Foxcatcher Recensione: amicizia e riscatto sociale nel film di Bennet Miller
Di recente il cinema americano ci ha abituato al racconto di storie, vere o plausibili, di lottatori e del loro percorso sia professionale che interiore. Alcune di queste sono state avvincenti, altre un po’ troppo leziose e legate in maniera esasperata ad uno dei due aspetti; molto spesso ha prevalso quello professionale, quello della lotta più bieca e delle emozioni scatenanti o scatenate. Foxcatcher se va invece per conto suo, si distanzia dal tema del wrestling, lo immagina come una semplice cornice e non ci fa vedere sangue scorrere a fiumi, né slow-motion di guance che si affossano per un pugno, o labbra piegarsi e denti saltare.
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Si culla invece in un’atmosfera grigia come i colori che gli fanno da sfondo, in una dimensione inverosimile ma reale, praticamente l’esatto contrario del volto di Steve Carrell. Il vuoto dei silenzi colma una sceneggiatura volutamente piena di attesa, di continue interruzioni al flusso narrativo, così frequenti da costituirne però un leitmotiv capace di dare al film la forma di un prodotto pesante ma digeribile. Sono proprio quei numerosi attimi di mutismo a squarciare l’anima dei personaggi. Ci mettono in luce la figura di Channing Tatum, che regala al pubblico una grande interpretazione fatta di espressioni, di gesti ed in grado di dare un’introspezione del suo Mark Schultz perfino con il fisico, grosso ed impacciato come quello di uno scimpanzé. Uno di quelli buoni, chiuso nella gabbia di un mondo in cui vorrebbe stare ma alle sue regole, e non quelle imposte da un magnate padrone come John Du Pont. E’ soprattutto quest’ultimo, con il suo viso costruito e posticcio, a dare un senso all’opera di Bennett Miller. Performance da Oscar per Steve Carrell, che esalta il contrasto interno vissuto dal suo personaggio, un uomo ricco ma profondamente insoddisfatto e frustrato, che ha la necessità di trovare un gioco in cui possa essere lui a comandare.
John Du Pont e Mark Schultz sono così diversi quanto simili; diversi poiché provenienti da due mondi agli antipodi, simili perché vittime della voglia di un riscatto sociale. Il primo ha l’ossessione di mettersi in mostra di fronte alla madre, mostrarle quanto sia stato sottovalutato e lo fa cercando di paragonarsi all’aquila americana, volando in alto fino a toccare l’Oro con la propria mente e con mani altrui. Il secondo è schiacciato dalla fama di un fratello più grande, e vive con la voglia di mostrare al mondo e a sé stesso che può essere lui lo Schultz che conta. Due personalità così incompatibili vengono accomunate pertanto dalla brama di rivalsa e successo, e si avvicinano al punto da generare un rapporto di amicizia quasi patologico. Tale fortuita compatibilità però si mostra ben presto per ciò che è, una mera illusione ed una fiamma destinata a spegnersi non per via del tempo ma per l’impeto di un vento glaciale: la freddezza di sentimenti di John Du Pont. L’ “Aquila Dorata” è qui il simbolo dell’America classista e potente oltre ogni principio etico, che cura i propri interessi senza calcolare gli effetti collaterali, né badare a chi fa parte del gioco da loro ideato. Gli spettatori di un incontro di wrestling urlano con i paraocchi invocando il nome della sua nazione, ma non quello di chi lotta indossando una divisa o una tuta con la scritta USA. Tutto sommato è un po’ ciò che avviene a Dave Schultz, ben interpretato da Mark Ruffalo, che come il pubblico americano si convince che i valori in cui crede possano essere realmente portati avanti nonostante gli evidenti interessi di un magnate che si erge ad icona nazionale.