La Saga di Fenice Nera (Dark Phoenix), il fumetto Marvel che ha ridefinito gli X-Men
Il fumetto di Fenice Nera (anche detto oltreoceano The Dark Phoenix Saga) è forse una delle saghe più famose della storia, tant’è che si sente spesso parlare di un prima e un dopo non solo nella Marvel, bensì nei comics in generale. Si tratta, ovviamente, di una tendenza tipica della critica, che accomuna letteratura, cinema e musica, con cui ogni volta si cerca di intestare ad un’opera lo status di spartiacque per facilitare la comprensione della sua portata rivoluzionaria. È, in poche parole, un modo per capire.
Spesso posticcio e raffazzonato, senza dubbio, eppure ha il merito in alcuni casi di intercettare davvero quella che è la sensazione del pubblico. Perché, in effetti, non solo per i lettori di allora ma anche per quelli che sono seguiti, sembra davvero che Fenice Nera abbia segnato un’epoca.
Ovviamente, non è così: Dark Phoenix non salta fuori come un fulmine a ciel sereno, è il prodotto di un periodo molto preciso, la sua continuazione e, per certi versi, la sua fragorosa fine. È una saga che ha definitivamente consacrato due dei più grandi narratori mai esistiti, Chris Claremont e John Byrne, che ha ridefinito lo standard della figura del supereroe, proponendo una nuova forma di conflittualità a metà tra l’uomo e il divino, e che ha, come ultimo merito, quello di aver inaugurato l’epoca d’oro dei Mutanti di casa Marvel.
Dopo il fumetto di Fenice Nera, gli X-Men divennero i paladini più seguiti d’America e dominarono per anni l’immaginario collettivo di milioni di persone. Perché (questo sì che da l’impressione di uno spartiacque) c’è stato un tempo in cui gli X-Men erano l’ultima e la meno famosa cerchia della Marvel. Ed è da lì che dobbiamo cominciare per analizzare la portata di questa saga.
X-Men, nati per essere diversi
Dicevamo, prima del fumetto di Fenice Nera c’è stata un’epoca in cui non solo gli X-Men erano praticamente sconosciuti ma erano anche un perenne grattacapo per il suo editore. Eppure, anche loro facevano parte delle meravigliose invenzioni di Stan Lee e Jack Kirby, agli albori della Silver Age. Erano infatti nati ufficialmente nel 1963, al termine dei due anni concitatissimi che avevano visto debuttare i Fantastici Quattro, Hulk, Iron Man, Thor, Spider-Man, Daredevil e gli Avengers, le fondamenta dell’Universo Marvel come lo conosciamo oggi.
I Mutanti, non a caso, nacquero dalla stessa intuizione che Il Sorridente aveva seguito per dare vita ai suoi personaggi, ovvero sfruttare i supereroi come metafora degli aspetti più contraddittori della società. C’era una famiglia disfunzionale e originalissima, un giovane impacciato e pieno di problemi, uno scienziato affetto da disturbo della personalità e persino un disabile.
Mancava un qualcosa che mettesse, su carta, i problemi delle minoranze e delle discriminazioni. Quel qualcosa erano, appunto, gli X-Men.
La trovata è, come tutte le altre, geniale e semplice al tempo stesso: un gruppo di character che possiede straordinarie abilità fin dalla nascita. Non più super diventati tali in seguito ad improbabili viaggi nello spazio, raggi gamma e morsi di ragno, bensì persone comuni nate con capacità inimmaginabili. Questo consente agli X-Men di essere subito diversi, in tutti i sensi, sia rispetto agli altri eroi Marvel che agli umani, da cui vengono temuti ed ostracizzati.
Inoltre, col fatto che i Mutanti sono giovani e si trovano a dover controllare poteri che non capiscono, diventano anche un’efficace metafora della crescita, del passaggio dell’adolescenza alla vita adulta. Stan Lee e Jack Kirby, a dirla tutta, non sfruttano fin da subito queste possibilità – forse perché oberati dagli impegni – e si limitano a far percorrere al nuovo gruppo il solito percorso dell’epoca, quello del nemico del mese e delle avventure estemporanee.
Esordiscono, dicevamo, nel 1963 con un albo ormai storico dotato di uno strillo su cui c’è scritto “Gli eroi più strani di tutti!”. E questi eroi “strani” sono Charles Xavier, il Professor X e leader della squadra, seguito da l’Uomo Ghiaccio (Bobby Drake), Bestia (Hank McCoy), Angelo (Warren Worthington III), Ciclope (Scott Summers) e Marvel Girl (Jean Grey), la futura Fenice.
Risorgere dalle ceneri, come una Fenice
La serie, in realtà, ha ben poco successo, nonostante il titolo d’impatto: The X-Men, voluto dall’allora editore Martin Goodman che aveva bocciato la prima proposta di Lee (The Mutants), ulteriore prova che i fumetti hanno tanti padri differenti. Purtroppo non basta a garantire loro una stabilità e gli X-Men si trascinano stancamente fino alla fine degli anni ’60, con vendite altalenanti, nonostante l’interesse intorno ad alcuni personaggi che fanno spesso capolino in altre testate. I ragazzi di Xavier chiudono ufficialmente i battenti col numero 66 del 1969, ma non spariscono dalle edicole perché la Marvel decide di ristamparne le storie.
E proprio i buoni risultati delle ristampe aprono le porte ad un’insolita operazione di marketing, destinata ad avere degli effetti imprevedibili.
Siamo nell’estate del 1975 e arriva agli occhi degli appassionati un albo speciale intitolato Giant-Size X-Men 1, che si propone di riportare in vita il gruppo dei Mutanti, con delle interessanti new entry. Si tratta di un albo dalla foliazione imponente (68 pagine) la cui storia principale, Seconda Genesi, è scritta da Len Wein e disegnata Dave Cokrum, due autori navigati coinvolti dalla Marvel in un particolare progetto.
Roy Thomas (l’autore dell’Endgame originale), è infatti all’epoca il direttore della Casa delle Idee e decide di sfruttare i Mutanti per esportare i comics oltreconfine. Infatti, vuole che venga creato un nuovo supergruppo con dei membri composti da eroi di origine straniera, cosa a cui gli X-Men si prestano molto bene per la natura delle loro storie. Wein e Cokrum si fanno ingolosire dall’idea, per quanto mossa principalmente da ragioni commerciali, e cominciano a progettare una squadra nuova di zecca.
Ed ecco che i lettori vedono, su Giant-Size X-Man 1, comparire Tempesta, una giovane nativa del Kenya; Colosso, un armadio a due ante che parla russo; Nightcrawler, un tedesco dall’aspetto bizzarro e capace di teletrasportarsi; Thunderbird, un nativo americano; Sole Ardente, un samurai proveniente dal Giappone, e infine Wolverine, un canadese dotato di artigli indistruttibili, l’unico alla sua seconda apparizione ufficiale. Nessuno poteva immaginare che quell’albo, pensato soprattutto per una vendita all’estero, sarebbe andato esaurito in patria innescando una straordinaria reazione a catena che porterà, qualche anno più tardi, al fumetto di Fenice nera (e non solo).
L’energia cosmica di Claremont e Byrne
I successi editoriali migliori sono quelli che avvengono per caso, perché riescono a sorprendere. Esattamente come Giant Size X-Men 1, che spinse la Marvel a riprendere la serie dei Mutanti da dove si era interrotta e a mettere in cantiere in tutta fretta storie nuove. La storica testata ripartì ufficialmente col numero 94, cifra ottenuta contando insieme gli inediti e le ristampe, e non tradì le aspettative del pubblico, anche perché la Marvel aveva chiamato alle redini un promettente sceneggiatore inglese: Chris Claremont.
Claremont prese il posto di Len Wein e lavorò con Dave Cokrum sull’inserimento graduale delle nuove reclute nel mondo degli X-Men, riportando in auge i personaggi storici come Xavier, Ciclope, Jean Grey e creando un interessante mix.
Ma la serie decollò veramente quando, nel numero 108, Cokrum venne sostituito da John Byrne, un disegnatore britannico residente in Canada.
Claremont e Byrne avevano in verità già lavorato insieme ad un ottimo ciclo di Iron Fist. Tra i due c’era un rapporto molto conflittuale eppure franco, fatto di lunghe discussioni e aiuti reciproci. La loro era una sinergia fortissima ed esplosiva che portò gli X-Men a dei livelli mai visti prima, non solo in Marvel ma nell’intero mondo dei supereroi. Tant’è che la serie, presto ribattezzata col leggendario nome di The Uncanny X-Men, scalò le classifiche di vendita diventando la più importante in assoluto. Lavorarono insieme per ben 35 numeri, sei anni di collaborazione che li imposero come gli autori del momento e che forgiarono le basi dell’Universo X, quello stesso universo di storie che avrebbe appassionato legioni di lettori durante tutti gli anni ’80.
Il fumetto di Fenice Nera fu, senza ombra di dubbio, il loro capolavoro e l’apice di un percorso editoriale cominciato da molto lontano, direttamente dalle prime fondamenta di Lee e Kirby.
Fenice Nera, oltre i limiti dell’universo (e del fumetto)
Abbiamo già detto come la tendenza a creare spartiacque da parte della critica sia spesso il riflesso di una percezione condivisa. Ma le grandi rivoluzioni (lo abbiamo visto) sono frutto del contesto in cui nascono. È impossibile, infatti, pensare che senza il rilancio degli X-Men del 1975 avremmo avuto la Saga di Dark Phoenix, così come Giant-Size X-Men non avrebbe mai visto la luce se i Mutanti non avessero avuto una vita travagliata. E se così non fosse stato, difficilmente avremmo visto all’opera sulla testata due autori freschi, pieni di idee e autentici riformatori come Chris Claremont e John Byrne, che sul fumetto di Fenice Nera diedero la prova migliore della loro giovane carriera.
Una storia il cui inizio è noto a tutti, anche questo conseguenza di una lunga costruzione: Jean Grey scopre di avere incredibili poteri, che vanno ben oltre al di là delle sue normali capacità, che piano piano la corrompono trasformandola in una minaccia di portata cosmica. La storia è, ovviamente, molto più complessa e articolata di così e nel tempo sono stati aggiunti nuovi dettagli, sfumature e spiegazioni; tutte cose che hanno contributo a rendere ancora più affascinante il mistero legato alla Forza Fenice.
Su chi sia (e cosa non sia) Fenice ne abbiamo già parlato (qui), cercando di fare chiarezza per quanto possibile sulla vasta e stratificata mitologia di questa figura, probabilmente uno dei Mutanti più forti mai visti oltre che una delle creature più potenti dell’Universo Marvel, capace di dare fuoco ad interi pianeti senza battere ciglio.
Dunque, eviteremo di aggiungere altro, per non rovinare la lettura a chiunque voglia prima o poi recuperare questa saga memorabile, magari proprio dopo l’uscita del secondo film dedicato al personaggio. Quello che vogliamo fare è soffermarci sulla sua portata, sui suoi temi e sulla sua carica rivoluzionaria e, per farlo, dobbiamo spogliarla di tutti i particolari, di tutte le svolte e ridurla all’osso.
Levare tutti gli strati ad una storia ci permette infatti di guardarla dritta negli occhi, di vedere lo scheletro su cui si regge. E questo ci porta a vedere che il fumetto di Fenice Nera altro non è che la storia di una giovane ragazza che sviluppa il suo vero potenziale e che lotta per rimanere se stessa, per non farsi travolgere dai cambiamenti inevitabili della vita. Si tratta, in buona parte, di una metafora di cosa succede quando si diventa finalmente adulti, di come questo possa distruggerci, oltre che un riferimento più o meno velato all’emancipazione femminile. Anzi, c’è chi sostiene che sia solo la femminilità il vero centro della trama, la sua scoperta fragorosa e improvvisa. C’è addirittura chi parla apertamente di liberazione sessuale, da parte della nostra Jean Grey.
In questo senso, i suoi poteri straordinari sarebbero un riflesso di quella maturazione e la sua inattesa violenza sarebbe dovuta al tentativo di Jean di rendersi autonoma dalle presenze maschili che gravitano su di lei, come Charles Xavier e Scott Summers. Questa prospettiva ha portato, ad essere onesti, anche a diverse accuse di misoginia nei confronti di Chris Claremont, perché gli stessi Xavier e Summers cercano poi di riportarla alla “normalità”, a com’era prima, a quando era niente più che una “fidanzatina d’america” qualsiasi.
Fenice Nera, un fumetto fuoco e complessità
Un’interpretazione forse non troppo campata per aria, visto che il finale originale prevedeva che Jean Grey sarebbe stata privata dei suoi poteri e messa sotto chiave. Lì, come spesso in quel periodo, si intromise l’arrembante Jim Shooter, Editor-in-Chief della Marvel, che impose il finale che tutti conosciamo.
Certo, ad essere sinceri è difficile accusare Claremont di essere contro le donne, visto che proprio sugli X-Men ha creato straordinari personaggi femminili come Rogue e Kitty Pride. Oppure, al contrario, dandole un’inedita prospettiva femminista coscienziosa, si potrebbe vedere nel fumetto di Fenice Nera perfino un monito che ci indica che le donne, emancipate dal volere degli uomini, devono cercare di non cadere nei loro stessi deliri di onnipotenza, di essere migliori, per non andare incontro ad una fine orribile.
Io personalmente preferisco vederci un ammonimento contro la corruzione causata dal potere, una corruzione che può colpire chiunque, anche i migliori di noi, i più buoni e onesti, come Jean. Ma riconosco che pure le altre interpretazioni possibili sono più che valide. In fondo, è esattamente questo il bello della Saga di Dark Phoenix: la sua complessità, le sue conflittualità e la sua portata sono tali che non è facile dargli un significato univoco e ognuno può trovarci dentro quello che vuole.
Non a caso, non si era mai visto niente del genere prima nei comics e quando uscì sconvolse i lettori, creò uno intenso dibattito e dimostrò che i supereroi potevano trattare temi raffinati e titanici, diventando la pietra di paragone per ogni grande saga mai fatta successivamente.
Infatti, definire questo racconto un “classico” o cercare di inquadrarlo in una prospettiva critica rischia di non dargli la dovuta giustizia. Per molti, questa è semplicemente la miglior storia a fumetti mai realizzata.