Il Traditore di Marco Bellocchio – Recensione: un film diviso in due
Come spesso succede ai film di Marco Bellocchio (l’esempio più vicino, in ordine cronologico, è quello di Vincere), anche Il Traditore è un film diviso in due. La prima metà, quella che si concentra sull’attività criminale di Tommaso Buscetta, il mafioso che per primo rivelò i segreti di Cosa Nostra (organizzazione criminale della quale prima si ignorava finanche il nome), è la più rigorosa.
Bellocchio sembra giocare sul campo del gangster movie vecchio stampo, arrivando ad immaginare sequenze che non avrebbero sfigurato in un film anni ’80 di Brian De Palma. La seconda metà, quella che comincia nel momento in cui Buscetta viene arrestato, ovvero nel momento in cui tradizionalmente il gangster movie finisce, è invece quella più complessa e stratificata. Così Il Traditore si “chiude” nelle aule dei tribunali, finge di diventare un “court drama”, ma in realtà si trasforma in un veicolo perfetto per Bellocchio.
Il regista, scegliendo con cura le vicende da raccontare dalle migliaia di ore di trascrizioni processuali a disposizione, rende evidente la sua volontà di comunicare qualcosa di preciso allo spettatore attraverso le parole dello stesso Buscetta. Finge di riprendere asetticamente ciò che è realmente successo (molti dei dialoghi non sono stati modificati rispetto a quelli reali) ma in realtà compie, attraverso la sua insindacabile selezione del materiale, una netta scelta di campo. Affinché lo spettatore capisca ciò che il film vuole realmente dirgli, è però necessario che creda al Traditore del titolo e non ne metta in dubbio la verità. Bellocchio sceglie infatti di svelare l’ambiguità del suo protagonista solo sul finale, quando ormai tutto ciò che c’era da dire è stato ormai detto.
Un film meno bellocchiano degli altri
È chiaro che in un film molto meno “bellocchiano” dei precedenti, in cui lo spiccato lirismo del regista è messo a freno in favore di una maggiore fruibilità e linearità della narrazione, non sono tanto le soluzioni visive (spesso ugualmente brillanti) a catturare l’attenzione, quanto la prova attoriale di Pierfrancesco Favino.
Attraverso la sola modulazione della propria voce, Favino è in grado di suggerire sfumature di Buscetta che sarebbero altrimenti impossibile da cogliere. La maniera in cui cambia il suo tono di voce, il modo di porsi davanti ai propri interlocutori, ci fa immediatamente capire che idea lui abbia delle persone che gli stanno attorno in un determinato contesto. Per comunicare con la sua famiglia (costruita fuori dall’Italia) cambia persino lingua, mentre con i “picciotti” del suo paese parla in dialetto con una autorevolezza e con una convinzione che non emerge in altre situazioni. Se con il “Presidente” del maxiprocesso si pone in una maniera, davanti al giudice Falcone cambia completamente atteggiamento e modo di parlare, rivelando una stima nei confronti di chi lo sta interrogando tutt’altro che scontata.
Favino è un Traditore eccezionale
Favino è quindi bravissimo a rimarcare l’alterità del suo personaggio, a sottolineare la differenza che c’è fra lui e gli altri mafiosi. Fin da subito, a parole, il Traditore rimarca la propria diversità rispetto agli altri membri di Cosa Nostra, ma è solo grazie all’interpretazione di Favino che questa diversità riesce effettivamente a rendersi visibile. Il suo Buscetta non parla come gli altri picciotti, non si muove come loro e sembra addirittura provenire da un tempo diverso da quello in cui si svolge la narrazione (grazie al lavoro impeccabile effettuato sui costumi).
Pur indugiando troppo sulla reiterazione di alcune situazioni, Il Traditore è indubbiamente un film dalle grandi ambizioni, diretto con una padronanza del mezzo filmico che solo un veterano come Marco Bellocchio può avere. È proprio il suo sguardo sui fatti, l’inventiva con la quale sfrutta gli spazi a sua disposizione (come colloca i personaggi sulla scena e come li muove) e la capacità di porsi sempre obliquamente alle vicende che mette in scena, a fare la differenza.
A cura di Letizia Rogolino