Trent’anni di Fire Emblem, trent’anni di JRPG tattici
Per la maggior parte dell’utenza occidentale, Fire Emblem è un fenomeno relativamente recente: la serie, infatti, ha raggiunto un’autentica notorietà solo nel 2013, con la pubblicazione in Nord America e in Europa di Awakening, tredicesimo episodio. In realtà, proprio nel 2020 il capostipite della serie, quel Fire Emblem: Shadow Dragon & the Blade of Light recentemente pubblicato su eShop, ha spento la sua trentesima candelina.
Oggi ripercorreremo succintamente la storia di Fire Emblem, una delle pietre angolari del genere dei JRPG tattici.
Com’è noto, si suole tripartire il genere JRPG in tre sotto-categorie: quelli classici a turni, gli action e i tattici, da qualcuno chiamati anche strategici, com’è uso in Giappone. Il genere (o sotto-genere che dir si voglia) dei tattici conosce due principali declinazioni, posizionale e custom, a seconda dell’enfasi posta sui diversi elementi del battle system: nei tattici posizionali, come suggerisce il nome, l’elemento tattico più importante risiede nel posizionamento delle unità, mentre nei tattici custom vi è un maggior focus sulle abilità dei personaggi e sulla possibilità per il giocatore di sceglierle. Sul piano cronologico, i posizionali precedono i custom, costituendo una derivazione pressoché diretta degli wargame tattici; la diffusione dei custom può invece esser fatta risalire a Tactics Ogre: Let Us Cling Together (1995) e al successore Final Fantasy Tactics (1997).
Fire Emblem: la nascita di un mito
Fire Emblem è stato uno dei più celebri esponenti del tattico posizionale, e lo è ancora, nonostante la crescente apertura nei confronti delle meccaniche custom – decisamente più “trendy” negli ultimi vent’anni – a partire da Awakening. Uscito su NES nell’aprile del 1990, Shadow Dragon & the Blade of Light può dirsi iniziatore del genere dei JRPG tattici a scacchiera, anche se ovviamente ha preso spunto da vari titoli che l’hanno preceduto nel magmatico sottobosco ruolistico giapponese degli anni Ottanta, fra cui Famicom Wars (1988) proprio di Intelligent Systems, progenitore di Advance Wars.
In Shadow Dragon ritroviamo quasi tutte le caratteristiche che la saga ha mantenuto pressoché inalterate fino al succitato Awakening, dal setting medieval high fantasy al permadeath, consistente nella morte permanente dei personaggi in battaglia, salvo che per motivi di trama debbano sopravvivere. Fu il capostipite della saga di Akaneia (nome del continente in cui è ambientata), costituita dai primi tre Fire Emblem, rifatti in epoca più recente su Nintendo DS e 3DS: Shadow Dragon è, appunto, il remake del primo capitolo, New Mystery of the Emblem (purtroppo inedito in Occidente) è il remake del secondo Book del terzo capitolo (il primo Book era il remake su SNES di Fire Emblem 1) e, infine, Fire Emblem Echoes: Shadows of Valentia per 3DS è il remake del secondo episodio. Il protagonista delle vicende di Akaneia è Marth, che divenne noto in tutto il mondo ben prima della sua saga grazie all’inclusione nel roster di Super Smash Bros. Melee per GameCube.
La seconda saga fu quella di Jugdral, l’unica ad oggi totalmente inedita in Occidente. Si compone di Fire Emblem 4 (Seisen no Keifu) e del suo spin-off Thracia 776, usciti entrambi nell’epoca tarda di SNES. Seisen no Keifu, pubblicato nel 1996, fu un gioco clamoroso, quindi è un peccato che non vi sia un modo ufficiale per giocarci almeno in inglese. Introdusse il sistema “triangolare” delle armi (spada>ascia>lancia>spada), ancora utilizzato, le meccaniche matrimoniali – recuperate con grande successo dai Fire Emblem più recenti, che però non raggiungono la stessa eleganza sul piano narrativo, né la stessa complessità su quello ludico – e le skill: d’altro canto, i tempi erano maturi, considerato che Tactics Ogre era uscito l’anno precedente. La serie restò comunque saldamente ancorata alle proprie radici posizionali: le abilità svolgono un ruolo ancillare nel gameplay, e non consistono in attacchi speciali, ma in bonus sporadici che si attivano casualmente.
Ma la cosa veramente clamorosa era la mappa di gioco: Seisen no Keifu, in questo, mostrò chiaramente la derivazione dagli wargame. Le missioni sono solo dodici, ma durano ore, articolandosi in mappe enormi, che possono corrispondere al territorio di un’intera nazione, ricolme di obiettivi e boss. Il giocatore inizia con un castello e deve conquistarne diversi in ogni capitolo senza perdere il suo. All’interno dei castelli alleati si possono fare acquisti, riparazioni alle armi, combattimenti nell’arena e altre utili operazioni.
Thracia 776 uscì addirittura nel 1999, sicché la serie alla fine saltò la generazione 32 bit: Fire Emblem 64, annunciato ufficialmente nel 1998, fu cancellato nel 2000, dopo il fallimento di Nintendo 64 DD (costoso add-on per cartucce da 64MB), e Shouzou Kaga, creatore della serie, abbandonò Intelligent Systems. Kaga fondò un proprio studio di sviluppo (Tirnanog) e realizzò due TearRing Saga nei primi anni Duemila, i giochi più simili a Fire Emblem che possiate trovare su console Sony; addirittura, avrebbero dovuto chiamarsi Emblem Saga, ma Nintendo non era molto d’accordo…
Intelligent Systems, invece, ripartì dalle macerie di Fire Emblem 64 trasformandole nel sesto capitolo della serie, The Binding Blade, iniziatore di una nuova saga, ambientata nel continente di Elibe. Rappresentò il debutto della serie su handheld, che negli anni a seguire ne diventò la sede prediletta, fino alla reductio ad unum operata da Switch. Il protagonista è Roy, apparso assieme a Marth in Super Smash Bros. Melee: proprio questa “comparsata” stimolò la curiosità dei fan di Nintendo europei e americani, e così la Grande N decise di realizzare per la prima volta un episodio che fosse diretto anche all’utenza occidentale: uscito con il semplice nome di Fire Emblem su GameBoy Advance nel 2004, il gioco era un prequel di The Binding Blade. Il buon riscontro di pubblico portò alla pubblicazione di un terzo titolo per GBA, The Sacred Stones, unico esponente della saga di Magvel e primo episodio della serie a consentire la pratica del grindind.
Ma non solo: contemporaneamente Intelligent Systems stava sviluppando un capitolo decisamente più ambizioso, che segnò il ritorno della serie su home console. Fire Emblem: Path of Radiance, uscito su GameCube nel 2005, fu il primo Fire Emblem tridimensionale – dotato per giunta di cutscene e doppiaggio – e, a mio modesto parere, forma, assieme al sequel Radiant Dawn (pubblicato su Wii nel 2007, 2008 in Europa), la miglior saga giunta in Occidente, stante, come abbiamo visto, la “latitanza” della saga di Jugdral.
A far brillare la saga di Tellius non fu certo il passaggio alle tre dimensioni, non particolarmente incisivo in un JRPG tattico, né particolarmente felice su un piano tecnico; i pregi sono riconducibili a un pressoché perfetto connubio fra gameplay e trama. Sul primo versante, Path of Radiance e Radiant Dawn costituiscono una summa di quanto di meglio avesse offerto la serie fino a quel momento, modernizzando pure in alcuni casi, senza peraltro rivelarsi “rivoluzionario” come Seisen no Keifu. A titolo di esempio: come detto sopra, The Sacred Stones aveva aperto al grinding; Path of Radiance non lo prevede, ma compensa con l’esperienza bonus, in modo da non rendere disagevole l’allenamento di unità underleveled ma promettenti. Tornano anche le skill, anche se con accorgimenti diversi.
Sul piano narrativo, le consuete tematiche, con un particolare focus sulla guerra, le strategie militari e le alleanze, vengono trattate da un diverso angolo visuale: il protagonista, infatti, non è un nobile come di consueto, ma un “mero” mercenario. Il continente di Tellius, poi, si caratterizza per la contrapposizione fra beorc (umani) e laguz (uomini-bestia, a loro volta suddivisi in varie specie e tribù), introducendo una tematica razziale ben integrata nel comparto narrativo. La coesione fra Path of Radiance e Radiant Dawn è pressoché totale, a tal punto da poterli considerare un’unica mastodontica pietra miliare del JRPG tattico.
Ciononostante, sfortunatamente la saga di Tellius si rivelò un insuccesso commerciale, che spinse Nintendo a ridimensionare fortemente il brand: i successivi due giochi tornarono su handheld (questa volta DS) e si rivelarono remake (ne abbiamo già accennato parlando della saga di Akaneia) non troppo ambiziosi; il pubblico non li accolse con lo stesso entusiasmo che accompagnò il trittico per GBA, addirittura Nintendo decise di non localizzare New Mystery of the Emblem (Fire Emblem 12). E così, all’alba della successiva decade, Intelligent Systems si trovò a un punto cruciale: Nintendo decise che un Fire Emblem 13 ci sarebbe stato, ma che avrebbe potuto anche essere l’ultimo, nel caso in cui le vendite non avessero superato le 250000 copie.
Sappiamo già come andarono le cose: Awakening (2012/2013) si rivelò un successo planetario, capace di piazzare (quasi tutte) quelle 250000 unità nella sola settimana di lancio, nel solo Giappone (adesso siamo abbondantemente sopra i due milioni). All’epoca, il Fire Emblem più venduto non era divenuto nemmeno million seller, per cui si trattò di una vittoria clamorosa per Intelligent Systems e Nintendo. Tale risultato è stato raggiunto grazie all’ottima campagna pubblicitaria, ma non solo: in Awakening è evidente lo sforzo – andato senz’altro a buon fine – di rendere più “pop” la serie, proprio come aveva fatto Atlus pochi anni prima con Persona 3.
Ed ecco che Awakening, pur conservando o recuperando molte meccaniche tradizionali della serie, in parte la snatura, rendendo il gioco molto più accessibile per i neofiti: oltre al livello di difficoltà più basso, il permadeath è divenuto opzionale ed è stata inserita la possibilità di grindare in maniera pressoché illimitata. In punto gameplay, invece, va osservata la rinnovata enfasi posta sulle abilità e sul “riclassamento” delle unità, senza peraltro raggiungere i livelli dei tattici puramente custom.
I capitoli che hanno seguito Awakening (mi riferisco a Fates e Three Houses, dal momento che Shadow of Valentia, come già detto, è un remake) hanno proseguito su questa strada, raccogliendo i consensi di pubblico e di critica, quindi possiamo dire che l’operazione di Intelligent Systems e di Nintendo è perfettamente riuscita. La serie ha indubbiamente perso qualcosa, soprattutto in termini di scrittura e setting, sacrificato sull’altare della popolarità; tuttavia, fra avere un Fire Emblem che “ha perso qualcosa” e non aver alcun Fire Emblem, direi che è senz’altro preferibile la prima opzione, quindi, ancora una volta, “viviamo nel migliore dei mondi possibili”.