C’è una ragione per cui oggi la distopia mette in scena sempre più spesso la battaglia tra le generazioni?
La distopia se la passa bene ultimamente, tanto che la sua appartenenza alla narrativa di genere viene messa in discussione ed è stata quasi assorbita dal mainstream. Ma vuoi perché le generazioni e le sensibilità passano, vuoi perché i topoi ricorrenti cent’anni fa ormai si sono realizzati, anche la distopia sta cambiando assetto. E se una volta il nemico era il potere oppressivo, oggi sempre più spesso i protagonisti si trovano a scontrarsi con un avversario molto peggiore: i loro genitori.
Quando i bambini erano i nemici
Un tempo c’erano poche cose soddisfacenti come il sano orrore di un bambino diabolico, o per lo meno cattivello. La cinematografia degli anni Sessanta-Settanta offre tanti esempi iconici, da Il villaggio dei dannati a L’esorcista, in molti casi basati su romanzi più o meno contemporanei. Oltre a I figli dell’invasione di John Wyndham, in cui i bambini nati dalla presunta inseminazione aliena sovvertono l’ordine della città di Midwich, e il classico Il signore delle mosche, dove i ragazzini sopravvissuti a un naufragio instaurano una società feroce, sono molti gli esempi in cui sembra che il ruolo di bussola morale degli adulti costituisca un elemento fondamentale della crescita dei piccoli, che privati di queste figure di riferimento rischiano di avviarsi alle più indicibili perversioni.
Molte di queste storie sono state appunto pensate e scritte in un’epoca in cui il mondo si stava riprendendo da qualche decennio di guerra, e in cui gli equilibri internazionali erano fortemente alterati rispetto al passato. Era quindi naturale che si affermasse l’idea di una guida sicura e affidabile, un modello di saggezza che forte dall’esperienza accumulata in un periodo di traumi sapesse prendere per mano i giovani e condurli sulla giusta strada. In pieno boom economico era scontato ritenere che chi veniva dopo avesse bisogno di essere avviato verso l’inevitabile successo seguendo gli stessi paradigmi che avevano permesso di raggiungere un tale livello di benessere e sviluppo.
Nello spazio di un paio di generazioni, dagli hippies agli yuppies, tutti ne hanno beneficiato. Ma poi qualcosa deve essersi incrinato. Quel paradigma ha mostrato segni di cedimento, e qualcuno ha iniziato a dubitare della lezione impartita dai genitori. E anche la narrativa ne ha risentito, in particolar modo quella che si occupa proprio di mostrare le possibili perversioni evolutive della società.
Generazioni vittime e generazioni carnefici nella distopia
A partire dagli anni Novanta, si è andato affermando un nuovo sottogenere nella narrativa fantastica: quello della distopia young adult. Difficile tracciarne un percorso preciso, perché naturalmente ci sono sia precursori che code lunghe, ma si potrebbe azzardare a dire che uno dei punti di partenza di questa evoluzione sia Battle Royale, il romanzo del giapponese Koushun Takami in cui gli adolescenti di una classe estratta a caso sono obbligati a scontrarsi a morte tra di loro, con il solo obiettivo di mantenere l’ordine e il controllo sulle nuove generazioni.
Non serve raccontare come a distanza di qualche anno la saga di Hunger Games abbia attinto a piene mani a questa tematica, e con essa molte delle serie nate e promosse sull’onda del successo di questa, non sempre con gli stessi risultati: da Maze Runner a The Giver e Divergent, in tutte si assiste a una società fortemente discriminatoria, in cui i ragazzi sono obbligati a piegarsi a leggi che impongono una sottomissione cieca e dogmatica. Le generazioni precedenti, forti del potere acquisito, non si fanno scrupoli a schiacciare e sfruttare fino al limite le generazioni successive, e sono spesso padri e madri, incapaci di ragionare al di fuori degli schemi in cui sono cresciuti, a promuovere la sottomissione dei loro stessi figli.
Il tema dello scontro generazionale non è certo appannaggio della sola distopia, se ne trovano numerose istanze anche in generi diversi. Si può citare ad esempio la serie di Queste oscure materie di Philip Pullman, dove il Magisterium viene messo in pericolo dalla giovane Lyra, che nel corso della sua avventura dovrà affrontare anche i suoi genitori. Ne Il gioco di Ender i bambini sono sottoposti a un addestramento militare rigidissimo, e costretti poi a partecipare in simulazioni di battaglia fin troppo realistiche. In La ragazza che sapeva troppo, ragazzi forse non del tutto umani, ma pur sempre ingenui e innocenti, sono detenuti e sottoposti a esperimenti come bestie da macello. Little Brother di Cory Doctorow racconta di giovani hacker coraggiosi che combattono contro il regime instaurato dagli adulti.
Anche nel recente Cavie, romanzo di Liliana Marchesi pubblicato da La Corte Editore, si assiste a una dinamica simile. La protagonista Cora si risveglia in un laboratorio senza ricordi del suo passato, ed è costretta a ricostruire da sola ciò che l’ha portata in quella situazione. Nel corso del libro emergono gradualmente i dettagli della sua storia, e il suo legame a un genitore che non si è posto scrupoli a usare la propria figlia per i suoi scopi più abietti.
La distopia di oggi: millennials contro boomers
Di racconti di conflitti tra padri e figli è piena la storia, da Edipo a Luke Skywalker, e sarebbe forzato affermare che si tratti di una tendenza recente. Ma mentre l’incontro/scontro con i genitori da sempre è un elemento cardine delle storie di formazione, poiché non rappresenta altro che la crescita personale e l’affermazione della propria individualità, quello che sembra nuovo è la sovrapposizione sempre più frequente tra questo tema e quello della distopia, in particolar modo nel filone dello young adult. Può esserci una ragione di fondo per questa tendenza?
Come si è detto, il fenomeno sembra abbastanza recente, e se si considera che la narrativa young adult è diretta, per definizione, a un pubblico di preadolescenti e ragazzi, non è difficile fare il calcolo di quando è avvenuto questo cambiamento: il passaggio tra la generazione dei baby boomers a quella dei millennials. In effetti, mai come in questo caso sembra che la frattura tra generazioni successive sia così profonda, forse soprattutto per due fattori chiave: il divario dovuto alla diffusione di Internet, che i millennials hanno conosciuto fin dall’inizio mentre è stato “scoperto” dai boomers solo con l’avvento dei social sempre disponibili sugli smartphone; e l’ormai inarrestabile impoverimento della nuova generazione, la prima che dal dopoguerra si è ritrovata più povera delle precedenti e ha dovuto confrontarsi con un mondo che non offriva più quelle certezze su cui si era basata la vita dei genitori: lavoro stabile, casa di proprietà, pensione assicurata. La fine di un paradigma.
In questo contesto si può quindi immaginare come le nuove generazioni abbiano immaginato distopie in cui il nemico non era più un impersonale governo repressivo, ma qualcuno di molto più vicino e dal volto familiare: quello di tuo padre. La stessa contrapposizione è quella che sta emergendo ultimamente nei movimenti che manifestano per il cambiamento climatico, formati ormai non tanto da millennials ma già dalle due generazioni successive, che ancora più dei primi reclamano il diritto a vivere in un mondo diverso, più pulito e più libero.
Leggere una distopia è come osservare una cellula al microscopio: i meccanismi intrinsechi della società vengono resi visibili e ingigantiti fino a diventare mostruosi, così da permetterci di capirne meglio il funzionamento e di conseguenza le possibili disfunzioni. Così, se uno dei problemi della società attuale è il disequilbrio tra le generazioni, ecco che la distopia lo estremizza rendendo l’immagine di padri cattivi che tormentano figli sprovveduti. La diffusione di storie del genere non va interpretata come un atto di accusa verso le generazioni anziane, ma come un sintomo, l’indizio di un malessere che rischia di peggiorare. Servirà poi che qualcuno si occupi di formulare una diagnosi, e magari, prima che sia troppo tardi, pensare a una cura.