La retorica del male
C’era molta attesa attorno al nuovo film di Paolo Genovese. Perfetti Sconosciuti è stato un grandissimo successo, e gli ha permesso pertanto di osare e realizzare qualcosa di diverso, sulla falsariga del precedente lavoro ma più onirico e più estremo, forse troppo.
The Place è la solita opera corale, ricca di attori tra i quali spicca il protagonista assoluto Valerio Mastandrea, e poi Sabrina Ferilli, Marco Giallini, Silvia D’Amico, Silvio Muccino, Vittoria Puccini, Vinicio Marchioni, Alba Rohrwacher, Rocco Papaleo, Alessandro Borghi, Giulia Lazzarini. Tantissimi nomi illustri del cinema italiano, per un film che sarà accolto dalle sale a partire dal 9 novembre.
Ancora una volta quindi la coralità diviene il fulcro del lavoro di Genovese, che si serve di un cast gigantesco incastrandolo a fatica all’interno delle quattro mura di un’unica location, ovvero il bar The Place. Nomen omen, per un luogo nevralgico dove staziona l’onnipresente figura di Valerio Mastandrea, una sorta di divinità oscura che non si alza mai dalla sedia sulla quale resta dalla prima all’ultima sequenza, divenendo quasi uno strumento scenografico del film.
The Place è una pellicola molto particolare, ispirata alla serie TV americana The Booth at the End, da cui Genovese attinge ma opera una rivisitazione, eliminando ruoli troppi distanti dalla nostra cultura e aggiungendone altri. Per farvi capire qualcosa in più e farvi trovare preparati alla visione, possiamo dirvi che l’innominato personaggio di Mastandrea è una specie di messia oscuro, che pone drastiche soluzioni a problemi insormontabili.
Le persone che vanno da lui fanno una specie di patto col diavolo. Cosa saranno disposti a fare per raggiungere il proprio scopo? O meglio, TU cosa saresti disposto a fare?
Cambia il luogo e si inaspriscono le regole, quindi. Non siamo più intorno ad un tavolo durante una cena tra amici, dove il rischio più grande è far uscir fuori un adulterio o rompere un’amicizia. Qui i rapporti finiscono come effetto collaterale, e la morte altrui può divenire un tramite per raggiungere un risultato. I perfetti sconosciuti ora siamo noi stessi, in una sorta di indagine della psiche umana, dove Genovese vuole dimostrarci fino a che punto riesca a spingersi l’uomo, fino a quanto riesca a far uscire il proprio lato oscuro.
Una tribale meccanica del disprezzo che non porta da nessuna parte e non ci dice nulla di più che non sapessimo già su noi stessi, mettendoci di fronte ad un gioco al massacro di cui lo stesso giudice sembra non capirci più nulla.
Anche volendo soprassedere alla critica del genere umano, dobbiamo ammettere che il film in sé per sé, ci regala poco altro.
L’ambientazione unica, che tanto era piaciuta al nostro pubblico con I Perfetti Sconosciuti poteva lì funzionare grazie al dinamismo di un cast corale che però era coinvolto sempre attivamente e nella sua totalità, e per via di dialoghi divertenti e frizzanti che rappresentano l’essenza di opere di questo tipo. Il segreto di film di successo che vanno in questa direzione è sempre questo, e possiamo fare un esempio di altro livello scomodando Carnage di Polanski, il quale certamente ci scuserà.
Stavolta però abbiamo a che fare con dialoghi tête-à-tête presi uno dopo l’altro, che nonostante siano perfettamente incastrati dallo script di Genovese e Isabella Aguilar, per garantire un po’ di fluidità alla narrazione, subiscono sempre dei continui stop che finiscono per annoiare. Perché la ripetitività annoia.
L’ambizione del regista si è un po’ scontrata, stavolta, con una specie di senso di onnipotenza che ce lo fa paragonare al suo protagonista impersonato da Mastandrea: muove le fila di un racconto che si intreccia e prosegue, ma in fondo non sa nemmeno lui perché lo sta facendo e a cosa porterà.
Verdetto:
Dopo il successo di Perfetti Sconosciuti, Paolo Genovese torna alla regia con un’altra opera corale, infilando una quantità eccezionale di attori celebri all’interno di un unico luogo, il bar The Place, sola location in cui prendono corpo le vite problematiche dei personaggi.
L’ambizione del regista però si scontra stavolta con un senso di onnipotenza che ce lo fa paragonare al suo protagonista impersonato da Mastandrea: muove le fila di un racconto che si intreccia e prosegue, ma in fondo non sa nemmeno lui perché lo sta facendo e a cosa porterà.