoaki – già game developer per Sanrio e altre aziende, messosi in proprio nel 2016.
Benché le tecnologie impiegate per la creazione degli avatar siano leggermente diverse – in linea di massima, la Nijisanji tende ancora a utilizzare vtuber 2D, mentre la HoloLive rigorosamente 3D –, entrambe hanno lo stesso business model: sulla falsariga dei grandi gruppi di idol, ogni anno vengono effettuate delle audizioni per rimpolpare i ranghi, tanto più che nel settore le vtuber vengono suddivise per generazione. Complice la crescente popolarità di queste kawaii gamer anche tra chi non conosce il giapponese, sia Nijisanji che HoloLive hanno avuto occasione di espandersi con divisioni estere in Corea, Cina, India e Indonesia, le cui alterne fortune sono dipese dalla noncuranza con cui le streamer hanno interagito coi follower d’oltreoceano.
Il caso più recente e clamoroso – ne hanno parlato persino i quotidiani nazionali – è quello delle vtuber di casa HoloLive Akai Haato e Kiryu Coco, che a settembre dell’anno scorso, nell’atto di suddividere i follower di una diretta per paese, hanno “osato” definire Taiwan una nazione a sé stante, utilizzando anche la bandiera dell’isola indipendente: com’è noto, dagli anni Settanta anche il Giappone sottoscrive i principi alla base della One-China Policy, riconoscendo la Repubblica Popolare come unica legittima Cina – nonostante intrattenga comunque relazioni commerciali e culturali molto strette con Taiwan.
Incidenti di questo calibro – ricordate John Cena e la sua apologia in mandarino per Fast & Furious 9? – hanno solitamente una risonanza immediata, e così è stato: i video delle due streamer sono stati rimossi da Bilibili e, nonostante le pronte scuse del CEO Motoaki, la succursale cinese di HoloLive è stata chiusa con ordinanza governativa nel giro di un mese. Tale incidente diplomatico ha portato per la prima volta all’attenzione dell’opinione pubblica l’opportunità di lasciare campo libero alle vtuber in contesti extranazionali, dove vigono diverse concezioni di libertà di parola ed espressione, nonché differenze culturali non indifferenti – per esempio, la questione religiosa in Indonesia.
Oltre al quadro globale, bisogna inoltre considerare gli effetti a lungo termine che la professione di vtuber può avere sulla vita degli individui: si dice che la stessa Kiryu Coco, una delle streamer più sboccate e profonda conoscitrice della internet/meme culture, sia stata infine costretta a ritirarsi – come per le idol, si usa il termine sotsugyō, “[cerimonia di] diploma” – proprio a causa dello smacco subito in quella famosa diretta. Certo, la sua attività di streamer sul canale Kson OnAir – dove si mostra in carne e ossa o utilizzando un proprio avatar originale – continua, ma si trova ora esclusa dal ciclo di collaborazioni ufficiali – e di succulente mance – di cui beneficiano le vtuber di HoloLive.
Più in generale, sembra che queste grandi aziende non abbiano interesse a disporre vere tutele legali a sostegno delle proprie collaboratrici, come dimostra il caso di Mano Aloe, costretta al ritiro nell’autunno 2020 ad appena un mese dal debutto, a causa delle continue molestie dirette alla sua persona fisica – il suo indirizzo di casa e identità erano stati resi pubblici tramite doxxing – e alla sua famiglia. Di fatto, più che il benessere e l’integrità delle ragazze che si prestano a dar vita alle vtuber, a HoloLive e compari sembra importare la difesa del marchio, la cui immagine viene peraltro gestita con molta ipocrisia: basti pensare che, nonostante le dirette delle vtuber siano spesso ravvivate da doppisensi, shimoneta (battute sconce) e sessioni di disegno di genitali – Coco docet… –, la vtuber per adulti Projekt Melody, che di recente ha cercato di rivedere in parte i propri contenuti per renderli a prova di censura, è stata comunque ostracizzata dalla HoloLive, nonostante diverse dipendenti della stessa si fossero dette favorevoli a delle video-collaborazioni.
Già da questa breve analisi dell’universo vtuber, si intuisce come dietro il faccino innocente degli avatar e i let’s play demenziali si nasconda in realtà una macchina miliardaria, amministrata con un certo bigottismo – HoloLive è un’azienda “perbene”, e non si immischia con gli sporcaccioni – e conservatorismo, cresciuta forse al di là delle possibilità di controllo dell’authority giapponese e dei suoi amministratori, al punto da poter incrinare le relazioni diplomatiche con una superpotenza o dare origine all’ennesimo scandalo di stalking. Questi sono i problemi che sorgono quando una controcultura – come era quella degli anime e dei videogiochi – diventa cultura al servizio dell’establishment, la cui politica del Cool Japan si sta rivelando un ottimo investimento, a scapito di chi in patria si batte per un’immagine più veritiera e adulta del Giappone.